Rota
IL CASTELLO, IL BORGO, LA TENUTA
Monografia
Il castello di Rota sorge a picco su
sasso tufaceo, a quota 191 s/s. a est di Tolfa, dalla quale dista km 6.
Alla base del masso, nella valle, si snoda la strada provinciale
Claudia–Braccianese che, dipartendosi dalla Cassia, alla Storta, in
comune di Roma, va ad unirsi alla Aurelia dopo avere transitato per
Bracciano, Manziana, Rota, Tolfa e Civitavecchia. Il castello, dominante
la chiesa, un modesto nucleo di case e magazzini, è al centro della
tenuta, bagnata dal fiume Mignone e si estende, oltre che in territorio
di Tolfa, anche in quelli di Oriolo Romano e Canale Monterano.
L'intero tenimento venne occupato dagli etruschi, come dimostrano le loro necropoli di Ferrone, Grottini, San Pietro,Conserva. Nessuna traccia di abitazione etrusca si rinviene nella tenuta. I reperti ivi estratti dalle tombe di quell' ancor misterioso popolo risalgono specialmente al V secolo a.C. e sono raccolti nell'importante Museo Etrusco di Tolfa, meta continua di studiosi italiani e stranieri, che ebbe 11 privilegio di essere ammirati anche dal Re Gustavo V, di Svezia, di napo¬leonica memoria, illustre archeologo ed etruscologo. Non si conosce della denominazione Rota, né le origini del vecchio castello e dell'abitato. Circa la origine riteniamo dover segnalare in un cortile interno del più recente castello, é visibile una vecchia torre, in buone condizioni di stabilità, la di cui struttura presenta le caratteristiche del XIV secolo. Inoltre, ad ovest, sorge un antico arco, ben mantenuto, che forse costituì l'ingresso principale del borgo e che dimostra di egualmente risalire a quel secolo. La più recente e documentata notizia storica del castello vecchio e dell'abitato di Rota, risulta da un atto del 29 settembre 1303, riportato dalla Margarita Cornetana. In tale atto, Rota faceva giuramento di sottomissione a Corneto: si vuole che il complesso di Rota appartenesse allora all'antica Famiglia romana degli Annibaldi. In quell' anno Rota, a somiglianza di Tolfa vecchia, ossia Tolfa attuale, nonché di Tolfanova oggi denominata Tolfaccia, di Monte Monastero presentemente diruto e di altri centri urbani, era compresa nel raggio di predominio del potente comune di Corneto, come già s'intuisce con il predetto atto di sottomissione. Nel 1305, pontificando Clemente V, francese (Bertrando di Gont: l305-1314) ebbe inizio il trasferimento della suprema autorità cristiana, da Roma ad Avignone: soltanto dopo 72 anni, ossia nel 1277, papa Gregorio XI francese (Francesco Pietro Roger: 1370 1378) ritornò a Roma: sua naturale sede. Ancor prima che il periodo avignonese avesse termine, ossia nel. 1432, gli Anguillara, che avevano diritti su Tolfavecchia e Rota, vendettero una parte del feudo, meno Rota, a Pensoso di Monterano, riscattandola poco dopo. Nel 1448 il feudo di Tolfavecchia, per la parte comprendente anche Rota, era di nuovo in possesso di Giovanni Anguillara, mentre l'altra parte non riguardante Rota era posseduta da Orso Moraffio, dalla cognata Costanza Orsini e dalla figlia. Fu in quell'anno e precisamente con atto del 16 maggio 1448 che i suddetti condomini di Tolfavecchia, vendettero lo intero feudo ai Baroni Pietro e Ludovico Frangipani, di antichissima famiglia romana. Dopo non molto tempo, ossia nel 1457. Rota venne aspramente disputata tra gli Orsini e gli Anguillara rimanendo in possesso degli ultimi. Fu quello, per Rota, un periodo travagliatissimo. Dalle notizie pervenuteci apprendiamo che,durante la lotta, ebbe luogo, fra le parti in contesa, una sospensione di armi e un convegno che accolse Everso II Anguillara e, per gli Orsini, i familiari del cardinale Latino, Arcivescovo Giovanni, nonché Napoleone e Roberto. Dal convegno emerse specialmente che Rota, Santa Pupa, ossia l'attuale Manziana e Caprarola erano causa di gravi discordie. Nel 1462, pontificando Pio lI (Enea Silvio Picoolomini di Corsignano: 1458-1466) Giovanni Serandi da Castro, ancor più noto quale Giovanni da Castro, figlioccio del papa, scopri nel feudo di Tolfavecchia, un vistoso giacimento di allume ordinario, utilissimo, con opportune manipolazioni, a numerosi scopi, molto raro in Europa e perciò preziosissimo. Da tale scoperta, la Reverenda Camera Apostolica istituzione pontificia adibita alla amministrazione finanziaria della Chiesa romana, ritrasse forti guadagni che Pio II destinò per combattere ed abbattere i turchi, nemici acerrimi del cristianesimo e che, con le loro numerose e quasi sempre vittoriose invasioni, tendevano impadronirsi di Roma e distruggervi la Cattedra di San Pietro. Soltanto nel 1571, ossia dopo oltre un secolo, con la grande sanguinosa battaglia navale di Lepanto, lo scopo di Pio II e dei successori, poté essere raggiunto: ciò si dovette al-la definitiva e risolutiva azione svolta in proposito da Pio V (Michele Ghisleri di Basco Piemonte: 1566-1572) che riuscì a riunire e proiettare contro l'avversario, i migliori navigli e comandanti degli stati cristiani europei. A Pio II, nel 1464, seguì, sul trono pontificio il cardinale Marco Pietro Barbo, veneziano, assumendo il nome di Paolo II (1464-1471). Fece parte del suo programma, la liberazione dello Stato pontificio dai feudatari violenti, predoni, molestatori delle autorità costituite e delle popolazioni: fra essi primeggiava la famiglia degli Anguillara e infatti i suoi componenti erano in permanenza dediti ad aggressioni e costantemente divisi ad affrontare ogni più rischiosa avventura. La famiglia Anguillara deteneva i seguenti feudi: Rota, Stiliano, Monterano, Santa Pupa, Viano, Corano, Vico, Giove, Carbognano, Caprarola, Ronciglione, Capranica, Vetralla, Bieta, Santa Severa, Cerveteri. Scopo del papa fu anche specificatamente quello di abbattere í feudatari che avessero potuto compromettere il libero possesso ed uso, con attacchi di milizie o col fomentare discordie e disordini, delle miniere di allume, da poco scoperte, già molto attive, e che, come già abbiamo riferito, funzionavano nel territorio di Tolfavecchia, ossia prossime a Monterano, Stigliano e a Rota: é intuitivo come fra i feudatari temuti dal Papa, primeggiassero gli Anguillara. Aiutato dal re di Napoli, Ferrante di Aragona, Paolo II, nel 1465, in poche settimane, letteralmente annientò la famiglia degli Anguillara, confiscandone i feudi, che vennero incorporati dalla Reverenda Camera Apostolica. Questa, con atto del 26 ottobre 1478, ossia dopo 13 anni di gestione diretta, vendette il castello, l'abitato e il tenimento di Rota, nonché il feudo di Monterano e il tenimento di Ischia, per il prezzo complessivo di 5.000 fiorini d'oro di camera, a Pietro Millini, di nobile famiglia romana; Roma ancora ne ricorda il nome con la torre che sorge nelle vicinanze di Piazza Navone: Tor Millina. La famiglia Millini, poco dopo l'acquisto, retrocesse Rota alla R.C.A. e questa, nel 1431, vendette il feudo a Bartolomeo Rovere, il quale acquistò anche il castello di Monterano, il tenimento d'Ischia e i Bagni di Stigliano; Bartolomeo Rovere era un familiare del pontefice regnante, Sisto IV (Francesco della Rovere di Nelle, presso Savona:1471-1484). Il successivo anno fu fatale per Rota. Infatti nel 1484 il popolo di Tolfavecchia, già feudo di Fraagipani e posseduto ia quell'ano dalla R.C.A. assalì e distrusse Rota, risparmiando soltanto la vecchia torre, il menzionato arco d'ingresso e invadendo la tenuta: la sua popolazione contava circa 500 unità e riuscì a salvarsi completamente. Si vuole che il tragico avvenimento abbia riportata la tacita approvazione di Sisto IV, approvazione che si palesa strana dal momento che in quell'anno Rota apparteneva al predetto Bartolomeo Rovere. Sta di fatto, comunque che nel caso di atroce violenza spiccatamente medioevale, farse dovuto a motivi di ordine economico e che oggi si direbbe di ordine sociale, venne organizzato nella località, in seguito denominata “Lama del mal consiglio”. Da un documento del 1493, apprendiamo che il feudo di Rota si denominava ancora “castello dirupo” e volgarmente “Gasali di Rota”. (Castrum dirutum, vulgo Casalia Rota nuncupatum). Nel 1484 a Sisto IV succeddette Innocenzo VIII (Giovanni Battista Cybo di Genova: 1484-1492). Con atto del 3 luglio 1489, Bartolomero Rovere, vendette il feudo di Rota, il castello di Monterano, il tenimento d'Ischia e i Bagni di Stigliano a Franceschetto Cybo, appartenente alla parentela di Innocenzo VIII. Questo pontefice passò ad altra vita il 25 luglio 1492: il successivo 3 settembre venne eletto Alessandro VI, spagnolo (Rodrigo Borgia: 1492-1503). Nel breve periodo intercorso fra la morte dell'uno e la elezione dell’altro pontefice, più precisamente con atto del 3 settembre 14.92, Franceschetto Cybo, forse temendo qualche ostilità dal nuovo e straniero papa, vendette Rota, gli altri suoi castelli e Cerveteri a Gentile Virginio Orsini, per il prezzo di 40.000 ducati d'oro. Per ragioni di matrimonio, Gentile Virginio Orsini, con atto 12 settembre 1493, donava a Giorgio di Santacroce, Rota, Veiano e la tenuta d'Ischia. Il castello e la tenuta di Rota rimasero in possesso della famiglia Santacroce dal 1493 al 1600, ossia per un periodo di 107 anni e più precisamente fino a quando un orrendo misfatto condusse quella famiglia alla ignominia e alla rovina. Riteniamo indispensabile segnalare in qual modo abbiano avuto origine la prosperità e notorietà della famiglia Santacroce, come questa acquistasse in molteplici campi notevolissime benemerenze e come un tragico destino l'annientasse con disonore. Il 12 settembre 1493, Gentile Virginio Orsini, conte di Tagliacozzo, alto ufficiale dell'esercito napoletano, donò a Giorgio Santacroce, romano, per motivi di matrimonio e per importanti servizi che aveva praticato in favore di Casa Orsini, i castelli di Rota, di.Veiano e la tenuta d'Ischia. Per brevità non teniamo conto delle successioni verificatesi nella famiglia Santacroce e quindi ci limitiamo a segnalare che dai coniugi Giorgio III Santacroce, quinto Signore di Veiano e Costanza di Giacomo Santacroce, nacquero due figli: Onofrio II e Paolo. Correva l'anno 1600 e pontificava Clemente VIII. (1) Onofrio risiedeva a Roma distinguendosi per la sua signorilità e dedito allo sport, Paolo, temperamento rude, appassionato di agricoltura viveva a Oriolo, paese fondato dai Santacroce e occupava con la madre, il vistoso palazzo baronale, ivi eretto dagli antenati. Egli desiderava che la madre, vedova da tempo, lo avesse nominato erede universale di ogni suo bene, molto più che il fratello Onofrio; poiché con testamento del 13 novembre 1578, aveva ereditato dalle zio Scipione Santacroce, il castello di Rota e quello di Veiano, la madre ritenne opportuno non aderire al desiderio del figlio. Costui, in seguito, si vuole per vendetta, comunque senza reale fondamento, sospettò che la madre avesse mancato e mancasse tuttora ai doveri morali di vedovanza e, annuente il fratello Onofrio, decise di ucciderla. Così avvenne. All'albeggiare di una triste mattina lo snaturato Paolo, con vari colpi di accetta vibratele alla testa, uccise la infelice madre mentre ancora essa dormiva a letto. Fuggito precipitosamente da Oriolo, Paolo si rifugiò a Napoli ave morì l’anno successivo, 1601. Onofrio, nulla sospettando gli potesse accadere, rimase a Roma. L'autorità inquirente, incaricata di svolgere immediate indagini sull'accaduto, appurò che la vittima, Costanza Santacroce, era affetta da idrofrisia. Appurò inoltre ed esibì durante il processo, sollecita mente svoltosi, la esistenza di un biglietto nel quale Onofrio Santacroce consigliava il fratello Paolo, che gli chiedeva come comportarsi in proposito, di risolvere il caso alla maniera degli antichi cavalieri di onore, il che voleva significare doversi uccidere la madre. Condannato a morte mediante decapitazione, Onofrio Santacroce, salito sul palco appositamente eretto di fronte al Castel Sant’Angelo e poco prima di essere giustiziato, rivolse alla immensa moltitudine presente, indirizzandole particolarmente ai giovani, nobili parole di esortazione e d'incitamento a sempre amare e onorare il padre e la madre. Tutti i beni dei Santacroce, compresa Rota vennero confiscati in favore della R. C. A. Allorquando venne eseguita la macabra operazione riguardante il Santacroce, i cittadini di Roma erano ancora emozionati per la decapitazione che aveva avuto luogo nell'anno precedente, sul medesimo posto quella cioè di Giacomo, Lucrezia e Beatrice Cenci, rea, questa, di parricidio. Le vicende emozionanti di Roma non erano ancora terminate. Fu, infatti, nel 1604 che, sulla vasta piazza di Campo di Fiori venne, per eresia, bruciato vivo il monaco Giordano Bruno, filosofo dottissimo, insegnante, a Parigi, presso la Sorbona ove aveva criticato alcuni dogmi della Chiesa cattolica; un monumento lo ricorda tutt’ora sul luogo “ove il rogo arse" come ebbe ad esprimersi l'eminente giurista e filosofo Giovanni Bovic (1814-1903). 11 1600 fu, adunque, per i romani, un anno denso di sinistre emozioni, alquanto mitigate dal XII Giubileo che, forse appositamente, Clemente VIII promulgò e che dileguò alquanto con l'affluenza di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo cattolico, la pesante atmosfera che gravava sulla Città Eterna. Riprendiamo, cronologicariente, quanto forma oggetto principale di questa monografia. Abbiamo già affermato che la famiglia Santacroce aveva pieno diritto di vantare larghe benemerenze, le riepiloghiamo: Si dovette a quella famiglia la fondazione di Oriolo Romano che oggi conta … abitanti, le erezione, in quel paese del maestoso palazzo baronale attualmente in possesso di Gasa Altieri, la costruzione di parecchie strade esterne si sospingono in più direzioni nella campagna tuttora esistenti, opportunamente migliorate e molto utilizzate. I Santacroce possedettero Rota nel periodo 1493-1600, perciò per oltre un secolo e vi costruirono l'ampio, più recente castello dalle linee armoniche che ancor oggi si ammira, perché in ottime condizioni di manutenzione: riedificarono l'intero borgo che nel volgere di pochi anni ospitò merosi abitanti, Sotto il dominio dei Santacroce, Rota godette di molta pace, di assoluta tranquillità, di benessere. Nè mancò, ai feudatari il godimento di possedere opere di alto valore artistico, tutt' ora meta di ammiratori: vogliamo riferirci agli affreschi che in tre saloni, siti al primo piano del castello, eseguirono i fratelli Taddeo e Federico Zuccari, nativi di S. Angelo in Vado, provincia di Pesaro e Urbino. I fratelli Zuccari furono pittori celebri ed arricchi¬rono delle loro opere anche il palazzo costruito dai Santacroce in Oriolo Romano, il castello di Bracciano, già degli Orsini oggi della Casa Odescalchi, la Cappella Gentilizia dei Frangipani in San Marcello di Roma, nonché, soprattut¬to, la Sala Regia e la Cappella Paolina, in Vaticano. Si debbono ai fratelli Zuccari anche due quadri esistenti a Tolfa nella Chiesa Agostiniana detta "La Sughera", iniziata da Agostino Chigi, senese, il “grande banchiere” della cristianità e rappresentanti: Sant'Agostino - Santa Monica, nonché San Tommaso da Villanova Per completare l'argomento, soggiungiamo che Taddeo Zuccari nacque nel 1529 e mori nel 1566 perciò passò ad altra vita nell'ancor giovane età di 37 anni, avendo, comunque, il tempo di produrre una straordinaria quantità di celebri affreschi murari e quadri, nonché di avviare, nella medesima arte, il fratello minore, Taddeo che, nato nel 1342, mori nel 1609, dopo avere emulato, in quantità e qualità di pittore, il fratello maggiore. Trascorso l'accennato periodo di tranquillità, Rota dovette sottostare ad altri feudatari ed assistere ai loro litigi. Contro la confisca dei loro beni, insorsero la vedova di Onofrio II, Erminia Santacroce e gli Orsini, esponendo in sede competente, motivi, molto validi, in fatto e in diritto. Dopo qualche anno Erminia Santacroce venne tacitata dalla reverenda Camera Apostolica, con 25.000 scudi, ma anziché il danaro le si concedette una parte delle terre già confiscate, ma non comprendenti Rota: con la rimanente parte dei feudi incamerati, compresa Rota, si fondò un istituto di beneficenze o “Monte” affidandone l'amministrazione agli Orsini e del quale, poco dopo, precisamente con atto dell'8 novembre 1606, Virginio Orsini divenne padrone assoluto e perciò, di nuovo, feudatario di Rota. Sembra, tuttavia, che ogni vertenza non fosse ancora definita o, per lo meno, perfezionata se si considera che Paolo V (Camillo Borghese, romano: 1605-1621) con decisione del 1 ottobre 1617, destinava i castelli di Rota, Oriolo, Verano e la tenuta d'Ischia, a Virginio Orsini, duca di Bracciano, incorporando altresì il preesistente Monte di Veiano al Mornte Orsini. Scoppiò, nel frattempo, una lite molto aspra fra gli Orsini e gli eredi di Onofrio II Santacroce, con vittoria dei primi. Nel 1613, sotto la data del 25 maggio, risulta che Rota era in possesso di Paolo, Giordano Orsini. Gli eredi Santacroce non rimasero tranquilli dopo la prima sconfitta che comportò la perdita quasi totale dei loro feudi e continuarono il litigio, ma non contro gli Orsini, bensì fra loro stessi per il riconoscimento e possesso della primogenitura: nel 1628 la lite era ancora in piedi fra gli eredi di Onofrio Santacroce ed Ortensia Santacroce, per il fidecommeso di Rota e Veiano, lite che certamente si risolse nel nulla qualora si consideri che gli Orsini continuarono a detenere Rota, tranquillamente, cioé senza essere disturbati. Anche Casa Orsini era fatalmente destinata al decadimento, tanto che, alla fine del XVII secolo, la Reverenda Camera Apostolica ne incasserà i beni vendendoli successivamente e contribuendo in tal modo, a formare il dominio degli Altieri su Veiano e Canale, nonché degli Odescalchi a Bracciano. In conseguenza di quanto sopra Rota venne acquistata, nel 1664, da Cesare Baldinotti, di famiglia romana. Nel 1667, papa Alessandro VII (Fabio Chigi, di Siena 1655 - 1667) eresse Rota a Marchesato. Il neo Marchese, Cesare Baldinotti si prodigò in tutti i possibili modi per rendere fiorente il suo feudo, facendogli fra l'altro, con idonee provvidenze, raggiungere e superare i 600 abitanti: é doveroso affermare, adunque, che Rota non aveva mai, in precedenza, goduto di così lar¬ga floridezza.Il Baldinotti ebbe anche in programma di stabilire ottimi rapporti di buon vicinato con i confinanti centri abitati. In proposito gli amministratori della vicina Tolfavecchia, dopo avere definito il Marchese Cesare Baldinotti “concittadino” gli conferiscono in data 24 novembre 1648, l'incarico di trattare a Roma, gli interessi della comunità. Sospinto dal desiderio di instaurare a Rota, sebbene modesto borgo, una disciplinata convivenza collettiva, il Marchese Cesare Baldinotti promulgò l'inerente atto normativo, ossia lo Statuto del quale diamo un ristrettissimo sunto. Premettiamo che lo Statuto venne firmato dal Marchese Cesare Baldinotti nella sua villa di Belleveduta, il 15 gennaio 1669. Pontificava in quell' anno Clemente X, che doveva in quello stesso anno, passare ad altra vita. (Giulio Rospigliosi di Pistoia: 1667-1669). Desta alquanto interesse l'apprendere come lo Statuto venne, sotto forma di pubblico istromento, rogato e con quale modalità proclamato. Per incarico di Ettore Capalti, Ministro di Casa Baldinotti, il Notaio della Diocesi di Sutri, Antonio Fratini, di Tolfa, rogò, nel Castello di Rota, nell'appartamen to del Capalti, la Statuto, alla presenza di due testimoni, che Furono Federico di Flaminio e Francesco di Tomaso. La proclamazione avvenne a Rota con solennità il 14 febbraio del medesimo anno con l'intervento del Balio della Terra di Tolfa, Olimpio Sabatino, il quale, dopo avere giurato, lesse dinanzi al popolo, con alta, intellibile voce, nella principale pubblica piazza, l'intero Statuto. I Capitoli dello Statuto sono 40.
Il primo é costituito dalla
"Osservanza delle Feste" formula con la quale, in quei tempi,
normalmente si dava principio a documenti di tal genere.
I successivi capitoli riguardavano gli obblighi del Governatore, prima autorità esecutiva: riguardano inoltre la custodia, la sicurezza del castello, nonché le infrazioni, gli accertamenti, le sanzioni riflettenti in linea giudiziaria la materia penale e quella civile. In materia penale la condanna si estendeva a seconda del crimine fino alla confisca dei beni, alla "galera", alla esecuzione capitale. Sanzioni alquanto rigorose erano stabilite a carico di coloro cbe avessero ostacolato l'opera del "Balio, degli Sbirri, degli esecutori, degli altri ministri di giustizia". In materia civile le infrazioni previste furono moltissime. I negozianti dovevano possedere la licenza di eserci¬zio, praticare il giusto peso e la giusta misura, vendere i generi di ottime qualità: norme speciali vennero stabilite per la pesca e per la caccia. Essendo Rota abitata prevalentemente da lavoratori agricoli lo statuto prescrisse norme speciali a protezione di vigneti, orti, canneti, “ristretti”, semine di cereali, leguminose, canapa nonché, a difesa degli alberi fruttiferi. Allo scopo di evitare, incendi nelle campagne, case spesso avveniva, lo Statuto prescrisse che le stoppie, ossia il residuo delle varie semine, non venissero date alle fiamme, com’era necessario, prima della ricorrenza di Santa Maria d'agosto, ciò allo scopo di compiere tale lavoro allorquan¬do erasi, come di consueto, verificata qualche pioggia. Con strumento del 18 dicembre 1698, redatto dal notaio della Reverenda Camera Apostolica, Amati, il Castello di Rota venne venduto al Duca Francesco Grillo, di Genova. La vendita venne fatta “a carico del Marchese Cesare Baldinotti ad effetto di erogare il prezzo in dimissione dei di lui debiti ed era fatta tale vendita dalla Congregazione dei Baroni mediante chirografo pontificio ed eseguito da Monsignore Corsini, Tesoriere”. Pontificava, in quell'anno, Innocenzo XII (Antonio Pignatelli, di Napoli: 1691-1700). La vicenda di cui sopra non diminuisce gli eccezionali meriti che il Marchese Cesare Baldinotti acquisì a vantaggio del Castello di Rota. I Grillo ebbero molto a cuore il feudo. Circa le loro benemerenze é doveroso segnalare la costruzione della chiesa, eretta al margine di un vasto piazzale e ove ancor oggi si celebrano le sacre funzioni e che i munifici feudatari arricchirono di un quadro pregevolissimo rappresentante San Girolamo: di casa Grillo si conserva inoltre, nell'interno dei castello, una graziosa cappella fornita di pregevoli arredi sacri. Anche fra i componenti da famiglia Grillo sorsero, alla pari di altre famiglie, numerose discordie originate da molteplici interessi riguardanti, in modo speciale le successioni e le divisioni dei beni. Pu in forza di tali dissidi e delle conseguenti decisioni giudiziarie che il castello di Rota pervenne al Conte Gilberto Borromeo Aresi. Della famiglia Grillo era rimasta una sola donna la quale sposatasi al conte Borromeo Aresi, di Milano, ebbe un figlio, ossia il conte Gilberto Borromeo Aresi, nelle di cui mani, passò il fendo di Rota, ma per pochi anni perché egli con atti Notar Mariotti, Segretario di Camera e Pellegrini notar capitolino, datati 20 febbraio 1789 vendette il castello e la tenuta per il prezzo di 91.00 scudi, al marchese Ambrogio Lepri. La Casa Lepri detiene tutt'ora il castello e parte della tenuta, come in seguito, con maggiori dettagli, segnaleremo. Siamo certi che non dispiacerà al cortese lettore se andremo a segnalare brevi notizie sulla famiglia Borromeo, che fu una delle più nobili casate italiane e di fama inernazionale: di questa ne ebbe a beneficiarne anche il modesto feudo di Rota. Si deve alla famiglia Borromeo la istituzione dell'omonino Collegio in Pavia e la fondazione della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Fra i suoi componenti, apparisce con grande risalto San Carlo Borromeo, nato nel 1538 e passato ad altra vita nel 1584: la sua festa ricorre il 4 novembre. Nepote di Papa Pio IV (Giovanni Medici, di Milano: 1559-1565), San Carlo Borromeo, quale arcivescovo di Miano pose ogni sua attività per riformare i costumi del clero e riaffermare l'ortodossia. Né dimenticheremo Federico Borromeo, nato a Milano nel 1564, cugino di San Carlo, cardinale a 23 anni, erudito, umanista, arcivescovo di Milano. Il suo nome ha oltrepassato i confini della patria ed é conosciuto in tutto il mondo, quale uno dei più importanti personaggi del celebre romanzo di Alessandro Manzoni: I Promessi Sposi, riflettente il periodo del suo arivescovado e cioè allorché egli ebbe a prodigarsi con altissimo spirito di altruismo e abnegazione durante la carestia che nel 1627—1629, funestò la capitale lombarda e du¬rante la successiva peste che decimò quella popolazione. Il nostro personaggio fu molto ricco, potente e tuttavia umile, mansueto, rassegnato ad ogni evento. Egli al pari di San Gerolamo che ci richiama il Santo protettore di Rota, nonché il quadro situato sull'altare della chiesetta, ebbe in santa e speciale considerazione, la donna cristiana, giudicandola quale uno dei pilastri sostenitori della società umana. Conseguentemente il Borromeo stimò moltissimo la contemporanea Caterina Vanini, ossia Santa Caterina da Siena, con la quale, sebbene ella fosse quasi illetterata, intrattenne un evangelico epistolario, da cui emerse, Fra l'altro, che la Santa, scrivendo, si esprimeva con semplicità, ma chiaramente, nella dolce, armoniosa parlata toscana. Federico Borromeo, passò ad altra vita nel 1631. Ritorniamo agli argomenti principali della nostra monografia. Rota nel periodo che fu in possesso del Marchese Cesare Baltinotti, della Reverenda Camera Apostolica e dei Marchesi Grillo e Borromeo, godette, come segnalammo, molta tranquillità e prosperità: ciò si verificò, non solo per la saggezza dei feudatari, ma anche per la fortunata coincidenza che nella vicina Roma, i vari pontefici regnanti, in quel periodo, governarono pacificamente o quasi il loro stato. Durante il pontificato di Pio VI (Giannangelo Braschi, di Cesena, 1775-1799), la situazione ebbe radicalmente a modificarsi in conseguenza delle vicende napoleoniche e sebbene Rota, non ne subisse danno, riteniamo opportuno prospettare al cortese lettore, un sintetico quadro storico di quegli anni agitatissimi, ossia degli avvenimenti che investirono Roma, il pontefice, alcuni centri abitati prossimi al castello e all'abitato in esame: ci riferiamo ad Allumiere, Tolfa, Monterano e Manziana. Pio VI, nemico della rivoluzione francese, venne costretto dal generale Bonaparte, che agiva per conto del Direttorio e dopo alcune vicende, a firmare, il 19 febbraio 1797, il Trattato di Tolentino, riunciando ad Avignone, già residenza dei pontefici, a Ferrara, Bologna, Ancona e a pagare una fortissima indennità di guerra, nonché a cosegnare quadri, manoscritti, statue. Nel maggio 1798, Napoleone, tutt’ora generale, era in Egitto, a capo di un forte esercito: scopo della spedizione fu quello di avanzare fino alle Indie e colà colpire l'Impero coloniale Inglese. La distruzione della flotta con la quale napoleone e¬ra sbarcato in Egitto, avvenuta nella baia di Abukir nei giorni 1,2,3,agosto 1798, ad opera di quella inglese, comandata dall'Ammiraglio inglese Nelson, la peste che infierì nelle truppe francesi ed altre circostanze, costrinsero il Bonaparte ad abbandonare l'impresa, non senza, comunque, riportare diverse vittorie sui turchi. In quello stesso anno, 1798, un esercito francese, comandato dal generale Berthier, entrò in Rana ove, nell'anno precedente era stato ucciso, durante una sommossa, il generale Duphat e vi proclamò la repubblica facendo prigioniero il papa Pio VI che, confinato a Valenza, vi morì il 29 agosto del successivo anno 1799. La proclamata repubblica investi l'intero stato pontificio che venne presidiato da truppe francesi. Napoleone era a Parigi, intento col fratello Luciano, a provocare la sostituzione del Direttorio con un Consolato di tre componenti, dei quali egli si proponeva essere il primo, con poteri quasi sovrani. Molti centri laziali abitati si opposero alla occupazione francese: in tale opposizione si scorgono, in modo particolare i sentimenti patriottici che, dopo 72 anni dovevano concretarsi a prezzo di lotte cruente e col sacrificio di numerosi martiri, nella sospirata unità e indipendenza politica d'Italia. Fra le popolazioni che si opposero al giogo delle truppe francesi, vi furono quelle di Civitavecchia, Allumiere, Tolfa: comandante militare delle truppe occupanti in quella zona, fu il generale Giuseppe Merlin. Civitavecchia venne assediata e fu costretta dopo prolungata, eroica resistenza a capitolare. Raggiunto quel primo obiettivo, il generale Merlin, attuando una operazione a linee convergenti, si volse alla conquista di Allumiere e Tolfa, dividendo le truppe in 3 colonne, e stabilendo il seguente piano di operazione. Obiettivo comune: Chiesa di Cibona. Prima colonna, alle dipendenze del Comandante di battaglione dell'esercito francese; Guillaume: muovere da Tarquinia, superare il fiume Mignone, raggiungere l' Eremo della Santissima Trinità: in caso di resistenza conquistare la ribelle Allumiere e poscia raggiungere Cibona. Seconda colonna, al comando del Generale Merlin: partire da Civitavecchia e percorrendo la strada provinciale raggiungere Cibona. Terza colonna, affidata al Comandante di mezza brigata dell'esercito francese, Vuillerme: iniziare la marcia di avvicinamento da Santa Severa, attraversare il bosco delle Spiagge, raggiungere Cibona. La prima colonna, giunta poco oltre il Santuario della SS. Trinità e superata, in località "Trincee" la tenace, eroica resistenza opposta dai difensori, penetrò in Allumiere accanitamente contesa, saccheggiandone molte case, l’unica Chiesa, facendo molte vittime e raggiungendo poscia Cibona La seconda colonna giunse tranquillamente a Cibona. Anche la terza vi pervenne in condizioni identiche, ma dopo avere rimosso numerosi sbarramenti allestiti con alberi abbattuti, per ostacolare la marcia, ci si avvicina all'epilogo del dramma. I1 14 marzo 1799 fu giorno tragico per Tolfa e ancor più tragico, estremamente luttuoso doveva essere quello successivo. La sera del 13 marzo, a Cibona, il generale Merlin ordinò alle truppe di conquistare Tolfa, ad ogni costo, nel mattino del giorno successivo. Eseguendo tale ordine i francesi, pervenuti nella località Croce di Cibona, incontrarono la prima resistenza superata con relativa facilità e proseguirono raggiungendo i1 convento e la Chiesa della Sughera, ove il generale Merlin pose il suo quartier generale. L'assalto al paese avvenne mediante l'impiego delle truppe a tenaglia e cioè divise in due colonne intente contemporaneamente a comprimere l'avversario. Una colonna, comandata dallo stesso Merlin, segui la strada che dalla Sughera tutt'ora conduce al Convento dei Cappuccini e da questo si lanciò all'attacco, asprisissimo, contestato palmo a palmo. La seconda colonna percorse la strada provinciale, oggi rettificata, ma tutt'ora esistente, che dalla Chiesa della Sughera conduce al margine dell'abitato di Tolfa, nei pressi ove sorge il monumento dedicato ai Caduti nella guerra italo austriaca 1915-1918. Anche quella colonna si lanciò all'attacco, contrastato ancor più della precedente. Quel che segui, nell'uno e nell'altro attacco, assunse un carattere apocalittico, dovuto all'accanita resistenza dei tolfetani e alla ferocia degli assalitori: incendi, saccheggi, devastazioni: tre sacerdoti vennero catturati, quasi denudati, privati delle scarpe e, legati, furono condotti, a piedi, nella chiesa della Sughera. Citiamo altro episodio perché poco noto. Una donna di dubbia fama, soprannominata "Bellona” uscita di casa per accogliere gli invasori, mentre con larghi e invitanti gesti si rivolgeva ai primi francesi apparsi, venne colpita a morte riversandosi sulla strada: il fatto venne a verificarsi nei pressi ove sorge, ai nostri giorni, il predetto monumento. Castigo di Dio? Stava cadendo il giorno allorquando i difensori stremati, ma pur sempre decisi a non darsi vinti e sperando in aiuti, si asserragliarono nel dominante cocuzzolo del Monte della Rocca, nei ruderi del castello Frangipani, che i francesi cinsero subito di assedio. Nel fatal giorno successivo il generale Merlin promise ai tolfetani ampio perdono purché i difensori si recassero tutti alla Sughera per ivi depositare le armi, cosa che essi fecero nel pomeriggio, fidando nella correttezza dei francesi. Compiuta tale operazione i disgraziatissimi difensori di Tolfa, con a capo i tre sacerdoti catturati il giorno precedente, vennero, all'opposto, schierati lungo la strada provinciale che pur oggi, rettificata, fronteggia la chiesa nonché il convento della Sughera e colà, senza alcuna eccezione, fucilati nel numero di 124. Una carica di cavalleria costituì per gli agonizzanti, il colpo di grazia, mentre il sole stava nascondendosi nelle onde del non lontano Tirreno e mentre sul tragico luogo cadeva la notte, piovigginosa, con la quale doveva inserirsi nella storia l'infausto giorno del 15 marzo 1799. Il castello di Rota, irto sul suo macigno di tufo, nella stessa guisa del castello dell'Innominato al passaggio dei lanzichenecchi di manzoniana memoria, vide, qualche giorno dopo, transitare, indisturbato, ai suoi piedi, lungo l'attuale strada provinciale Claudia-Braccianese, una parte delle medesime schiere francesi che tanto lutto avevano seminato ad Allumiere e a Tolfa, dirette a Monterano e a Manziana. Monterano, già in gran parte, da parecchio tempo abbandonato dagli abitanti a causa della malaria, venne dai francesi trovato pressoché deserto e non molestato. Proseguendo nella loro avanzata, quelle truppe giunsero, pacificamente, a Manziana, limitandosi a piantare, in quella piazza principale “l’albero della libertà" com'era loro costumanza. Anche durante il lungo pontificato di Pio VII (Barnaba Chiaramonti, di Cesena: 1800-1323) eletto in conclave svoltosi a Venezia e durante le guerre combattute da Napoleone in Italia e altrove quale primo Console, Imperatore dei francesi, Re d'Italia e persino oltre la sua morte avvenuta nell'isola di S.Elena il 5 maggio 1821, il castello e il borgo di Rota, godettero della più completa tranquillità: egualmente dicasi per il successivo periodo che si concluse nel 1870.
In tale anno e cioé durante il più che trentenne pontificato di Pio IX (Giovanni Maria dei conti Mastai Ferretti di Sinigallia: 1846-1878) si verificò la caduta del potere temporale del papato e la unificazione d'Italia con Roma capitale del nuovo Regno e con Vittorio Emanuele Il a suo sovrano, discendente di Umberto Biancamano di Savoia. Riferendoci ancor più direttamente a Rota ci incombe l'obbligo di segnalare che in tale periodo il castello e il borgo ebbero anche il privilegio di accogliere un valente storico, del quale andiamo a tracciare la sintetica biografia: ci riferiamo al sacerdote Filippo Maria Mignanti. Nato a Tolta il 23 agosto 1810, da antica e distinta famiglia, il Mignanti studiò, in collegio, a Ronciglione; ordinato sacerdote esercitò il sacro ministero nel paese natio e, nel 1834, quale Arciprete, nella vicina frazione di Rota. Trasferitosi a Roma, svolse ottimamente l'incarico di precettore nella famiglia del Marchese Girolamo Sacchetti: in quella biblioteca attinse un cospicuo patrimonio storico che, con la successiva aggiunta di altre vaste notizie, diligentemente assimilate, doveva costituire, come costituì, la sua copiosa produzione. La maggiore opera del Mignanti s'intitola “Istoria del la sacrosanta patriarcale Basilica Vaticana, dalla sua fondazione sino al presente” edita nel....: Benefiziato di San Pietro, scrisse: Chiesa della Madonna della Sughera, Eremo della Trinità, chiesa della Madonna di Cibona. Chiesa e Santuario della Madonna delle Grazie; produsse inoltre alcune opere agiografiche, fra le quali: Suor Maria Teresa Sacchetti, Servo di Dio Vincenso Roncani, oltre a numerosi scritti su matrimoni, compleanni, onomastici; appartenne, con molto decoro, alla notissima Accademia dell'Arcadia. Nelle sue opere l'autore, oltre a elargire un vasto patrimonio di notizie storiche riflettente l'oggetto principale, offre al suo lettore; con prodigalità, una copiosa messe di notizie accessorie, interessantissime, che vanno dal IV al XIX secolo dell’Era Cristiana. Ci duole constatare come il Mignanti non abbia tramandato notizie su altri edifizi religiosi di Tolfa, quali la cattedrale di S. Egidio Abate, la chiesa dei Cappuccini, la Chiesa della Rocca ed altre: certamente ne fu impedito dalla morte che lo colse in Roma il 30 ottobre 1867 alla età di 57 anni. Ci duole anche come il paese natio non abbia inteso ancora il dovere di intitolare ai suo illustre figlio,una piazza o una via. Ritornando alla diretta ed esclusiva trattazione storica di Rota, riferiamo che anche nel periodo che va dal 1870 al 1968, ossia fino ai giorni attuali, quell'appartato angolo laziale continuò a non subire turbamenti, salvo sporadici episodi ambientali e sebbene abbia assistito, dal 1940 al 1945 alla spaventosa tragedia che va sotto il nome di "seconda guerra mediale" combattuta e perduta dall'Italia a fianco della Germania, contro la coalizione degli Stati Uniti d'America, Inghilterra, Francia e di numerosi altri stati: né conseguenze subì sebbene testimone della successiva, tremenda, nostra guerra civile. A seguito dell'ultima sconfitta si verificò in Italia Il re Vittorio Emanuele III, dopo avere abdicato, durante il conflitto, a Favore del figlio, Umberto II, si trasferì in esilio, in Egitto, ove morì nel 1947, all'età di 78 anni. Anche Umberto II, a conflitto ultimato e cioè con la definitiva caduta della monarchia, andò esule nel Portogallo, ove tutt'ora ha la sua residenza. Coloro che nei tempi a noi meno lontani, maggiormente beneficarono Rota con le loro saggie provvidenze, furono i marchesi Cesare Baldinotti e Carlo Lepri, padre dell'attuale possesore, Marchese Gaspare Lepri, impossibilitato a emulare i predecessori, per i motivi che esporremo. Sul Baldinotti ci intrattenemmo già e quindi ci riferiamo ora, sul marchese Carlo Lepri. Si deve a questi l'ottima acqua potabile di cui Rota dispone, proveniente da lontana sorgente; inoltre si deve al medesimo e al fratello Giuseppe il salvataggio del tenimento dalla tentata sua mutilazione, basata in materia di usi civici: a quanto sopra si aggiunge che spetta al marchese Carlo Lepri sulla conclusione e produttività del comprensorio. Su tali argomenti ritorneremo in dettaglio per poscia concludere, riferendoci alla attuale situazione agraria della tenuta, imposta dalla odierna legge che riflette la cosiddetta “Riforma fondiaria della Maremma” e riferendoci altresì alle odierne condizioni del castello, dell'abitato, del tenimento. La trattazione dei predetti argomenti e di un episodio di carattere storico locale, ci costringono riferirci quale punto di partenza, nell'anno 1913. Precedentemente a quella data, erasi costituita a Tolfa una “Lega Braccianti”, organizzazione di lavoratori agricoli intesa a migliorare le loro disagiate condizionieconomiche utilizzando la terra, che pertanto veniva desiderata e ricercata per poi essere sottoposta ad utilizzazione, specialmente con semina a cereali. I braccianti agricoli di Tolfa, che già avevano invaso e utilizzato altro appezzamento di territorio di proprietà della locale Università Agraria, speciale Ente pubblico, esistente in pochi comuni d'Italia, si accinsero a ripetere quell'azione nei confronti di Rota e dopo fallite trattative svolte con i proprietari Marchesi Carlo e Giuseppe Lepri, decisero invadere la zona già prescelta. Si era nel settembre del 1913, allorquando una numerosa colonna di appartenenti alla Lega Braccianti, aumentata da altri contadini, fornita di bandiere rosse, mosse da Tolfa verso Rota. La progettata invasione, che consistette in una materiale presa di possesso della zona predestinata, ebbe luogo senza inconvenienti: fu al ritorno dei lavoratori a Tolfa, che, jn piazza Vittorio Emanuele, per poco non avvenne un tragico avvenimento. Le autorità locali, a scanso della loro responsabilità, prevedendo disordini, provvidero ancor prima che gli invasori ritornassero in paese, a richiedere e far giungere a Tolfa, in servizio di Pubblica Sicurezza, un reparto del 59 Reggimento Fanteria, di stanza a Civitavecchia e vi giunsero anche numerosi agenti addetti a simili servizi, comandati da un loro Delegato che, per legge, assumeva la direzione dei tutelatori dell'ordine pubblico. I dimostranti, di ritorno da Rota, di adunarono nella anzidetta piazza Vittorio Emanuele e, forse eccitati da agitatori politici forestieri, come di sovente accadde, in quei giorni per lo stesso motivo, in altri paesi laziali, si abbandonarono a parole, a gesti, atti non permessi. Ad un certo momento il Delegato di Pubblica Sicurezza, visto il peggiorare, anzi il precipitare della situazione, cinse la prescritta sciarpa tricolore e ordinò al trombettiere del reparto militare, per disperdere la folla di emettere i prescritti tre squilli: ordinò nel contempo, al reparto dell'esercito, tenersi pronto a far fuoco sulla folla, previo altro ordine. I tre squilli emisero il loro impressionante suono: la folla dopo un attimo di incertezza ondeggiò per poi definitivamente, con alquanta confusione, abbandonare la piazza: ogni dimostrante raggiunse subito la propria abitazione. Ai tormentati giorni che culminarono con la descritta invasione, seguirono a Rota alcuni anni nei quali i proprietari fratelli marchesi Carlo e Giuseppe Lepri, dovettero sostenere una vertenza giudiziaria di carattere civile, importantissima e complessa, nei confronti della Università Agraria di Tolfa. Tale Università era ed é tuttora, non un centro di elevati studi agrari, come potrebbe supporsi, bensì una amministrazione pubblica sottoposta alla vigilanza e alla tutela dell'autorità governativa, ossia prefettizia; la sua origine e vistosa proprietà terriera, risale alla fine del XV secolo: in Italia ne esistono pochissime e soltanto nel Lazio. L'accennata vertenza che, per sommi capi, ci accingiamo ad esporre, scaturì da presunti usi civici, gravanti sul tenimento di Rota, a favore della popolazione di Tolfa e riguardanti specialmente la semina, il pascolo, il legnatico, la spigolatura, l'uso di falce. Gli usi civici consistono tuttora in diritti reali, spettanti ad alcune popolazioni, su determinati terreni. Secondo specializzati cultori di tale materia gli usi civici risalgono a tempi antichissimi, e cioè a quando, i terreni furono comuni a tutti: secondo altri la ebbero conseguentemente a concezioni medioevali. Il caso di Rota rientra nella seconda interpretazione. Non è compito nostro seguire la vertenza sotto l'aspetto giuridico: ci limitiamo perciò a farne la semplice cronaca. La locale Università Agraria, quale rappresentante della popolazione di Tolfa, cita in giudizio, nel secondo decennio del 1900, dinanzi al competente Commissario addetto alla liquidazione degli usi civici per la circoscrizione del Lazio, i Marchesi Carlo e Giuseppe Lepri, fratelli, comproprietari di Rota, per sentirsi dichiarare che su quel tenimento gravavano gli usi civici riguardanti la semina, il pascolo, il legnatico, la spigolatura, l'uso di falce ed altro.Fabio Rosaspina e Duilio Partini, i marchesi Lepri ebbero gli avvocati Filippo Pediconi e Antonio Sante Mentorelli, tutti del Foro di Roma, specializzati. Esiste in proposito una dotta elaborata relazione del Prof. Giacomo Serci dell'Istituto Storico, Elevati, interessantissimi furono gli argomenti legali e storici esposti dai valorosi professionisti nel corso del giudizio. Al termine di questo il predetto Commissario sentenziò in favore dei marchesi Lepri, i quali, pertanto, evitarono che parte della loro tenuta venisse attribuita in proprietà, come nel caso opposto la legge prevedeva, alla Università Agraria e per essa alla popolazione di Tolfa. Si stava ancora svolgendo 1a controversia riguardante gli usi civici, allorquando ebbe a verificarsi l’episodio, già da noi definito storico, Il Comando della Scuola Centrale Militare di Fanteria con sede a Civitavecchia, stabili di svolgere, nel terminato di Rota a scopo addestrativo, una “esercitazione a fuoco” Questa consisteva, in parole povere, nell'impiegare un battaglione di fanteria per la conquista di determinata sovrastante posizione occupata dal nemico. Nel presupposto generale, sia il battaglione attaccante, sia il reparto nemico attaccato figuravano inquadrati in unità maggiori. Interessantissima, in arte militare, sia per la concezione, sia per la esecuzione, venne stabilito, dal Comando che la esercitazione si svolgesse in località San Pietro prospiciente il Castello di Rota: lo stesso Comandante la Scuola Militare avrebbe enunciato il tema tattico, illustrandolo, commentandolo e concludendolo, dall'osservatorio destinato nell'ampio cortile interno del castello. Nel mattino del 26 aprile 1948, tutto era disposto per iniziare la manovra, allorquando, atteso, giunse da Roma, in automobile, transitando per Bracciano, accompagnato dall'Aiutante di Campo, Generale Asinari di Dernezzo, dal Generale Brusati, dal Ministro della Guerra Generale Ugo Cavallero, il Re Vittorio Emanuele III, militarmente salutato dai numerosi ufficiali già convenuti, in rappresentanza di ogni specialità dell'esercito. Preso posto nell'osservatorio, il Re ordinò l'inizio della esercitazione che, sotto l'espertissimo controllo del Generale Scipioni, si svolse con il massimo interessamento e rendimento dei reparti impiegati. Il Re, molto soddisfatto, ebbe parole di elogio per il Generale Scipioni, per gli ufficiali e i reparti: ossequiato lasciò, poco prima di mezzogiorno, il castello facendo, col seguito, ritorno a Roma e seguendo il medesimo itinerario. Dopo la partenza del Re, con la partecipazione di un componente la nobile, ospitale famiglia Lepri e il Generale Scipioni, si svolse nel castello un cordiale simposio: con questo ebbe termine lo storico avvenimento. il Re, rispettosamente richiesto dal modesto autore della presente monografia, intervenuto a quell'avvenimento, in rappresentanza del Comune di Tolfa, nella di cui giurisdizione Rota apparteneva ed appartiene, fece eseguire, per l'occasione, una fotografia ricordo che, ingrandita , munita di firma e data autografa, tutt'ora si conserva. Concludiamo 1' argomento esponendo che sarebbe opportuno situare, nel cortile del castello di Rota, una lapide la quale, pur priva di accenni politici riflettenti l'opera del sovrano e, perciò, priva di contrasti ideologici, consegnasse l’episodio ai posteri: ciò nello esclusivo e cronologico, interesse storico del luogo. Approssimandoci alla conclusione della monografia e sciogliendo la precedente riserva, segnaliamo il motivo per cui 1' attuale possessore di Rota non abbia potuto emulare i predecessori nel migliorarne le sorti. Ciò è dipeso, e tutt'ora dipende, dalla così detta “Riforma fondiaria” che i presenti reggitori del governo hanno ritenuto adottare in Italia, su scala nazionale e che, condizionando l'agricoltura nell'intero Stato, limita e talvolta annulla, l'iniziativa degli originari possessori. sebbene di origine antichissima e perciò nota, l’agricoltura raramente venne onorata e praticata in Italia, nei secoli a noi più vicini: ciò desta meraviglia anche e specialmente considerando che la penisola italiana, sita in zona tropicale del globo terrestre, protetta dalle influenze nordiche mercé la imponente catena alpina, circondata, nella rimanente sua parte, dal benefico Mediterraneo, avesse potuto usufruire delle necessarie, anzi, favorevolissimi cori dizioni. Gli egiziani, infatti, anch'essi abitanti sulle sponde del mediterraneo, non soltanto praticarono 1' agricoltura, ma la insegnarono ad altri popoli fin dal 7000 anni prima dell'era cristiana. In seguito il loro esempio venne praticato dagli etruschi che tanto ebbero in auge l'agricoltura da deificarla, siccome indispensabile fonte, mistica e materiale, di vita: né mancarono successivamente i romani a renderle omaggio e ad esercitarla nel lungo periodo imperiale il che, in altri termini, significa fino al sopraggiungere del cristianesimo. Dopo altra inattività, l'agricoltura ebbe, in Italia, con il tramonto del feudalesimo e il sorgere dei liberi comuni, nel secolo XI, una vigorosa ripresa, dalla breve durata, perché con l'avvento delle signorie, la coltivazione dei campi, cadde di nuovo in letargo che, iniziatosi nel XII secolo si protrasse sino alla metà del secolo XVI; fu, infatti, nel 1550 che il coltivato italiano realizzò, alfine, il primo prato artificiale. A quella felice ripresa segui, purtroppo, altra decadenza agricola, prolungatasi fino al 1850 e cioè fino a quando nel regno di Piemonte, il genio politico del conte Camillo Benso Conte di Cavour, futuro “Tessitore” dell'ultimo risorgimento italiano, venne all'inizio della sua luminosa carriera e fortunatamente, acuminato ministro della Agricoltura. Quel ministero, fu in seguito, soppresso e ripristinato piú volte con le inevitabili conseguenze della malmenata agricoltura Si doveva, in tal modo giungere al 1935 per elevare finalmente un inno alla agricoltura, esaltandone il principale prodotto, vale a dire, il pane, definendolo profumo della mensa e nobile compenso alle fatiche umane. Il benevolo lettore, per sua diretta cognizione e per ciò che abbiamo fin qui esposto, é a conoscenza delle varie vicende, che ci condussero ai giorni attuali, con innegabile pregiudizio della agricoltura. Sebbene premesso quanto sopra, riteniamo opportuno, per la continuità narrativa della monografia, segnalare, con la massima sintesi, le disposizioni di legge e le annesse conseguenze, riflettenti la odierna situazione della nostra agricoltura. Ci riferiamo alla riforma fondiaria nella maremma. Verso la fine del 1950, il parlamento, considerando che vaste zone campestri dello Stato erano particolarmente bisognose di un profondo rinnovamento della agricoltura, approvò la legge che riguardò la così menzionata “realizzazione della riforma fondiaria”. In conseguenza di quanto sopra, il Presidente della Repubblica, con decreto del 27 febbraio 1961, incluse in quelle zone "sofferenti" anche il territorio di 89 comuni, situati fra l'Agro Romano, le colline del Viterbese, il Monte Amiata, il territorio di Volterra e il mare Tirreno: in altri termini la “Maremma”. Si trattò di espropriare numerose estensioni di terreno allo scopo di attuarne una più sociale distribuzione e redditizia coltivazione, concedendo le predisposte quote ai contadini, diretti coltivatori. Espropriato le zone designate si procedette alla loro lottizzazione ed assegnazione ai nuclei familiari ed anche a singole persone, provocando numerose critiche, dovute, fra l'altro, alla insufficienza dei lotti disponibili rispetto al numero dei richiedenti e per averne usufruito elementi non dediti al lavoro dei campi. Nella pratica attuazione della riforma agraria, ebbe a rilevarsi, inoltre, la inevitabile deficienza delle strade interomunicanti, di acqua potabile ed anche non potabile, la impossibilità di costruire ovunque idonei casolari. Allorché fu possibile provvedere subito o senza eccessivo ritardo, a tali inconvenienti, la riforma agraria cotituì la fortuna delle famiglie assegnatarie: di conseguenza il contrario avvenne nei più numerosi casi contrari. A conclusione dell'argomento si aggiunge che la rinnovazione agricola, articolata su piano nazionale, mediante la descritta riforma é, nel complesso, fallita. Altra sfavorevole circostanza doveva contribuire a rendere maggiormente critica la situazione. Nell'anno in cui scriviamo , 1968, i coltivatori dei campi, nella quasi loro totalità, hanno disertato l'esarcizio dell'agricoltura perché attratti dall'urbanesimo, ossia dalla città, ove con minor fatica, maggiore e più sicuro utile economico, aumentate comodità e distrazioni, essi conducono più agiata esistenza: anche ciò è dovuto a varie iniziative, poste in atto dal governo della repubblica, e fra le predominanti é quella che rispetta l'attività edilizia, che ha lo scopo di fornire la casa ad ogni nucleo familiare. Una generalizzata situazione di tal natura non poteva che colpire, coma ha colpito, il tenimento di Rota, compreso nella giurisdizione dell’Ente Maremmaa, prossimo, inoltre, a Roma e ad altre città. I numerosi poderi a mezzadria organizzati a Rota con singolare competenza e costante attività del marchese Carlo Lepri, sono stati abbandonati dai coloni trasferitisi altrove Il castello, il borgo e porzione della tenuta appartengono attualmente al marchese Gaspare Lepri: sono trascorsi 179 anni dall' acquisto Per maggior intelligenza di questa monografia, trascriviamo l’albero genealogico dei Lepri iniziandolo col primo acquirente e terminandolo con l’attuale detentore del titolo nobiliare del castello e del tenimento di Rota. Giuseppe Ambrogio Lepri
Giuseppe Lepri, nepote del precedente
Carlo Lepri, coniugato a Costanza
Capparelli
Luigi Lepri, coniugato ad Anna
Lascaris d’Amicis
Giovanni Lepri, coniugato a Giovanna
Patrizi
Carlo Lepri, coniugato a Maddalena
Monaco La valletta Gaspare Lepri, coniugato a Maria Pia contessa
Gentiloni
Preferita residenza del marchese
Gaspare Lepri é il castello ove egli attende degnamentte a
rappresentare, conser¬vare e sospingere nel futuro le nobili tradizioni
degli avi. Prossimi a raggiungere il traguardo del nostro scopo,
consistente nel fornire al cortese lettore la maggiore e migliore
quantità di notizie storiche su Rota, passiamo a tracciare l'attuale
tenore di vita che giornalmente si svolge nello antico Borgo. Abitata da
pochissime famiglie, adibite alle ristrette mansioni di campagna e alla
manutenzione e sorveglianza del castello, come pure della chiesa, Rota
mantiene tuttora alto e vivo il culto della religione cristiana. La
chiesa, infatti viene officiata, in ogni domenica, dai sacerdoti
residenti nel non lontano Eremo Domenicano di Monte Elmo e la ricorrenza
del protettore San Girolamo si celebra annualmente il 30 settembre.
Riteniamo doveroso tratteggiare la luminosa figura di San Girolamo. Egli
fu confessore e dottore della Chiesa. Nato nel 340 nella piccola città
di Stridone fra la Dalmazia e la Pannonia, studiosissimo, coltissimo,
viene a Roma, visitò la Gallia, la Grecia. Poi si ritirò in solitudine,
nel deserto siriaco della Calcide. Si inebriò leggendo Virgilio. Per
ordine di Papa San Damaso, spagnolo, raggiunse di nuovo Roma e ne fu
segretario, risolvendo complesse questioni teologiche e destando
stupore per la vastità del sapere: venne denominato "Leone della
Dalmazia". Terminata la missione San Girolamo, si ritirò in una
spelonca, nelle vicinanze di Gerusalemme, imponendosi ogni sorta di
sacrifici e privazioni, trovando tuttavia il tempo di fondare un
monastero e di tradurre la Bibbia dai testi originali. Morì nel 420
all'età di 84 anni ed é giudicato uno dei più alti Padri della Chiesa.
Il suo celeste spirito, certamente, continuerà ad inebriarsi, nella
solitudine di Rota, che, col mormorio o il ruggir del Mignone gli
ricorderà 1’Eneide di Virgilio. Nella ricorrenza del Santo Protettore,
oltre alle prescritte funzioni religiose, hanno luogo, con l'intervento
dei cittadini di Tolfa e altri vicini paesi, festeggiamenti popolari,
fra i quali, immancabile l’”albero della cuccagna” d'innegabile origine
etrusca. Fino a qualche anno fa, allorquando la campagna veniva
coltivata e il borgo abitato, una insegnante elementare impartiva a
numerosa scolaresca, le prime norme di cultura: oggi non più. Il
castello e il borgo sono forniti di energia elettrica. La patriarcale
tranquillità che regna nell'avito castello, l'ininterrotto silenzio che
domina il disertato borgo, il variopinto aspetto delle circostanti
campagne ove pascola numeroso bestiame fra cui “il pio bove dalle luna
te corna che il mite Virgilio amava”, le praterie degradanti con
dolcezza sino alle sponde del Mignone, pigro quando é pigro e che sì
avvia a raggiungere il Tirreno forse seguito dalle ombre degli ancor
vigilanti etruschi, conferiscono a Rota, il carattere di un asilo sereno
e riposante, indizio di felice avvenire
Tolfa 31 agosto 1968
Zamagni Angelo
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