Rota
Lungo la via Braccianese Claudia, alla confluenza del
fosso Verginese nel fiume Mignone, ai piedi di Montisola, sopra ad un
pianoro tufaceo che ricorda l'antica "Castellina"
etrusca, all'altezza di m 195 s.l.m., emerge il
Castello di Rota in un aspro ambiente naturale dove gli animali bradi osservano
con curiosità i fazzoletti di terreno coltivato. Per la lontananza dalle grandi
vie di comunicazione e per la riservata quanto austera posizione, il Castello
ha ancora il potere di suscitare delle suggestioni rievocando visioni
medioevali. Sono sensazioni che si avvertono particolarmente nelle ore
notturne quando, accompagnati dalla spettrale illuminazione lunare, qualche
luce del Castello segnala la presenza umana nella solitudine della notte. Li
quadretto diventa autentico nel momento che la nebbia copre di mistero l'intera
vallata. Fotografare Rota è estremamente difficile
per la cronica mancanza di documenti e studi specifici. Si proverà, comunque, a riattaccare i cocci dei vaso frantumato
fornendo alcuni cenni che permettano di inserire Rota nel contesto storico del
Comprensorio onde poter confrontare le sue vicende con quelle dei Castelli
limitrofi. La storicità di Rota va attribuita soprattutto alla sua posizione
che fa del colle un preciso punto strategico nella valle delimitata dai corsi
d’acqua dei Mignone, del Verginese e del Lenta. La sua posizione di
controllo e una certa fertilità delle zone adiacenti hanno consentito la
presenza continua delle varie civiltà storiche. Anche se è probabile lo stanziamento di genti che modellavano la pietra, le prime
testimonianze archeologiche risalgono all'età del Bronzo. E’ di quest'età il ripostiglio segnalato nei pressi dei Castello. Sono state recuperate delle asce da
parte di Carlo Lepri del Marchesato di Rota. Una di
queste è stata depositata presso il Museo Civico di Allumiere. Una finalizzata indagine archeologica potrebbe svelare la presenza etrusca presso il pianoro di
Rota. Di fatto, però, le sue fortificazioni naturali consentono di
riconoscervi la “ Polis ”etrusca, forse sepolta sotto l'attuale Castello. Pur
modesta, è una delle numerose "Polis" dislocate lungo la Valle del Mignone dove le necropoli, ancora inesplorate
sistematicamente (1),testimoniano un consistente
numero di abitanti. E’ probabile che Rota etrusca sia nata per controllare lo snodo viario del fondovalle e particolarmente la presunta
via che univa Cere a Tarquinia. Infatti in etrusco
le strade e le stazioni stradali sarebbero chiamate "Ruda".
Il termine deriverebbe da un comune ceppo indoeuropeo da cui la francese
"Route", l'inglese "Road" e le italiane "Rotta" e "Rotabile". L'architettura
tombale e i corredi funerari delle necropoli circostanti sono confrontabili con
quelli di Cere. Pertanto, è da ritenere che anche l'etrusca Rota abbia seguito le vicende storiche di Cere orbitando
sotto la sua influenza territoriale e culturale. Interessante ma d'incerta collocazione è l'ara tufacea situata in località "S.
Pietro". Le osservazioni avanzate per l'epoca etrusca sono analoghe per quella
romana. Ma Rota romana è più riconoscibile ed è possibile proporre il IV e il III sec. a.C., quale inizio dell'urbanizzazione romana. E’ ancora visibile la porta
romana, con arco a tutto sesto, situata presso l'antico ingresso dei "Pagus"
(uno dei "novem pagi "della valle del Mignone?) e, decisamente importante, è possibile individuare il tracciato della Via
Cornelia che, secondo la carta proposta dal Canina, costeggiava il colle
tufaceo di Rota. Nei dintorni, in località "La Botte", si possono riconoscere
delle fondamenta di strutture romane. Ai fini dello sfruttamento delle risorse
minerarie (nel caso specifico l'uso dell'allume), potrebbe essere decisiva la
struttura coeva (comunemente detta "Villa rustica”) situata in località "Seccareccio " e che ha le caratteristiche di una antica
conceria. Anche se qualche studioso ha opportunamente avanzato l'ipotesi dell'origine longobarda (da "Rode"="torre
fortificata”) l'Alto Medio Evo di Rota è ancora privo di validi supporti
documentari. Sembra comunque accertata la presenta
longobarda dal casuale rinvenimento di due sepolture attribuibili a tale epoca.
In un documento del IX secolo attestante la
delimitazione del Vescovado di Tuscania sono
menzionati "ad buttem aquaeductus" e "in strata B. Petri Apostoli". E’ singolare constatare come presso Rota la toponomastica locale vi riconosca "La
Botte" e "S. Pietro. E’ un ,osservazione che,
se convalidata, permetterebbe di rivolgere l'indagine in tale settore spiegando
numerosi interrogativi. La più valida testimonianza archeologica dei Medio Evo è fornita da primitivo "Castrum " di Rota costruito forse sulle preesistenti strutture etrusche e romane.
Circondata dalle nuove costruzioni, si riconosce la tufacea torre quadrata e le
merlate mura di cinta che dominano la valle sottostante. La loro architettura è
confrontabile tipologicamente con quelle originarie
di Monterano, S.Giovenale e Civitella Cesi.
Attorno ai resti medioevali di Rota si è sviluppato
l'attuale Castello Baronale ed il Borgo. Se le risultanze archeologiche forniscono una precisa testimonianza, i documenti medioevali si
aprono con vistose incertezze per la difficoltà di stabilire a quale Castello
siano pertinenti, tenendo presente che di Rota ne esiste almeno un altro (2).
Nel XII secolo è documentato il pirata Gerardo di Rota nella protesta avanzata ai Consoli di Pisa. Nello stesso secolo è menzionato il Monastero di San Pietro di Rota.
Secondo il Martinori il Castello di Rota apparteneva agli Annibaldi di cui un ramo prese il nome di "della Rota". Nel XIII secolo sono documentati vari personaggi di Rota tra cui un Annibaldo, cittadino romano e devoto alla Sede
Apostolica, e un Riccardo attestato nel 129 I. A qualunque Castello siano pertinenti i documenti, la comune
denominazione suggerisce un'identica origine. Medesime incertezze si registrano
per stabilire da quale Comune dipendesse Rota in
questo periodo. Sta di fatto comunque che i Comuni
di Viterbo e di Corneto (odierna Tarquinia) si
contendevano l'egemonia della nostra zona per cui si presume che anche Rota
fosse tra i beni contesi. Secondo la carta proposta dal
Battelli sulle Diocesi nei secoli XIII e XIV, Rota è indicata sotto
quella di Sutri e in territorio sutrino si trova nell' elenco edito dal Tomassetti. Rota è ulteriormente indicata in
Diocesi di Sutri nel 1656 con una popolazione di 73
anime che diminuiscono a 70 nel 170 I. Sempre in Diocesi sutrina si trova nel 1708 con 43 anime che salgono
a 60 nel 1736 e a 65 nel 1742(Corridore). D'altronde, fino ad oggi gli abitanti
del Castello hanno svolto le loro pratiche ecclesiastiche presso la Curia
Vescovile di Sutri. Vige, tuttora, l'usanza della
"Sacra Visita" che il Vescovo di Sutri e Nepi compie ogni cinque
anni in questo Castello. Il primo documento che offre una precisa visione
storica di Rota è contenuto nella "Margarita Cornetana". Il 6 gennaio 1300 Odduccio eVeraldo,
figli del fu Guitto, assieme ai fratelli Simone e Guittarello, il nipote Cola ed i loro consorti, nel prestare atto di
vassallaggio al Comune di Corneto, si dichiararono
proprietari della quarta parte dei Castelli di Tolfa Vecchia, S. Arcangelo, Monte Monastero, Civitella e
"Castro" Rota. Dichiararono altresì di amministrare le parti rimanenti per
conto dello stesso Comune. L'atto di vassallaggio è l'epilogo della guerra
mossa nel Natale 1299 dai Guastapane di Tolfa Vecchia ai parenti Guastapane di Monte Monastero a causa del modo fraudolento con cui erano stati spartiti i Castelli. Alla guerra
sarebbero dovuti intervenire gli Anguillara che
vantavano diritti su questi stessi Castelli. L'unico vincitore fu il Comune di Corneto che, tramite Pietro di Oddone di Vico, avocò il territorio conteso. Dal documento si può
dedurre che i territori erano frazionati ed appartenenti ad una lunga serie di
condomini, che anche Rota passò sotto la giurisdizione dei
Comune di Corneto e che gli Anguillara, o per parentele o per peculiari vicende
medioevali, già all'epoca avevano allargato (o tentato di allargare) il loro
dominio territoriale fino ai Monti della Tolfa. Dai
registri del consumo del sale risulta che Rota ("Rote"
o "Rotarum') era tassata per 5 rubbia semestrali per una popolazione calcolabile intorno al centinaio
di abitanti. Dal registro dei 1416 Rota è elencata tra le terre "distructe et in habitate "a
testimonianza di un certo stato di abbandono dei "Castrum " in conseguenza, forse, della nota peste del 1348 o per la malaria. Tra i
maggiori protagonisti della storia dei Monti della Tolfa figurano (i fratelli Ludovico e Pietro Tingedio (detto anche d' Elassona).
Essi segnarono una tappa significativa ed il
preludio dell'industria alluminifera tofetana acquistando da una lunga seri di condomini prima i 12/30 e successivamente i
18/30 di Tolfa Vecchia. il Dal Silvestrelli si apprende che nell’ acquisto del
1448 fu compresa anche Rota. E’ ancora presto seguire nei dettagli vari
passaggi a causa dei frazionamento del territorio.
E’ comunque testimoniato che l'ormai "Casale "di
Rota fece parte integrante dei Patrimonio degli Anguiliara che si sostituirono nella potenza al Prefetti di Vico. Con Everso il patrimonio degli Anguillara raggiunse la massima espansione e risulta che il
Casale di Rota fu ereditato da Antonello da Forlì, marito di Cassandra figlia
di Everso. Risulta ancora che Rota e Santa Pupa (Manziana) furono
contesi tra gli Anguillara e gli Orsini. Se Eugenio IV decise la fine dei Di Vico, Paolo Il pose termine alla
brigantesca potenza degli Anguillara tanto da
ricevere le congratulazioni del Cardinale Ammannati.
Si presume che gli Anguillara tentassero di essere messi a parte degli utili della industria
alluminifera, ma andarono a scontrarsi con la volontà monopolizzatrice di Paolo
Il. che, impegnato a fondo nella gestione
dell'industria, decise di fare "terra bruciata" attorno al cuore economico
dello Stato della Chiesa. Alla morte di Everso (1464) i suoi principali eredi furono i
figli legittimi Francesco e Deifobo. Quest'ultimo si era creata una certa fama d'uomo
d'armi combattendo nella fila della Compagnia di ventura del Piccinino. Inizialmente Deifobo prestò atto di omaggio a Paolo II, ma poi venne meno alla parola data. Nel 1465 Paolo Il Inviò
l'esercito pontificio che, in pochi giorni senza combattere, confiscò il
patrimonio degli Anguillara. Furono confiscati,
pervenendo così alla Camera Apostolica: Vico, Giove, Carbognano, Caprarola, Stigliano, Ronciglione, Capranica, Vetralla, Blera, Viano, Monterano, Rota, Ceri, Tolfa Nuova, Calcata, Carcari, Monticelli, Santa Pupa, Santa Severa e metà, diCerveteri. Quattro anni dopo fu concordata,
la vendita di Tolfa Vecchia con le annesse miniere.
E’ altresì documentato che nello stesso anno Paolo Il acquistò Monterano, Ischia e Rota da
Galeotto, figlio illegittimo di Everso (Sora),
definito "dominusTulphae Veteris", che presumibilmente aveva reclamato i suoi diritti. E’
evidente quindi uno stretto rapporto di Rota con Tolfa Vecchia la prima ridotta ad una tenuta, la seconda al
centro dell'attenzione per l'industria alluminifera. All'epoca di questi
fatti le tenute di Rota e di Monterano fruttavano al Doganiere duc. 104 e bol. 52 (Anzillotti).
Dopo la sconfitta degli Anguillara e la confisca
dei loro beni, le vicende storiche di Rota seguirono
quelle dei Castelli e delle tenute dell'entroterra. Nel 1478 Rota fu ceduta (insieme a Viano,
ad una parte di Monterano ed Ischia tra Veiano ed Oriolo -) a Pietro Millini che, come da contratto, la retrocedette l'anno successivo. Rimase alla Camera Apostolica fino al 1481 quando Sisto IV della Rovere la
passò al nipote Bartolomeo della Rovere insieme a Viano,
Ischia, Cerveteri e Stigliano in compenso dei Feudi che costui aveva ceduto all'Abbazia di Ferentillo. Alla morte di Sisto IV (1484) Deifobo tentò di rioccupare queste terre. Il
tentativo fallì ad opera di Innocenzo VIII che
scacciò dalle stesse terre Ascanio e Giacomo, figli di Deifobo. Per completare l'opera, Innocenzo VIII, trascurando il
testamento di Domenico Anguillara del1489, aggiunse
nel 1490 alla Contea di Anguillara anche Rota, Cerveteri, Ischia, Viano e Monterano e
l'assegnò al proprio figlio Franceschetto Cibo al
prezzo simbolico di un calice d'argento all'anno. Ma Franceschetto Cibo, pur avendo opportuni legami politici con i Medici,
avendo sposato Maddalena figlia dei Magnifico, non
possedeva la stoffa dello statista e, alla morte del padre (1492), si vide
costretto a vendere la Contea agli Orsini,
confinanti potentissimi. Un primo contratto di vendita, per 40.000 ducati, fu
stipulato nel Palazzo del Cardinale Giuliano della Rovere il 3 settembre 1492,
presso la Chiesa di S. Agnese di Roma. "Franc. Cybo.... vendidit... D. Gentili Virginio Ursinio de Aragonia,
Baroni rom. seren. Regis Ferdinandi generali capitaneo Tagliacotii Albeque comiti..... Castrum Cerveteris....Monterani....
tenimenti Castri diruti sive Casalis Rotae.... partem Ischiae, totum et integrum Castrum Anguillariae. Quindi il documento conferma la
distruzione del 'Castrum " di Rota e la sua riduzione a Casale. La vendita turbò i sonni e i sogni di Alessandro VI (Rodrigo Borgia) che, con un machiavellico piano politico-militare, intendeva
porre sul trono di Napoli suo figlio Jofrè Borgia. In pratica la cessione dei possedimenti a
Gentile Virginio Orsini, capo della più potente
famiglia baronale romana dell'epoca e partigiano fedele del Re di Napoli,
ostacolava i progetti del Borgia e ne bloccava le
mire espansionistiche. In un intrecciarsi di interessi politico-economici, soprattutto sulla contesa per gli appalti
dell'industria alluminifera e della Dogana dei Pascoli, il Papa protestò ed il
Re di Napoli convinse l'Orsini a trattare per
addivenire ad un accordo. Il 2 gennaio 1493 Franceschetto Cibo riconfermò il contratto di vendita includendo Stigliano al posto del Castello di Anguillara e scendendo con il prezzo a 30.000
ducati: "Magn. et Excell. D. nus Franc. Cybo genuensis.... dominus et verus patronus Castrorum Cerveteris, Monterani, Viani, Balneorum Stiliani, Casalis Rotae et partis tenimenti Ischiae, vendidit Ill.mo D.no Gentili
Virginio de Aragonia, Taliacotii Albaeque comiti, serenissimis Regis, Ferdinandi armorum gen. cap. licet absenti et magn. viris dno Georgio Sanctae Crucis de urbe et d. no Sante de Vetulis de Curcumello eius procuratoribus.... praetium XXX millia ducatus in aureo
de Camera...”. Contemporaneamente fu siglato l'accordo anche per il Castello di Anguillara. Il Papa
pretese da parte di G. Virginio Orsini il pagamento di 35.000 ducati in cambio dell'investitura dei territori come di
un Feudo ecclesiastico. Il debito contratto da Gentile Virginio Orsini nei confronti di Franceschetto Cibo fu estinto nel15 1 8 da
Porzia Savelli-Orsini. Pertanto fu trovato l'accordo mediato dai Medici e forse con l'intervento di Giulia Farnese. Distolte le mire dal Regno di Napoli, i Borgia si rivolsero verso l'Italia
centro-settentrionale. GentileVirginio Orsini allo scopo di stornare l'ingordigia dei Borgia, ritenne opportuno disfarsi dell'ingombrante acquisto cedendo al proprio figlio naturale
Carlo i territori di Cerveteri, Anguillara e Stigliano.
Nello stesso giorno donò Rota, Viano e Ischia a Giorgio Santa Croce, suo cognato, marito di Gerolama
Paola Orsini. Con tali cessioni
Gentile Virginio Orsini ottenne diversi scopi: far
credere ai Borgia di non voler disturbare i loro
progetti espansionistici: procurarsi dei vassalli forti e sicuri; creare
intorno al Feudo di Bracciano una specie di "stato cuscinetto". Per
seguire il filo conduttore sul tema specifico di Rota, si riportano i passi
principali dell'atto di donazione redatto a Bracciano il 12 settembre 1493:
“... giovedì duodecimo del mese di settembre.sia
noto a tutti...come l'Ill.mo Signor Virginio Orsini d'Aragona Conte di Tagliacozzo, Regio Capitano Generale delle genti d'arme. dona, e a
titolo di donazione irrevocabile cede e concede al magnifico e Valoroso
Condottiero Signor Giorgio Santa Croce, cittadino romano per se e i suoi figli
maschi discendenti per sesso maschile in infinito l' infrascritto Castello e i
luoghi e i tenimenti con le infrascritte condizioni, modalità e riserve. Tutto l'intero Castello di Viano, posto nella Diocesi di Viterbo, al quale sta
da un lato il tenimento del Castello di Capranica,
dall'altro il tenimento del Castello di Monterano,
dall'altro il tenimento di Santa Pupa, dall'altro il tenimento di Vicarello e dall' altro il tenimento di Barbarano e Civitella parimenti dona tutto l'intero tenimento del Castello diruto o Casale, detto volgarmente ROTA, al quale sta da una parte il
detto Castello e tenimento di Monterano, dall'altra
Monte Castagno, dall' altro l'infrascritto tenimento di Ischia” In sostanza veniva creato un nuovo Feudo composto da Viano, Ischia e Rota, ma con clausole assai
limitanti. Infatti venne previsto che in caso di
morte dei Santa Croce il Feudo sarebbe ritornato agli Orsini, clausola che sarà determinante successivamente. Inoltre venne previsto che "... detto castello di Viano.e i detti tenimenti siano sempre soggetti
alla protezione e alla raccomandazione “ (degli Orsini)
e che ".i detti tenimenti siano tenuti e debbano rimanere in perpetuo
confederati con tutte le altre terre (degli Orsini)
". L'anno successivo (1494) ci fu la discesa di Carlo VIII per rivendicare i
suoi presunti diritti sul regno di Napoli. Gli Orsini abbandonarono il Re Ferrante e si schierarono dalla parte dei Francesi
permettendo a Carlo VIII di porre il suo quartiere d'inverno in Bracciano. Ma la spedizione del Re Francese si risolse in un
mezzo disastro e ben presto gli Spagnoli di Napoli ripresero il loro posto. Gli Orsini si trovarono, così, da soli a fronteggiare
gli eserciti di Giovanni Borgia che misero a ferro e fuoco tutta la nostra zona. Una dopo
l'altra le munite Rocche degli Orsini si arresero
alle armi dei Borgia. Solo
Bracciano non fu espugnato. Viano, capitale
del Feudo (di cui faceva parte anche Rota), fu distrutta ed il Castello,
riedificato da poco da Giorgio Santa Croce, fu raso al suolo. E probabile che anche Rota subisse le angherie dei Borgia. L'esercito dei Borgia fu sconfitto a Soriano nel 1497, ma la loro vendetta fu comunque compiuta. Nel1503 i sicari dei Borgia uccisero molti Orsini e giustiziarono Giacomo Santa
Croce non riuscendo a colpire Giorgio Santa Croce. Gentile Virginio Orsini morì avvelenato nel 1497 mentre era
prigioniero a Napoli. I Santa Croce rimasero comunque padroni del Feudo e posero mano alla ricostruzione sulle rovine
causate dai Borgia. A Giorgìo I Santa Croce, soldato di ventura sotto le insegne di Camillo Orsini, successe il nipote Gìorgio II. Ad esso successe Onofrìo I, figlio di Giorgio I, che pur essendo un
soldato dì ventura al servizio della Repubblica di Venezia, si occupò
moltissimo dell'amministrazione del Feudo. Spettano ad Onofrio I la
ricostruzione del Castello di Viano, l' applicazione dello "Statuto Orsini" e alcuni lavori di restauro del Casale di Rota. Infatti si ha notizia di alcuni lavori eseguiti
prima del 1553. Sempre ad Onofrio I spetta la
edificazione della Cappella Santa Croce nell'abitato di Viano. Nel 1551 Scipione Santa Croce successe ad Onofrio I. Scipione,
vescovo di Cervia, riformò lo "Statuto Orsini"
affidando l'incarico al fratello Giorgio nel 1571. Seppe unire la veste di
pastore delle anime a quella di signore giusto e
generoso. Morì nel 1581. Negli anni 1555-56 a Scipione subentrò
nell'amministrazione dei Feudo il fratello Giorgio
III che fu il fondatore di Oriolo negli anni1560-62. Si ha notizia di alcuni lavori eseguiti a Rota negli
anni1557-58-59 da un certo Maestro Francesco, scalpellino. In particolare venne costruita la stalla per i numerosi animali
della tenuta. Intanto che Giorgio III Santa Croce iniziava la costruzione
ex-novo dell'abitato di Oriolo, Fabio II, suo
fratellastro ebbe l'amministrazione di Rota. Fabio Il era anch'egli un prode soldato come molti dei suoi antenati. Infatti era il comandante della piccola flotta di galere che Sisto V
aveva allestito per la difesa costiera del Lazio dai pirati barbareschi.
Sull'esempio di Giorgio anche Fabio si mise al lavoro per ristrutturare
l'antico abitato di Rota e il Castello. Portò a
termine le costruzioni iniziate da Onofrio I e fece sorgere dalle rovine un
piccolo villaggio ben ordinato e in linea con le regole urbanistiche che
Giorgio stava mettendo in pratica, in scala maggiore, per la costruzione di Oriolo. Fece costruire presso
Rota un molino ad acqua con la diga e l'edificio per ospitare le macine. Costruì anche una piccola
Chiesa dedicata a San Gerolamo (probabilmente perchè sua nonna era Gerolama Paola Orsini) e riportò ad
essere abitabile il Castello aggiungendovi altri ambienti. Ma la cosa più
interessante, in anticipo sul tempi, fu quella di
far edificare una serie di abitazioni poste in linea in cui ogni singolo
elemento abitativo risulta sfalsato rispetto al precedente, per seguire il "natural declivo", cioè la pendenza del terreno. Tutte
queste notizie sull'attività edilizia di Fabio Santa Croce a Rota vengono dedotte da certe testimonianze prodotte da
alcuni abitanti del Feudo al processo del 1604 contro Onofrio Il Santa Croce.
Da tali dichiarazioni si evince che i lavori furono sicuramente effettuati da Fabio Santa Croce e che tali opere
furono compiute prima del 1587. Infatti sembra che
in tale anno morisse Fabio II, probabilmente in combattimento. Queste
testimonianze riportate dal Bruschi sono del
seguente tenore: "Il Sig. Fabio" aveva fatto
costruire "un molendino e haveva fatti molti miglioramenti nel Palazzo e stanze di detto Castello
le quali anco si vedono fatte de novo et me pare che fossero da otto stantie de sopra et doi de basso......et che vi spese gran denari ....” "Il Sig. Fabio ha
fabbricato al Castello di Rota et teneva un maestro
che chiamava M° Martino, il quale io ho vistofabricare ....” "Maestro Martino..... il quale non ho visto fabricare ma so per inteso
che detto Maestro Martino con delli mastri muratori haveva fabbricato la maggior parte del Palazzo di
detto castello et ci ha fatto anchora altre fabbriche come la legha (la
diga dei molino) della Mola et la Mola istessa da grano con l'accassamento et una rimessa per la carrozza lontana dal Castello
....”. Il Maestro Martino citato nelle testimonianze è
probabilmente identificabile con Martino Longhi,
architetto molto famoso in quel periodo. Potrebbe essere lo stesso
progettista dei Palazzo Santa Croce e dell'abitato
di Oriolo anche se i pareri su questa attribuzione non sono del tutto concordi. Comunque tutti i miglioramenti fatti da Fabio Santa
Croce nel Castello di Rota furono valutati in sede processuale per la somma di
7.000 scudi. Oltre ai lavori eseguiti, è anche possibile conoscere quale fosse stato il territorio amministrato da Fabio II.
Nella Costituzione di Gregorio XIII (1580) sono menzionati i territori che
componevano la Dogana dei Pascoli della Provincia del Patrimonio. Tra essi sono indicati nel territorio
della Tolfa: "Il Piano delle Cisterne", "Le Prata", Il Piano del Santo", Il Poggio della
Stella", e le tenute di Fabio Santa Croce volgarmente dette: "Il Pereto ", "Rota Roggio ", "Seccareccio ", "Radicata ", "Pizzo Tufo "
di Monterano, "GrottaSolara " o "Salara " (attualmente denominata "Monterosano'),
"Campetto" o "Campello" in territorio di Oriolo (De Cupis). Alla stessa epoca va registrata una
notevole recrudescenza del brigantaggio nonostante l'energica lotta condotta da
Sisto V. Nel settembre1593 i briganti assaltarono "La Fiore" (una piccola
Comunità di "Ca-pannari "che stava tra Oriolo e Mariziana) provenendo dal confinante territorio di
Bracciano. Onofrio II, che era succeduto nel 1591 al padre Giorgio III nel
Feudo di Oriolo, Viano e
Rota, fece armare i "terrazzani" (=cittadini) di Oriolo costituendo una specie
di milizia cittadina. Questo gesto valse probabilmente ad allontanare i
briganti da Oriolo. Tuttavia i briganti non desistettero e nel mese successivo
si schierarono sui Monti della Tolfa per attaccare Rota che era il punto più debole dello
schieramento difensivo di Onofrio II. Conosciuto il
pericolo che correva il Feudo e preoccupato degli interessi della zona
mineraria, il Papà Clemente VIII mandò in aiuto dei Santa Croce un piccolo
esercito. Questo continente militare si accampò a
Monte Castagno, nel territorio di Tolfa, per
circa due mesi. Da questo luogo e con tecniche di contro-guerriglia, il piccolo
esercito riuscì in poco tempo a disperdere i briganti. Cessato il pericolo, si assiste alla prima testimonianza di vita religiosa sinora
conosciuta presso il Castello di Rota. Si tratta della visita pastorale
effettuata nel dicembre 1593 dopo quella di Tolfa. Il pessimo stato di conservazione del
manoscritto da cui proviene la notizia non consente una lettura completa,
tuttavia il testo menziona il Castello di Rota, la Chiesa di S. Gerolamo
trovata danneggiata forse a seguito del brigantaggio, il Tabernacolo in legno coperto da un conopeo di seta e l'avvenuta
celebrazione della Messa. Ulteriori testimonianze di
religiosità sono contenute nella narrazione dei fatti della Madonna di Cibona di Tolfa: nel
1638 una tal Caterina "da Ruota" andò alla Chiesa di Cibona per ringraziare la Madonna della cessata epistassi; nel 1639 una
tal Sabatina di Francesco (moglie di Francesco) "da Ruota" si recò presso la
stessa Chiesa per ringraziare la Madonna dello scampato pericolo di morte per
aborto. Per ritornare sulle altre vicende storiche, va detto che con Onofrio Il
tutto il Feudo cadde in una profonda crisi economica anche perché il Santa
Croce non si interessava più dell' amministrazione.
Non casualmente nel 1598 lo affittò, con un contratto di sette anni, ai
fratelli Francesco e Marc'Antonio Varesi. Risulta che nello stesso anno il Feudo era amministrato da un certo Gaspare de Romanis. La fortuna dei Santa Croce subì un
tracollo alla morte di Giorgio III (1 59 1). I suoi
eredi (la moglie Costanza, Onofrio Il e Paolo) abbandonarono quasi del tutto i
nostri territori risiedendo a Roma o a Subiaco. Per
motivi economici iniziarono dei dissidi tra la madre Costanza ed il figlio
minore Paolo. Quest' ultimo pretendeva che sua madre Costanza lo avesse nominato erede della parte
di Feudo ad essa spettante. Al diniego della madre Paolo rispose con ferocia. La notte tra
il 4 e il 5 settembre 1599 Costanza fu trovata trafitta da colpi di pugnale nel
suo letto. Paolo e alcuni suoi domestici, Luciano ed il Romagnolo, erano
fuggiti nel Regno di Napoli. Il Governatore di Subiaco (luogo nel quale avvenne il matricidio) Giulio Carretti scrisse al Governatore di Roma Mons. Taverna
questa lettera: "Il Signor Paolo Santa Croce il quale è stato qui questa
estate con la Signora Costanza sua madre, questa mattina avanti giorno l'ha
morta in letto, et con un suo staffiere detto il
Romagnolo ed un altro, Luciano, se ne fuggito. Ho spedito avviso alli Vi-carii acciò faccino la debita
sorveglianza, sebbene non spero effetto alcuno per aver avuto il tempo di
salvarsi e per stare a cavallo e perché facilmente potrà capitare a Roma per
pigliare denari...Subiaco 5 sett. 1599". Questa
cosa fece gioire il Card. Aldobrandini, nemico
personale di Onofrio. Inoltre in quegli anni dopo il
fratricidio dei Massimo e il parricidio Cenci non parve vero al Cardinale-nepote chiudere i conti con la
burrascosa e mutevole aristocrazia romana per far posto ai nuovi nobili che
ogni Papa suoleva portarsi dietro. Quindi si organizzò una montatura per far condannare
prima i Cenci e poi i Santa Croce. E si fece di
tutto per poter chiamare in correità anche Onofrio Il che era del tutto
estraneo alla vicenda. Paolo infatti era fuggito nel
Regno di Napoli dove morirà nel1601. Onofrio, invece, fu catturato mentre
usciva dal Palazzo Orsini a Montegiordano in Roma. Sotto tortura fu costretto a confessare di
essere il mandante di questo matricidio. Il processo si concluse il 31 gennaio 1604 con la condanna a morte di Onofrio per
decapitazione. Onofrio Il lasciò, oltre la moglie,
anche un'unica figlia Elena Maria. La Camera
Apostolica, secondo la sentenza del Tribunale, confiscò tutti i beni dei Santa
Croce. Curatore degli interessi della Ca-mera Apostolica nel Feudo, dal 1604al
1606, fu il Cardinale di S. Eusebio il quale fece compiere altre opere a Rota sotto la direzione di Girolamo Rainaldi, architetto, che si avvalse dell'opera di
M° Silvio e M° Nicolò Carabella, muratori. Contro
la sentenza di confisca dei beni fece ricorso la vedova di Onofrio 11, Erminia Mattei, la quale
sosteneva come la sua dote personale fosse stata fondata sul Feudo. La Camera
Apostolica riconobbe i suoi diritti e le rimborsò venticinquemila scudi. Fecero
ricorso anche i Santa Croce del ramo di Rota nella
persona di Marcello, discendente di Fabio II. La Camera Apostolica non li
liquidò in denaro ma li fece rientrare in possesso di alcuni beni dei Santa Croce in Viano e
precisamente: la Rocca, la casa e la Cappella Santa Croce, il giardino con la
pescheria, le tenute di "Monte Stefano", "Fontiloro ", le 'Prediche " di "Sterpeto " e "Paterno ",
"Vigna Grande" e "Chiusia ". Con i terreni i Santa Croce ricevettero anche lo “jus patronatus " delle Chiese di Viano. Anche gli Orsini fecero ricorso alla Camera Apostolica sostenendo, in base alla donazione del
1493, che tutto il Feudo sarebbe dovuto ritornare a loro essendosi estinta la
linea maschile diretta dei Santa Croce. La Camera però accontentò solo in parte
gli Orsini i quali furono unicamente incaricati di
amministrare il "Monte" appositamente creato con i
rimanenti beni dei Santa Croce (Oriolo, Rota e parte di Viano). Virginio Orsini non rimase affatto
contento della risoluzione della Camera. Comunque ottenne la proprietà assoluta (con atto del Notaio Giacomo Bulgarini in data 8 novembre1606) di Oriolo, Rota e parte di Viano accollandosi l'onere dei "Monte" per una
somma di 130.000 scudi. (Il "Monte " era un procedi-mento finanziario a cui
ricor-reva lo Stato Pontificio quan-do aveva bisogno di denaroper contingenti situazioni po-litiche o per estinguere i debiticontratti con le - oligarchichefamiglie romane. Il "Monte" era garantito dauna rendita e venduto ad unabanca che collocava i titoli sulmercato ad una determinataprovvigione. L'affluenza delpubblico determinava il corso.Tra i numerosi "Monti" varicordato quello garantitodalle rendite dell'allume,chiamato "Monte dell'allu-me" che fu eretto da PaoloIV (Carafa) nel 1557 con uninteresse del 12%.) Pertanto da questa data,
Rota, Monterano, Oriolo, una parte di Viano, Canale di Magliano,
Monte Sassano (così si chiamavano all'epoca Canale
M. e Montevirginio) fecero parte di un unico
Governatorato con sede a Viano. Intorno al 1635 il Governatore spostò la propria sede ad Oriolo. Per conoscere
meglio Rota nel Comprensorio, a seguito delle migliorie apportate dai Santa
Croce, si riportano gli importi della tassa del macinato
pagata dalle nostre Comunità; nel1649: Bracciano sc. 267; Formello sc.44; Anguillara sc. 66; Palo sc. 16; Trevìgnano sc. 45; Rota sc. 24; Vicarello sc. 25; Viano sc. 56; Cesano sc. 20;Cerveteri sc. 66; Galeria sc. 36; Oriolo sc. 51; Monterano sc. 66. Nel 1664 gli Orsini, in piena crisi economica, vendettero Rota ai Baldinotti. Pur rimanendo sotto il Governatorato di Oriolo, Rota fu eretta in Marchesato. Lo stemma
araldico dei Baldinotti campeggia sopra la porta dell'attuale Castello di Rota. Un frammento
d'iscrizione nella Chiesa Parrocchiale di San Gerolamo di Rota riporta il nome
di Cesare Baldinotti forse a ricordo delle "Ordinationi per il Buon governo d'esso loco e sue giurisditione" emanate dallo stesso Marchese nel
1669. Sono cioè gli Statuti concessi agli abitanti
del Castello per regolare l'amministrazione generale, in sostituzione dei
precedenti Santa Croce-Orsini. Gli Statuti si
articolano in 40 capitoli e prevedono tra l'altro: l'osservanza delle feste
religiose; i doveri del Governatore in sede penale e civile; la custodia delle
porte (una era quella romana e l'altra era posta nei pressi della torre
medioevale); il modo di procedere nelle cause penali; la presenza del "Balio"
e degli "sbirri", del 'fornaro",
del "macellaro", del "pizzicarolo",
dell’ “oste" e tutti gli altri venditori di "robbe";
la disciplina sulla costruzione di nuove case; la regolamentazione della caccia
con la pena della perdita delle armi e la punizione di tre tratti di corda; la
regolamentazione della pesca sul Mignone; la stima
dei danni arrecati nelle vigne, negli orti, nei canneti e nelle erbe
riguardate; la pena da infliggere ai tagliatori di alberi. In sostanza uno
spaccato di vita civile condotta a quell'epoca nel
Castello di Rota non privo, del resto, delle carceri per i condannati. In
questo periodo i Governatori di Rota appartennero
alla famiglia dei Teofili di Oriolo. Nel 1671 gli Orsini, ormai in pieno marasma finanziario,
vendettero Oriolo, Monterano, Canale, Montevirginio, Stigliano e metà di Viano ai Paluzzi-Altieri. Insieme a questi luoghi gli Orsini cedettero anche il diritto di "redimere" (cioè ricomprare) Rota. Ma di questo diritto gli Altieri non ne usufruirono mai. Infatti alla morte di
Clemente X (E. Bonaventura-Altieri) precipitarono
anch'essi in una profonda crisi economica. Quindi Rota da questa data si staccò definitivamente dalla zona dei Monti Sabatini per gravitare nel Comprensorio dei Monti
della Tolfa. Nel 1672, quando era ancora Pontefice
Clemente X, fu emanato un Bando con il quale si esentavano i territori dei Feudo (Rota compresa) dal vincolo della Dogana
dei Pascoli. Con un altro Bando dell'anno successivo si vietò agli stessi
territori e Comunità di vendere liberamente le erbe ai forestieri e di
affittare similmente i pascoli. Un'altra testimonianza di vita religiosa a Rota
è fornita dalla relazione sulle Missioni dei "Lazzaristi"
tenute nel 1676 dopo quelle di Tolfa: "Alli 2 febraro si fece la Missione di Rota, terricciuola di 60
anime, la quale si terminò in dieci giorni. Detto luogo è vicino alla Tolfà et è del Sig. Marchese Baldinotti il quale ivi trovandosi coi lavoranti cooperò che si
comunicassero 200 huomini nella solita Comunione
Generale. I SS.ri Lorenzo e Guglielmo furono gli operatori" (Baldini).
I Baldinotti tennero Rota fino al 1698 quando la
vendettero ai Grillo che la possederono per circa un
secolo. Sotto i Marchesi Grillo, nel 1704, Clemente XI aggiunse alle Comunità
Camerali, anche quelle Baronali tra cui: Civitella (Rospigliosi), Cerveteri (Ruspoli), Montevirginio (Altieri), Oriolo (Altieri) e Rota (Grillo). Lo stemma dei
Grillo è visibile nella Chiesa di San Gerolamo, forse a testimonianza di
una ristrutturazione della Chiesetta Parrocchiale. Nel 1763 Clelia Grillo, Contessa Borromeo, fu autorizzata da Clemente XIII a succedere nel Marchesato di Rota in mancanza di
fratelli. Il 7 febbraio 1789 il Conte Gilberto Borromeo fu autorizzato da Pio VI a vendere il Feudo di Rota al Marchese Giuseppe Ambrogio Lepri. D'origine milanese i
Lepri furono appaltatori dell’industria dell’Allume di Tolfa. Terminato l’appalto nel 1787, i Lepri restarono sul posto ed oggi sono i leggittimi possessori del Castello di Rota che si
trova nella giurisdizione civile e territoriale dei Comune di Tolfa. L'ultima annotazione storica è che anche Rota fu coinvolta nei disastri provocati nelle nostre zone dai Francesi e dal "Giacobini" di Roma
nel 1799. Con l'emblematica decimazione dei Tolfetani, l'incendio di Monterano, le battaglie di Bassano e il
"sacco" di Oriolo, sembra che anche alcune costruzioni di Rota fossero
distrutte dall'ira francese. A conclusione della presente monografia, abbiamo
rivolto a Carlo Lepri le seguenti domande: Qual è stata la successione dei Lepri di Rota? "Dopo la morte di Giuseppe
Ambrogio Lepri (1812), Rota passò a Carlo Lepri (1
764-1846), poi a Luigi Lepri (1801-1880) e da questi a Giovanni Lepri
(1836-1886). Alla morte di Giovanni, Rota passò a Carlo Ambrogio Lepri
(1865-1955) e da questi Gaspare Lepri (mio padre)
attuale proprietario. Insieme alle fasi delle successioni è doveroso ricordare
i Di Mattia (di origine rnanzianese) che dal 1870 sono stati i fattori di Rota. Com'è
strutturata e come va l'azienda Rota? "Il Castello di Rota gestiva una tenuta di circa 2000 ettari (= circa1.200 rubbia) che è stata dimezzata con la riforma. fondiaria del 1954. Attualmente la tenuta di Rota, come gran parte delle terre circostanti, è destinata
all'allevamento del bestiame bovino. Gestire oggi un complesso storico-archeologico è quanto meno dispendioso. Un invito quindi agli Enti preposti alla tutela per una più
fattiva collaborazione. Quale futuro prevede per Rota? "Il futuro di
Rota è legato a quello dei Paesi circostanti e con essi Rota può essere inserita qualitativamente nell'industria del turismo che
dovrebbe coinvolgere l'intero Comprensorio ". Non sappiamo se il presente restauro artigianale del vaso frantumato sia
conforme al crismi accademici nè se verrà accettato
dal vasto pubblico degli interessati alle storie passate. In ogni caso la
presente monografia è il frutto di una pur modesta ricerca, ma scrupolosa e
onesta, volta a valorizzare le "piccole" storie locali, poco note se non
sconosciute e con le quali ci sentiamo culturalmente parte integrante. Alla
prima impressione, quella di Rota è una "piccola" storia, ma letta attentamente
consente di farsi apprezzare sia per la sua continuità cronologica che pochi
luoghi si possono permettere e sia per una migliore comprensione di quella
storia considerata più "grande". In effetti siamo
consapevoli che il "bel mosaico" della vita passata è composto da tanti piccoli
tasselli, tavolta simili e altre voIte di colorazione diversa, tutti però rivolti
alla conoscenza di chi siamo e da dove proveniamo. La presente pubblicazione
(alla quale , avremmo voluto aggiungere tantissime
notizie se il tempo tiranno ce lo avesse permesso) vuole essere anche un invito
a proseguire assieme l'indagine storica dei nostro ampio Comprensorio, con una
costruttiva collaborazione priva di incastellamenti,
personalismi, prese di posizione e soprattutto eliminando l'invadente quanto
dannoso parassitismo culturale.
|