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L'Abbazzia di Piantameli di Federico Tron
 
Federico Tron - Riccardo Berretti
Maurizio Gorra - Enrico Pieri
Filippo D'Aloia

L'Abbazia di Piantangeli


GRUPPO ARCHEOLOGICO ROMANO Roma 1984
Questo lavoro è stato possibile grazie all'attività di ricerca svolta nell'inverno e nella primavera del 1981 da 275 giovani dei Licei Artistici e degli Istituti d'Arte di Roma, Civitavecchia e Velletri, nel quadro delle iniziative promosse dall'Assessorato Cultura e Pubblica Istruzione dell'Amministrazione Provinciale di Roma.

PREFAZIONE

Composta da insiemi eterogenei, la popolazione romana, di fronte alla velocità con cui ha avuto luogo la sua crescita, ha la necessità di arrivare alla costruzione di una unità culturale che sappia tener conto della soggettività dei gruppi sociali che compongono il complesso della realtà urbana. Per giungere a questo fine, certo non facile. c'è bisogno di avere a disposizione strumenti adatti all'acquisizione dell'identità di appartenenza, tappa indispensabile per potersi riconoscere nel contesto urbano e per dare una risposta al proprio vivere nella città. Questa disgregazione culturale è l'elemento primario delle difficoltà che si hanno nell'impostare un'azione di politica culturale che sappia dare risposte adeguate alle necessità di migliaia di persone che stanno avviando il faticoso lavoro di ricostruire le proprie radici. E' d'uopo quindi porsi il problema delle vie da imboccare per facilitare questo gravoso cammino: se sia meglio incentivare una politica dei « consumi culturali », vissuti troppo spesso in modo passivo ed acritico, oppure porsi risolutamente sulla strada di una politica della « produzione culturale », che permetta la partecipazione e l'impegno in prima persona.
Nel complesso intreccio di elementi che determinano i processi di crescita culturale si può facilmente constatare che la gente è in parte interessata allo sviluppo della cultura intellettuale ma anche, ed in misura sorprendentemente grande, alla crescita di una cultura « partecipata ». Questa spinta deve essere interpretata come il desiderio di elaborare forme di espressione spontanee, non professionali, che si indirizzano in vari e disparati campi. Gli organismi pubblici non potevano ignorare questo bisogno di partecipazione dei cittadini ed alcuni di loro hanno fatto propria questa linea di intervento culturale. Azione che ha trovato il suo campo ideale di applicazione all'interno del mondo della scuola dove le iniziative tendono a sollecitare ed ad aiutare lo svecchiamento dei programmi scolastici attraverso didattiche che prevedono appunto un approccio dal vivo con quanto si vuole conoscere ed approfondire. Si avvicinano così i giovani a quegli strumenti del sapere che li aiuteranno a riconoscere il loro passato ed a collocare la propria esistenza nell'alveo della storia.
L'iniziativa dell'Assessorato alla Cultura della Provincia di Roma, che ha permesso ad alcune centinaia di studenti dei Licei Artistici e degli Istituti d'Arte della capitale, oltre che di Velletri e di Civitavecchia, di partecipare ad un'esperienza di ricerca nel gennaio - marzo 1981 a Tolfa, ci sembra inquadrarsi perfettamente con questo approccio appena esposto. Ospiti del Centro Studi del Gruppo Archeologico Romano, i giovani hanno contribuito validamente alla ricerca e dei risultati di quelle settimane archeologiche questo libro vuole essere una testimonianza ed un contributo alla conoscenza della storia di una fetta di territorio della Provincia di Roma. I lusinghieri risultati scientifici di questa esperienza li potrete leggere nelle pagine che seguono, noi vorremmo soffermarci un attimo sui contenuti didattici e sviluppare alcune considerazioni sulle finalità e sulle metodologie seguite.
L'archeologia è stata assunta dagli istruttori del G.A.R. come vera e propria scienza storica: non più sorella minore della storia ma metodo di comprensione del passato. Quel passato che i giovani sono abituati a veder scorrere sulle aride pagine dei manuali scolastici ha preso in questa esperienza una dimensione concreta fatta di paesaggi, di mura diroccate, di reperti raccolti sul terreno, di lavori di ricerca bibliografica, di catalogazione e di comparazione dei dati. Gli studenti hanno così potuto vivere in « diretta » i primi passi da muovere per arrivare ad avere la Storia stampata su di un libro, quello che stiamo presentando. Questo primo momento è rappresentato dalla ricognizione del territorio, strumento fondamentale di conoscenza, non più legato, in questo contesto didattico, solo alle necessità della ricerca, ma modo di procedere per giungere, attraverso un contatto diretto con il terreno, e le presenze antiche che esso racchiude, ad una corretta comprensione del rapporto uomo - territorio. Ci pare questo un momento di particolare interesse rispetto alle motivazioni di una politica culturale congrua nei confronti delle esigenze della popolazione che andavamo prima esponendo.
Certo non è semplice intravvedere immediatamente i significati che si trovano dietro l'affermazione « leggere il territorio », eppure basta soffermarsi sul fatto che nel corso dei secoli l'uomo ha variamente utilizzato le risorse della terra su cui viveva, venendo a sua volta influenzato nei suoi modi di vita, per capire che nella configurazione di questo rapporto e nella sua comprensione sta la possibilità di interpretare lo sviluppo umano, di vedere le connessioni tra passato e presente, di prefigurare il futuro. Attraverso questa operazione si ottengono quegli elementi fondamentali per collocarsi in un quadro storico, per saper riconoscere le proprie radici, per iniziare un processo di interpretazione del divenire storico che possa dare risposte alle esigenze di conoscenza di tutti noi. Questi modi di approccio al passato, queste capacità di analisi purtroppo non si acquisiscono con facilità; per questo è necessario un intervento degli organismi pubblici per permettere una più ampia diffusione di questo sapere. Crediamo che sia compito di una corretta amministrazione della cultura mettere a disposizione di tutti, soprattutto i giovani, la possibilità di potersi avvicinare e di impadronirsi dei meccanismi per l'analisi della realtà, presente e passata. Forti della convinzione che ognuno, a prescindere dalla propria preparazione, può essere intellettuale, inteso come produttore di cultura, pensiamo che occasioni di questo genere vadano fornite ogni qual volta ciò sia possibile. Certo il momento economico non è dei migliori per lo sviluppo di una politica culturale di tale respiro, ma lo sforzo va comunque tentato nello spirito di un rinnovato impegno per la creazione di quelle identità culturali che sole ci possono garantire una reale evoluzione. Il G.A.R. durante le settimane archeologiche ha immesso i giovani in una ricerca sul campo dove la cultura non viene più vista come momento di fruizione passiva o di consumo, ma come tappa determinante di un processo attivo di formazione e di arricchimento personale: attraverso la ricognizione prima ed il necessario ripensamento poi, si rende possibile l'impegno dei giovani su obiettivi precisi, si fanno toccare con mano realtà storiche, spogliandole di orpelli, e rendendo così chiare le connessioni con il momento attuale. Con questa iniziativa della Provincia di Roma, il G.A.R. ha raggiunto quindi un duplice scopo: da un lato far entrare nella scuola un modo « diverso », più diretto, di concepire il rapporto con il passato; dall'altro favorire la conoscenza, sul piano culturale, del territorio provinciale, così ricco di tradizioni e di beni culturali e collegarlo con l'area metropolitana.

Fabio Rovis

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GLI INSEDIAMENTI MONASTICI
DEI MONTI DELLA TOLFA

I monti della Tolfa, per la loro natura e posizione geografica, furono sovente ai margini dei grandi avvenimenti storici e dei sommovimenti politici che, nel corso del Medioevo, interessarono terre distanti anche solo pochi chilometri dal massiccio alto laziale. Una piccola zona montuosa, isolata, senza grandi vie di comunicazione che l'attraversassero, con minime risorse economiche che potessero giustificare massicci insediamenti umani, non poteva, obbligatoriamente, costituire un grande polo di attrazione per le entità politico-religiose che si andavano affermando in Italia alla fine del primo millennio.
Desta quindi maggiore interesse e curiosità il fenomeno di insediamento monastico che si verificò nella zona tolfetana a partire dall'alto medio evo.
Non esiste dubbio ormai sul fatto che le fondazioni monastiche, lungi dall'apparire assolutamente casuali, come le notizie leggendarie sulle loro origini vorrebbero far intendere, fossero in realtà dipendenti da un lungimirante piano di insediamento, che teneva ben presente la realtà economica e sociale del territorio interessato, mirando a controllarne i punti focali. Approfittando talvolta di un vuoto di potere creatosi dall'affievolirsi del controllo centrale, o alleandosi sovente con le entità politiche esistenti, le abbazie, sorte soprattutto in periodo barbarico e carolingio, assursero in molti casi a ruolo di centri di notevole importanza e di vaste ricchezze, proprio per la loro posizione, dominante gli itinerari commerciali del territorio circostante, oltre che per il ruolo attrattivo e di smercio esercitato sui prodotti locali agricoli ed artigianali, che solo in parte provenivano dalle dirette dipendenze monastiche.
Fra i centri monastici che sorsero nella zona tolfetana, sicuramente il più ricco e prestigioso risulta essere stato quello di S. Maria al Mignone, nato come « cella » dipendente dalla famosa abbazia di Farfa in pieno periodo carolingio.
Farfa (1), sorta nel VI secolo in Sabina, a 35 km. da Roma, sulle sponde dell'omonimo fiume ed in posizione dominante le vallate che da oriente scendono verso il Tevere, dopo una prima distruzione subita all'epoca della calata dei Longobardi, era stata rifondata all'inizio dell'VIII secolo da un gruppo di monaci franchi guidati da Tommaso da Morienna, e si era presto affermata, grazie anche ai favori ed alle attenzioni che le avevano riservato i duchi di Spoleto. Gli abati farfensi riuscirono con notevole acume politico a sganciarsi in tempo dal protettorato longobardo, ed all'epoca del crollo del regno barbarico (774) si avvicinarono ad Adriano I ed a Carlo Magno. In questo periodo le proprietà dell'abbazia andarono aumentando notevolmente, e si espansero anche in zone molto distanti dalla Sabina, come la Tuscia, cui si riferisce un interessante documento datato 775 e conservato nel Regesto Farfense (2).
L'atto riguarda una cospicua donazione eseguita da un certo Aimone, il quale cede, consacrando se stesso ed il figlio Pietro a S. Maria di Farfa, tutte le sue proprietà, che risultano trovarsi nei territori di Viterbo, Orchia, Castro e di altri centri, e comprendono inoltre vari edifici religiosi, fra cui l'oratorio di S. Salvatore, presso Tuscania. E' interessante notare che questo Aimone, ricchissimo proprietario longobardo probabilmente cristiano, dato il nome Pietro del figlio e la sua qualifica di chierico, doveva far parte di quei nobili barbari che, allo sbando dopo la spedizione di Carlo Magno e la resa di Pavia, per non essere soppiantati dai Franchi, preferiscono legare se stessi ed i loro beni ad una potenza indipendente, come poteva essere un'abbazia. E' proprio in conseguenza di queste vaste donazioni, e forse anche della estensione di interessi in zone ex-demaniali abbando nate per la precaria situazione politica, che Farfa sentì la necessità di istituire centri di amministrazione locale, allo scopo di gestire le proprietà troppo distanti, ed è in questa ottica che dobbiamo concepire la fondazione di S. Maria del Mignone, la cui prima menzione sarebbe convenuta in un privilegio di Carlo Magno datato 801 (3).
Questo documento, che è stato preso in considerazione da molti studiosi, in realtà è uno dei molti falsi che circolavano nel Medio Evo (vedi, ad esempio, alcune lettere di Gregorio Magno, o la celeberrima «donazione di Costantino»), i quali erano utilizzati di solito per dare una patente di legittimità a situazioni che non si erano create proprio in modo lecito, e che abbisognavano di garanzie per poter essere accettate o confermate.
Varie incongruenze contribuiscono a rivelare la falsità dell'atto di Carlo Magno in questione, incongruenze che sono state acutamente rilevate dagli editori del Regesto; in questa sede basti considerare che, in una bolla di papa Stefano IV dell'87 (4), nel lungo elenco che vi è contenuto dei beni di Farfa, non compare il nome di S. Maria al Mignone, anche se la penetrazione del cenobio sabino nella valle del fiume risultava allora già iniziata, come si può notare da un atto di vendita dell'807, con il quale un certo Omulo di Tuscania cede all'abate Benedetto una sua terra in quella zona (5).
La prima menzione sicura dell'esistenza della cella sul Mignone risulta essere il privilegio che venne rilasciato da Ludovico II all'abate Paltone nell'857 o nell'859 (6), nel quale l'edificio religioso è menzionato ben due volte, come «monasterium» e come «cella». S. Maria del Mignone inoltre è già descritta come centro importante e con vaste dipendenze: «In territorio tuscano cellam Sanctae Mariae de Minione cum ipso monte Gosberti et gualdo, et ripa alvella et cum ipso portu de mare...»; questa frase si ritrova in quasi tutti i documenti successivi, con poche variazioni, da cui si può dedurre che il nucleo delle proprietà farfensi sul Mignone restò immutato per molto tempo.
La cella é definita come sita «in territorio toscano», quindi in quella zona meridionale della Tuscia ex longobarda di cui il centro più importante era Tuscania; inoltre fra i suoi beni c'era il monte Gosberto, probabilmente il sito dove sorgeva lo stesso edificio, purtroppo non facilmente individuabile, data la scomparsa del toponimo. Importantissimo sarebbe anche definire con precisione il «gualdo», che etimologicamente dovrebbe essere un termine derivante dal germanico «wald», parola longobarda che originariamente significava bosco, brughiera, ma che in seguito assunse la accezione di insieme di terreni, di varia natura, pertinenti al fisco, reale o ducale, (7), il che proverebbe l'origine demaniale di almeno una parte dei possedimenti farfensi sul Mignone.
« Ripa alvella » può essere un tratto della sponda del fiume, mentre inattesa giunge la menzione, fra le proprietà, di un porto marino. Quale potrebbe essere e dove si può localizzare questo porto? Escludendo Civitavecchia, allora ancora quasi disabitata e che appare dai documenti ben distinta da Farfa almeno sino all'XI secolo, si possono fare solo due ipotesi: o esisteva un porticciolo alle foci del Mignone, in località Bagni di S. Agostino, dove ultimamente é stato localizzato un probabile scalo marittimo (8), o si sfruttava ancora Graviscae, il vecchio porto classico di Tarquinia, in abbandono da secoli.
La prima individuazione sembra essere più realistica, ma al momento attuale, in mancanza di sicuri dati archeologici, non é possibile escludere ogni altra possibilità.
Per qualche decina di anni S. Maria al Mignone, malgrado la scarsità di documentazione, dovette mantenersi in condizioni floride, amministrando i suoi ingenti beni finché, verso la fine del IX secolo, rimase probabilmente coinvolta nelle devastazioni operate dai Saraceni su quasi tutta l'Italia peninsulare, e nei torbidi che accompagnarono la crisi politica causata dal crollo della potenza carolingia. In altra sede (9) abbiamo già evidenziato l'errore compiuto da molti studiosi che, considerando un documento dell'XI secolo, vi trovano riferimenti diretti ad una distruzione della cella da parte degli infedeli verso 1882, distruzione che invece si riferirebbe unicamente all'abbazia di Farfa.
Malgrado ciò, ad ogni modo, il coinvolgimento di S. Maria al Mignone in devastazioni, e una situazione di percolo da essa attraversato sono testimoniati indirettamente da due contratti di affitto conservati nel Liber Largitorius (10), nel primo dei quali il contraente Donato si impegna a compiere nelle guardie di avvistamento verso il mare, mentre dal secondo, degli inizi del X secolo, si ricava che una parte delle proprietà farfensi della costa altolaziale era in abbandono ed in rovina.
Verso la metà del X secolo, l'abate Campone volle intervenire su S. Maria al Mignone ed i beni ad essa collegati, e demandò al restauro della cella ed alla sua riorganizzazione un monaco del monastero di S. Giusto presso Tuscania, Venerando, il quale in poco tempo ricostruì l'edificio che fu solennemente riconsacrato da Valentino, vescovo di Civitavecchia (11).
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Il contratto a favore di Venerando prevedeva che costui, nominato preposto, detenesse i beni e le entrate di S. Maria al Mignone, pagando a Farfa un censo annuo; la cella doveva restare a vita a lui ed a due suoi successori, per poi ritornare direttamente sotto l'abbazia sabina (12). Questo atto fu però la causa di una lunghissima contesa per il controllo delle proprietà in questione, contesa che si trascinò sino alla fine dell'XI secolo, malgrado frequenti tentativi di redimerla, con dubbi risultati, effettuati da imperatori, marchesi, papi e cardinali. Infatti, dopo pochi anni dalla riedificazione, Venerando fu nominato abate di un nuovo monastero di Roma, dedicato ai SS. Cosma e Damiano, e vi si trasferì mantenendo il contratto con Farfa; il monaco tenne fede ai suoi impegni ma, morto lui, il successore Silvestro, misconoscendo i diritti del cenobio sabino, si tenne S. Maria del Mignone non pagando più il censo annuo (13).
Farfa, che era protetta dagli imperatori germanici, si rivolse loro per ottenere giustizia, ma a parte alcuni atti a suo favore, rilasciati da Ottone I (14) ed Ottone II (15), non riuscì ad avere il controllo della cella se non nel 999, quando Ottone III redasse un placito a suo favore, ponendo anche il proprio banno a protezione della sentenza (16). Malgrado questa soluzione, il monastero dei SS. Cosma e Damiano non si dette per vinto, e continuò ad avanzare diritti sulla cella, valendosi anche di documenti falsificati. Il periodo tra lo scorcio del X e l'XI secolo fu quello di maggiore prosperità per S. Maria al Mignone: la cella ricevette infatti mole cospicue donazioni, a cominciare da una del 990 (17), quando il conte Pietro di Guinigi cedette la chiesa di S. Angelo presso Corneto, dotata di una proprietà di 1500 pertiche di terra. Questa chiesa, ora scomparsa, era localizzata sotto i dirupi del colle della città, se vogliamo prestar fede ad un cronista locale del XVII secolo, Muzio Polidori (18). Le pertinenze della cella del Mignone erano allora vastissime, si trovavano infatti nei territori di Tuscania, Cencelle, Corneto e Norchia; a nord di Corneto arrivavano a stendersi lungo la valle del Marta, ed erano confinanti con terreni di proprietà della famosa badia del S. Salvatore sul monte Amiata, che aveva vasti interessi nella zona altolaziale (19).
Da un privilegio del 1005 (20), rilasciato da papa Giovanni XVIII a favore del cenobio dei SS. Cosma e Damiano, (che non aveva rinunciato a considerare la cella di sua proprietà), ci rimane una utilissima e molto dettagliata descrizione di S. Maria al Mignone: innanzi tutto era dotata di una corte, di vari portici e di celle, quindi doveva trattarsi di un vero e proprio monastero con locali per i monaci residenti. L'edificio era inoltre circondato da orti e da un uliveto, aveva nelle vicinanze un centro abitato, probabilmente per i servi che ne lavoravano le proprietà, ed aveva ben due « gualdi», dei quali il maggiore era esteso sia nel territorio di Tuscania che su quello di Cencelle, quindi si trovava a cavallo del Mignone. Le terre sono differenziate nel documento a seconda della coltura: prima venivano le vigne, forse la più importante fonte di reddito, poi si parla di campi, coltivati probabilmente a cereali, prati, pascoli, boschi, alberi fruttiferi ed infruttiferi, ed infine è ricordata la giurisdizione sul Mignone, con i relativi diritti di pesca e la proprietà dei mulini che vi si trovavano.
Per tutto l'arco dell'XI secolo si susseguono donazioni di beni immobili, specie nel territorio e nella città di Corneto, che in quel periodo iniziava ad essere un centro molto importante; notiamo però che per evitare contestazioni, spesso negli atti di cessione Farfa figura in prima persona, senza delegare apparentemente il controllo delle proprietà a S. Maria del Mignone, evidentemente allo scopo di evitare usurpazioni, cui la cella era passibile.
Frequentemente queste donazioni concernono chiese dotate di vaste rendite, come S. Pellegrino (21), S. Martino (22) e, nel 1066, S. Lorenzo in Gerflumen, posta tre chilometri a nord-ovest della odierna S. Severa (23). Fra 1068 e 1072, per merito di cessioni da parte di nobili, i beni farfensi dell'Alto Lazio si andarono arricchendo della metà di due importanti porti sul litorale tirrenico: S. Severa (24) e Civitasvetula (25); soprattutto quest'ultimo centro, che andava risorgendo dopo la distruzione saracena, doveva essere particolarmente redditizio, e permetteva all'abbazia sabina il controllo di gran parte dei traffici marittimi della zona. S. Maria del Mignone non é menzionata in queste ultime donazioni, ma certamente beneficiò anch'essa dell'allargamento degli interessi farfensi nella sua regione, inoltre, nel 1072, fu risolta definitivamente la contesa con il monastero dei SS. Cosma e Damiano.
Per merito di Ildebrando di Sovana, allora arcidiacono, nel corso di un giudizio convocato nei palazzi Lateranensi (26) fu provata la falsità dei documenti a favore del cenobio romano, e l'abate farfense Berardo ricevette solennemente la refutazione di S. Maria del Mignone e di tutte le sue dipendenze dalle mani del parigrado Odemondo che, a parziale composizione, ottenne una somma dalla badia sabina.
La vittoria giudiziaria di Farfa e gli ingrandimenti delle sue possessioni sembravano preludere ad una duratura escalation della sua potenza nell'Alto Lazio, ma in realtà, dalla fine dell'XI secolo, inizia un periodo di grave crisi per l'abbazia benedettina, dovuta in massima parte al sorgere di nuovi centri di potere che contrastavano validamente il precario equilibrio su cui poteva basarsi la dominazione territoriale farfense: le nuove realtà cittadine e la nobilità feudale. Questi nobili, spesso di oscure origini, cominciavano a realizzare una politica meno dipendente dall'imperatore e dai suoi vassalli, ed arrivavano spesso a devastare e tentare di appropriarsi dei beni monastici, poco difesi. Una menzione di queste mire espansionistiche dei nobili la conserviamo in alcuni atti del Regesto (27), che contengono delle composizioni imposte da Enrico IV ad alcuni conti, che avevano vessato, invaso e compiuto violenze proprio nei confronti di S. Maria del Mignone e delle sue dipendenze.
Risulta chiaro che queste turbolenze non rappresentavano delle eccezioni, e che, malgrado l'intervento di Enrico, l'attrito fra nobili e monastero si manteneva passibile di degenerazione, non appena fosse venuta meno la autorità imperiale. Malgrado la scarsità di documentazione di Farfa, che si fa particolarmente acuta dal XII secolo, possiamo cogliere, dalle testimonianze che ci sono rimaste, i segni evidenti di una progressiva decadenza sia dell'abbazia che di S. Maria al Mignone.
Ancora nel 1118 il cenobio sabino appare titolare di tutti i suoi beni (28), ma ben presto gli vengono alienati i possedimenti più importanti, a cominciare da Civitasvetula (29). La cella del Mignone compare ancora in documenti del XIII secolo: una prima volta nel 1262, in un diploma di conferma di Urbano IV (30) in cui conserva molte pertinenze, una seconda in un elenco di proprietà di Farfa datato 1295 (31). Fra le due date l'impoverimento di S. Maria del Mignone deve essere stato notevole,visto che nel secondo documento appare tassata per una somma molto modesta. L'ultima menzione della nostra cella l'abbiamo alla metà del XIV secolo, in una procura del clero di Toscanella datata 29 settembre 1356 (32), in cui viene citata come una delle chiese distrutte di quella diocesi; l'abbandono é definitivo, il territorio di S. Maria al Mignone allora doveva ormai essere stato completamente smembrato, e solo il nome rimase per qualche secolo, legato ad una tenuta pontificia (33).
La difficoltà maggiore connessa allo studio della cella riguarda la sua localizzazione; nelle carte attuali restano solo alcuni toponimi «S. Maria» sulla riva destra del medio corso del Mignone (34), ma in corrispondenza di essi non si notano rovine, e non sono stati rinvenuti reperti ceramici tali da poter identificare l'edificio religioso, che pure nel medioevo ebbe tanta potenza ed importanza.
Oltre a S. Maria del Mignone, un'altra importante fondazio ne religiosa é indicata nel medioevo sui Monti della Tolfa: la abbazia di S. Arcangelo.
E' dubbia l'epoca di fondazione del monastero, comunque l'edificio dovrebbe essere già esistente nel X secolo, se ci possiamo basare su un documento del 976 (35) conservato nell'Archivio di Viterbo, nel quale l'abate di S. Arcangelo acquista da un certo Ugone alcuni casali con terreno, localizzabili sul massiccio tolfetano, in quanto vi si riconoscono, come confini, due corsi d'acqua che conservano ancora il toponimo medievale: il fiume Mignone ed il fosso Verginese. Nei pressi dell'abbazia doveva trovarsi un castello con centro abitato, che nel 1061 appare sottomesso al Comune di Viterbo dal Conte Farulfo (36), il quale controllava un vasto territorio, dove figuravano anche vari centri fortificati sui due versanti del medio corso del Mignone.
Dopo una menzione di S. Arcangelo in una bolla di Innocenzo III del 1199 (37), appare due anni dopo un suo abate di nome Paltone, che in un atto della Margarita Cornetana (38) cede vari suoi diritti sul vicino castello a Corneto, che ne conserva il controllo per vario tempo, come testimoniano due documenti datati 1238 e 1251 (39). Innocenzo IV nel 1245 cede a vita il monastero con tutte le sue rendite a Scambio vescovo di Viterbo e Tuscania, per il suo sostentamento (40). Un certo collegamento fra monastero e castello dovrebbe mantenersi almeno fino al 1283 (41), ma in seguito quest'ultimo appare saldamente in mano ai Signori di Tolfavecchia (42).
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Sempre per quanto riguarda il XIII secolo, S. Arcangelo figura varie volte negli elenchi dei registri delle decime, sia per il periodo 1274-1280 (43), che per quello 1295-1298 (44). Nel secolo successivo il monastero dovette conoscere una precoce decadenza, sia per le mire espansionistiche dei signori locali sia per i continui avvenimenti militari che interessarono parzialmente anche i Monti della Tolfa, ma non bisogna dimenticare inoltre la crisi e lo spopolamento causati dalla « grande peste » del 1348, che sconvolse l'Italia e l'intera Europa, mutando il volto topografico di intere regioni. Secondo il Silvestrelli (45), i monaci abbandonarono l'abbazia nella prima metà del XIV secolo, ma si può affermare che ciò avvenne solo dopo qualche decennio, in quanto la proprietà di S. Arcangelo fu rivendicata nel 1356 dal Vescovo viterbese Nicolò al sinodo di Montalto (46).
Entro la fine del '300, comunque, l'insediamento religioso dovette essere definitivamente terminato, se non troviamo più documenti che lo menzionino.
Nel XV secolo c'é un riferimento ad una « Selva di S. Arcangelo », come tenuta doganale posta sui monti della Tolfa, di pertinenza del vescovo di Spoleto (47), ma non si accenna minimamente all'esistenza della chiesa; in un affresco del 1500, conservato nei Palazzi Vaticani, nella Galleria delle Carte Geografiche, é riportata l'indicazione di « S. Angelo disf. » (disfatto), in corrispondenza del versante sud del medio corso del Mignone.
Un'antica tradizione lega i Monti della Tolfa alla figura di S. Agostino vescovo di Ippona che, seconde la leggenda, avrebbe soggiornato nella zona prima della partenza per l'Africa (48). Il dottore della Chiesa avrebbe posto la sua residenza presso una comunità di eremiti che già si trovava nel territorio. Questa notizia, anche se leggendaria, risulta molto interessante, perché proverebbe una presenza monastica sui monti tolfetani già nella seconda metà del IV secolo, ben prima cioè delle penetrazione abbaziale nell'alto Lazio.
Ad ogni modo, già nell'alto medievo sarebbe presente un cenobio legato a S. Agostino e dedicato alla SS. Trinità, che secondo gli storici agostiniani venne fondato nell'827 (49), a poca distanza dall'attuale paese di Allumiere. Le prime notizie sicure dell'eremo risalgono ai primi anni del pontificato di Innocenzo IV, che con due bolle del 1243 e del 1244 (50) concesse ai monaci agostiniani la chiesa di S. Severa, da identificare non con l'odierno paese costiero: ma con S. Severella, santuario situato nei pressi della città leonina di Cencelle.
Un'altra dipendenza dell'eremo della Trinità era il sacello di S. Agostino, posto sulle rive del Tirreno a poca distanza dalla foce del Mignone, in un luogo dove il santo avrebbe avuto una miracolosa visione, i cui ruderi furono distrutti definitivamente nel corso dell'ultimo conflitto (51).
Il romitorio della Trinità, che appare negli elenchi della decima sessennale 1274-1280 (52), ebbe una certa importanza soprattutto dopo la costituzione dell'ordine agostiniano (1256), e fu sede di due Capitoli della famiglia religiosa, nel 1275 e nel 1278 (53). La documentazione si fa particolarmente scarsa dopo questo periodo, ma pensiamo che l'eremo dovette conoscere una certa decadenza, se nella metà del XV secolo fu annesso al convento agostiniano di Corneto, che provvide a farvi risiedere saltuariamente una piccola famiglia religiosa retta da un priore, abolita definitivamente nella metà del XVIII secolo.
Del romitorio, facilmente raggiungibile dalla strada che da Allumiere conduce alla Farnesiana, restano oggi in piedi alcune imponenti rovine del monastero e dell'adiacente oratorio della Madonna del Soccorso, mentre in buone condizioni è ancora la chiesa, restaurata in epoca recente. (foto Tolfa antica)
Al termine di questo excursus storico, viene spontaneo chiedersi quale interesse economico e di controllo dei traffici commerciali potevano rappresentare i Monti della Tolfa nel medioevo. A questa domanda, visto lo stadio iniziale ancora delle ricerche, non si possono dare risposte adeguate, a causa anche della scarsa documentazione pervenutaci, si possono azzardare solo alcune ipotesi, che necessitano logicamente di approfondimento.
S. Maria al Mignone, la più celebre e ricca abbazia monastica delle tre che abbiamo considerato, dovrebbe aver avuto principalmente un ruolo latifondistico; il periodo che la conobbe protagonista, soprattutto a cavallo del mille, vede in tutta Italia, ma specialmene nel Lazio, una situazione di crisi demografica e di abbandoni, per cui risulta facile pensare che abbia avuto buon gioco l'accentramento in mano di Farfa di una vasta porzione di territorio disabitato, specie nelle condizioni di assoluta decadenza che allora attraversavano gli antichi centri come Centumcellae, Tarquinia, Graviscae, Caere. In questo quadro solo un centro monastico, in un certo senso meno legato alle forme di potere che si andavano ristabilendo, poteva rappresentare un polo di attrazione e di sfruttamento economico in un periodo in cui regnava una assoluta incertezza.
Dai documenti che la riguardano, S. Maria al Mignone risulta che sfruttasse le sue proprietà soprattutto mediante le colture della vite e dei cereali, e la vastità dei suoi territori fa pensare ad un ruolo primario di smercio agricolo nella zona della bassa Maremma, grazie anche al possesso dei mulini sul Mignone. Non é un caso che la decadenza repentina della cella coincida con la rinascita delle città, che cominciano ad esercitare dall'XI secolo un ruolo sempre maggiore in dipendenza e di controllo sui territori circostanti. S. Arcangelo invece, per la posizione più interna, fu probabilmente di primaria importanza nei confronti della pastorizia e dei traffici lungo le vie che seguivano la media valle del Mignone. Ancora non é stato chiarito a pieno il ruolo della pastorizia, specie quella ovina, nella prima parte del medioevo, ma questa doveva rappresentare una notevolissima fonte di reddito, anche centro di grande importanza, considerando anche la povertà alto laziale.
Per concludere, è difficile identificare il ruolo economico che poteva avere il romitorio della Trinità; certo non fu un centro di grande importanza considerando anche la povertà dell'ordine religioso che lo occupava. Può essere affascinante però ipotizzare un qualche sfruttamento delle vene di allume che si trovano in abbondanza nei pressi della zona legata a S. Agostino: l'allume infatti rappresentava una materia prima indispensabile per la tintura della lana e la concia delle pelli e, malgrado il silenzio delle fonti, per altro molto carenti per tutto il periodo considerato, sarebbe facile comprendere, se si potesse accertare una pur piccola estrazione locale del minerale, le ragioni economiche di questo insediamento monastico.
Il fatto che poi l'allume venne letteralmente « scoperto » nel XIV sec. non costituirebbe un problema, se consideriamo lo spopolamento e l'abbandono verificatosi nella zona a causa della grande peste, abbandono che poteva avere quasi del tutto smorzato il ricordo di una piccola attività estrattiva.
Federico Tron
I RESTI DELL'INSEDIAMENTO MEDIEVALE DI PIANTANGELI

Nel cuore del massiccio tolfetano, su un picco nei pressi della cima del monte Piantangeli, si trovano le rovine di un antico borgo, tra le quali si evidenziano i resti della chiesa. La zona, che domina la valle nord-est del Mignone, Figura 1é raggiungibile per la strada che dal tempio etrusco della « Grasceta dei Cavallari » sale verso est attraverso un fitto bosco, nel quale sono state trovate alcune tombe « a cappuccina » . La presenza di questi reperti ci fa supporre l'esistenza di un abitato tardo-romano o alto-medievale, costretto ad essere costruito in una posizione meglio difendibile e più protetta dalle continue scorrerie degli arabi che, come risulta da documenti del sec. IX, distrussero la vicina Cencelle. Ciò spiegherebbe l'incastellamento di Piantangeli che, pur trovandosi in una posizione ben difendibile offriva scarse possibilità di un'agevole vita quotidiana.
La conformazione del territorio su cui sorgeva l'insediamento é a forma di sella : apparentemente nella zona più bassa non vi sono tracce di costruzioni, mentre a sud (quota m. 511 s.l.m.) (54) sorgeva l'abitato e a nord (quota m. 498 s.l.m) la chiesa con il campanile. Dell'abitato non vi é rimasto alcun muro in elevazione, ma se ne notano soltanto tracce sotto la superficie erbosa. La zona, inoltre, si presenta con grandi buche scavate qua e là per scopi agricoli, dalle quali sono venute alla luce grandi quantità di materiali ceramici, dall'analisi dei quali risulta che l'insediamento è cronologicamente compreso entro un arco di tempo valutabile dal sec. VIII/IX alla prima metà del sec. XIV (55).
Non é possibile individuare la tipologia urbana del borgo per la scarsità di tracce sicure di edifici: é possibile soltanto individuarne approssimativamente l'estensione di m. 80 per m. 250. Per poter capire i modi di aggregazione dell'insediamento occorrerebbe uno scavo sistematico e abbastanza esteso.
Molto più evidenti sono i resti della chiesa, scavata dalla Soprintendenza nel 1974, i resti del campanile e, nella zona circostante, tracce di edifici, a loro volta contenuti in una vera e propria cinta muraria, della quale la parte superiore é abbastanza recente, ma si nota chiaramente la sovrapposizione ad una struttura più antica.
Lo schema della chiesa è a tre navate Figura 3, culminanti in tre absidi, di cui quella centrale ha un'ampiezza doppia di quelle laterali. Le navate sono ripartite in tre campate, scandite da quattro semicolonne addossate alle pareti corte e da quattro colonne centrali (una delle quali doveva essere a forma quadrilobata e un'altra probabilmente era un pilastro cruciforme). Ci troviamo di fronte ad un impianto basilicale, la cui iconografia è attribuibile al sec. XII.
Le dimensioni interne sono di m. 11,75/11,90 di larghezza e m. 19,15 dì lunghezza. Gli spessori dei muri sono: quello a sud cm. 70, quelli a nord e a ovest cm. 98, quello delle absidi cm. 82. All'esterno dell'angolo sud-est della chiesa si notano i resti della torre campanaria. Rimane poco più della base con l'avvio delle cortine murarie dello spessore di circa centimetri 110. L'area interna alla base é di metri 2,50 x 2,50. L'asse principale é orientato con inclinazione di ca. 15° sud, rispetto alla direzione est-ovest. Da considerare, inoltre, i capitelli recuperati dalla Soprintendenza nel 1974 e collocati nel cortile del Museo Civico di Tolfa. Al centro della navata maggiore, antistante la zona del presbiterio, si notano alcune parti di muro formanti un recinto a pianta quadrangolare. La forma, l'ubicazione, alcuni pannelli scolpiti (plutei), le dimensioni fanno pensare ad una destinazione originaria come probabile « schola cantorum »Figura 4.
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La disposizione delle pietre, alcune delle quali sulla parte sinistra sono ancora in sito, forma una panchina con pareti laterali più alte. Conci di tufo inseriti nella parete di questo gruppo fanno pensare a materiale riutilizzato da preesistenti costruzioni. Del pavimento restano scarse tracce, che non possono essere attribuite con sicurezza all'ultimo periodo. L'abside sinistra presenta uno scavo abbastanza recente. Un altro scavo é visibile anche nella parte immediatamente esterna alla predetta abside. Da questi si evidenziano prove di fasi preesistenti alla chiesa romanica. Appaiono chiare alcune tombe a fossa ricavate nel pancone di tufo, tagliate da muri di fondazione della chiesa stessa, e, verso il raccordo con l'abside centrale, un muro di fondazione, che doveva verosimilmente sostenere la parete nord di una precedente sistemazione dell'edificio.
L'ipotesi trova conferma nell'ubicazione della porta principale, che risulta attualmentedecentrata verso sud, ma in perfetto asse rispetto alla costruzione compresa tra quella fondazione e la parete sud. L'osservazione dei materiali con cui sono stati costruiti i corpi di fabbrica e dellatecnica con la quale sono stati impiegati, fornisce alcune interessanti indicazioni sulla culturamateriale dei loro costruttori. Si nota, infatti, che la tessitura muraria è formata da filaretti regolari variabili da un ricorso all'altro Figura 5, ma con conci ben squadrati anche se di pezzature medie variabili. L'apparecchiatura delle pietre delle absidi, invece, é fatta non con i soliti filaretti ricorrenti, ma in maniera più irregolare Figura 6. Quel che resta delle colonne e delle semicolonne addossate alle pareti evidenzia una tecnica di scalpellino ben curata con conci sovrapposti omogenei e accuratamente battuti Figura 7. Le informazioni che si possono desumere dall'ipotesi di conduzione del lavorodi fabbrica e dall'esame tecnico-stilistico dei capitelli suggeriscono l'impiego nella esecuzione delle opere di maestranze quasi sicuramente lombarde. Nell'area della chiesa é stato recuperato diverso materiale fittile collocabile dal sec. XII al sec. XIV, mentre nell'area esterna sono stati rinvenuti frammenti più antichi. Dalle commettiture del piano su cui era impostato il pavimento della chiesa, è stata recuperata una moneta di Federico II (sec. XIII) e da un livello superficiale altre due monete del sec. XIV (56). Sebbene lo stato di avanzato degrado dei ruderi e la mancanza di informazioni, provenienti da scavi archeologici sistematici, non permettano di tracciare un quadro completo dello insediamento medievale di Piantangeli, si ritiene opportuno avanzare alcune ipotesi conclusive.
I muri in elevazione rimasti e l'impianto iconografico fanno pensare ad una costruzione eseguita nel sec. XII su una costruzione ad aula unica del periodo pre-romanico. Il materiale reperito conferma tale ipotesi. L'abbandono dell'edificio dovrebbe essere avvenuto intorno alla metà del sec. XIV. Non si notano tracce d'interventi né di trasformazioni allo interno successive al periodo romanico; ne é prova la persistenza del recinto della probabile « schola cantorum », tuttora evidente in alzato. Ma ancor più probante è l'assoluta mancanza di materiale ceramico e monete, posteriori alla metà del sec. XIV.
Riccardo Berretti

BIBLIOGRAFIA

Si ritiene opportuno segnalare alcune opere essenziali al fine di richiamare l'attenzione sul problema delle origini del Comune Rurale e sulla comparazione stilistica dell'impianto e degli elementi compositivi ecclesiali.
SCHNEIDER F. - « Le origini dei Comuni rurali in Italia », Firenze, Papafava, I980 (Edizione in lingua tedesca 1924).
MENGOZZI G.. - « La città italiana nell'Alto Medioevo». Firenze, La Nuova Italia. I931 (la ed. I915).
LOGNETTI G. P. - «Studi sulle origini del Comune Rurale», Milano, Vita e Pensiero, I978 (Raccolta di opere scritte fra il I926 ed il I962).
SALMI M. - «L'architettura romanica in Toscana», Roma I928.
TABACCO G. - «La storia politica e sociale, dal tramonto dell'Impero alle prime formazioni di Stati regionali», (Cap. V, 2), in Storia d'Italia, II, Torino, Einaudi, 1974.
«Il Romanico », Atti del Seminario di Studi a cura dell'ISAL, Villa Monastero di Varenna, 8-16 settembre I973.
FOCILLON H. - « Scultura e pittura romanica in Francia», Torino, Einaudi, I972.
MORRA O. - « Tolfa », Civitavecchia.
POLIDORI M. - «Croniche di Corneto », Tarquinia, 1977.

I CAPITELLI DI PIANTANGELI

I — In un cortile del palazzo municipale di Tolfa, purtroppo esposte all'azione degli agenti atmosferici, sono conservate le testimonianze più singolari ed eloquenti fra quelle che ci sono rimaste su Piantangeli. Si tratta di una serie di capitelli, accompagnati da lastroni decorati a bassorilievo e da un sarcofago, per un totale di 16 manufatti litici. Qui di seguito, é fornita una sintetica descrizione di ognuno di essi. L'ordine di presentazione segue il senso antiorario, partendo dalla destra di chi entra nel cortile proveniendo dal portone principale del palazzo.
1 — Capitello - di grandi dimensioni (circa 90 cm. agli spigoli) decorato e rifinito nella sola metà anteriore. Stile composito.
2 — Capitello - di piccole dimensioni (poco meno della metà del precedente), decorato nella metà anteriore. La sola parte frontale é scolpita a bassorilievo e presenta due animali, di cui uno segue e addenta l'altro.
3 — Capitello - di dimensioni intermedie rispetto ai precedenti, decorato nella metà anteriore. Presenta una testa d'ariete per ogni spigolo, unite frontalmente da un solo corpo, e con la metà anteriore di un altro corpo sui lati più piccoli.
4 — Capitello - dimensioni simili al precedente, decorato nella metà anteriore. Sullo spigolo sinistro di chi osserva, un arciere si volta a tendere l'arco contro un animale, forse un cervide posto sull'altro spigolo che, fuggente, volge il capo verso di lui.
5 — Sarcofago - sufficiente ad accogliere un corpo di normali dimensioni, non ha coperchio né presenta alcuna decorazione o scritta.
6 — Capitello - dimensioni simili al precedente n. 4, decorato nella metà anteriore. Stile composito.
7 — Capitello - dimensioni di poco superiori al n. 1., pianta grossolanamente trapezoidale. E' decorato soltanto sulla faccia anteriore con grosse foglie non rifinite.
8 — Capitello - dimensioni e pianta simile al precedente. Stile composito con traforo fra ogni voluta e la grossa foglia alla sua base.
9 — Capitello - frammento, con proporzioni simili al precedente. E' un frammento di spigolo in stile composito assimilabile al precedente capitello.
10 — Capitello - dimensioni simili al n. 3, molto rovinato, forse decorato nella sola metà anteriore e soltanto con foglie.
11 — Capitello - dimensioni simili al n. 1, decorato nella metà anteriore soltanto con foglie, pianta rettangolare.
12 — Elemento - lastra di forma irregolare e di grandi dimensioni, più corta e più larga del sarcofago n. 5.
In un riquadro rettangolare delimitato da due solchi, sono raffigurati a bassorilievo due animali affrontati, poggiati sulle zampe anteriori e con la testa rivolta in atto di mordersi (?) la coda, ripiegata e passante sotto le zampe posteriori.
13 — Capitello - dimensioni simili al n. 3, decorato nella metà anteriore. Su ogni spigolo, un'aquila acefala, ad ali spiegate, con piumaggio molto dettagliato.
14 — Capitello - dimensioni simili al n. 7, decorato sulle quattro facce. Leggendole in senso antiorario, esse presentano queste raffigurazioni:
a) una melusina, o sirena a due code.
b) una faccia decorata in stile composito.
c) una faccia simile alla precedente.
d) un'ultima faccia in stile composito, con una testina ridente fra le due volute.
15 — Capitello - dimensioni simili al n. 2, decorato forse sulle 4 facce; leggendole in senso antiorario: a) due animali affrontati e a testa bassa, con corpi minuti e proporzioni grottesche; quello a sinistra di chi osserva, forse un coniglio.
b) animale isolato, simile come forma e pose al coniglio di a).
c), d) lisci (?).
16 — Capitello - dimensioni simili al n. 1, decorato forse sulle 4 facce; leggendole in senso orario:
a), b) stile composito, con una rosa ad 8 petali fra ogni coppia di volute.
c), d) lisci, molto probabilmente rovinati.
Lo spigolo fra le facce a) e b) è sporgente a forma di rostro.
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Nel medesimo cortile, una piccola lapide indica genericamente, come luogo di provenienza di tutti questi manufatti Monte Piantangeli, su cui sorgono le rovine dell'abbazia.
II — La prima osservazione sui manufatti conservati nel cortile del palazzo comunale concerne il materiale con cui furono scolpiti. Si tratta di una pietra tufacea di colore grigio scuro, abbastanza porosa; tutti i pezzi conservati sono ricavati da questo tipo di materiale, che, per sua natura, risente dell'azione del tempo: a causa di ciò, ogni manufatto, chi più chi meno, é ricoperto da una certa quantità di depositi vegetali. Inoltre, come abbiamo già visto nel corso delle descrizioni, alcuni pezzi sono rovinati o mutili (e le muffe poste sulle fratture indicano che non ci sono state menomazioni recenti), ed il dilavamento di alcuni di essi, particolarmente evidente nel capitello n. 2, si aggiunge a complicare le cose. Troviamo utilizzato questo tipo di tufo anche in molte case di Tolfa e nei ruderi della rocca del paese, sia in forma di semplici blocchi squadrati, che di manufatti più rifiniti (si veda ad esempio una piccola lastra con un altorilievo recante il monogramma IHS circondato da un sole raggiato). Anche questi materiali hanno il colore ed i depositi già visti sui nostri manufatti, però, rispetto a questi ultimi, ci consentono di stabilire dei riferimenti temporali; per quanto riguarda gli inserti in tufo nel mastio della rocca si può risalire al sec. XI, mentre la lastra con il monogramma cristiano è senz'altro posteriore alla divulgazione di questo simbolo per opera di S. Bernardino da Siena (XV sec.). Un utilizzo prolungato nel tempo, quindi, senz'altro basato sullo sfruttamento di una cava locale (finora non localizzata) che sarà servita anche per la « fabbrica » di Piantangeli prima ancora che per la rocca di Tolfa; nel medioevo era normale usare pietre locali per qualunque tipo di costruzione.
III — L'esame ed il commento delle raffigurazioni scolpite su ogni singolo capitello offrono invece lo spunto per giungere a conclusioni più precise delle precedenti. Per questo scopo, qui di seguito, si elencano i paragoni ed i raffronti più caratterizzanti per ogni manufatto sopra descritto; ogni gruppo di osservazioni é raccolto sotto un numero progressivo, che rimanda a quello del manufatto relativo secondo l'ordine seguito nelle descrizioni.
1 — Lo stile composito riunisce in un solo capitello le caratteristiche degli stili ionico e corinzio, sovrapponendo alle decorazioni floreali di quest'ultimo i motivi e le volute geometriche del primo. Esso nasce a Roma, ed assume perciò diffusione tanto universale che, ancora nel Medioevo, é una forma molto usata per decorare un capitello nella sua globalità, escludendo quindi le decorazioni limitate ad una o più facce.
Il capitello 1, pertanto, è uno dei più generici e meno datanti fra quelli studiati. E' assai essenziale e schematico: le volute ionicizzanti sono formate da una fettuccia singola, e inframezzate da un rilievo (forse un fiore ad otto petali); le foglie d'acanto, di diverse dimensioni e disposte in doppio girale, hanno forme grossolane e, come uniche decorazioni, la nervatura centrale in rilievo e la punta ripiegata leggermente all'ingiù. Manca in esse ogni accenno al minimo gioco della fantasia: le foglie d'acanto, in particolare, sarebbero state suscettibili di tante e diverse forme e rifiniture; invece, tutto é riprodotto e ridotto al minimo indispensabile. Non é però il prodotto di una mano rozza: le linee sono precise, soprattutto le curve delle volute, gli acanti non sono disposti disordinatamente, e le cure messe nel rifinire il presunto fiore a 8 petali, nonostante il suo cattivo stato attuale e le piccole dimensioni (una decina di cm. di diametro), sono ancor oggi visibili. Come termine di paragone fra i tanti possibili, i seguenti capitelli sono forse i più utili:
A) Acquapendente, S. Sepolcro, cripta (IX);
B) Monreale, Duomo, chiostro (XII; assai più rifiniti di Piantangeli);
C) Tuscania, S. Pietro (VIII, comunque prima 1093; con volute ionicizzanti a doppia fettuccia) (J. Raspi-Serra, Le diocesi dell'alto Lazio, 1974).
D) Nebbio (Corsica), Assunzione (1125 ?; a fogliami appiat¬titi e volute atrofizzate) (Enciclop. Treccani, s.v. « Corsica »).
E) Bominaco (AQ), S. Maria Assunta (XI; più elaborati di Piantangeli ma abbastanza simili).
2 — La piccolezza del capitello influisce sulla leggibilità delle figure; tuttavia, l'animale sulla sinistra di chi guarda, quello addentato, appare più accurato dell'altro essendo dotato, forse, di un collare (così possono essere interpretate le due pieghe che presenta sul collo). In tal caso, si tratterebbe senz'altro di un cane, animale tradizionalmente raffigurato anche in araldica con questo accessorio, simbolo di fedele e cosciente sottomissione; meno probabilmente é una pecora, simbolo di mansuetudine cristiana e della Chiesa stessa.
In ogni caso, il nostro capitello raffigura una scena di sopraffazione e di violenza fra animali, simbologia abbastanza nota ed utilizzata a livello popolare soprattutto ad uso moraleggiante.
Come paragoni, la mitologia classica (non ignota al Medioevo) offre numerosi esempi di animali che si aggrediscono. Nelle sculture, c'è la preferenza a rappresentare bestie in atto d'inseguirsi od affrontarsi: le scene di aggressione troveranno maggior favore negli ultimi secoli del Medioevo (cfr. a l'Aquila, chiesa di S. Maria di Paganica: sull'arco a coronamento del portale, 1318; la prima scenetta a sinistra raffigura un lupo che addenta un coniglio).
3 — Per ingegnosità d'esecuzione é senz'altro uno fra i migliori capitelli rimasti. La simbologia dell'ariete é stata assai sfruttata nell'evo antico, e fin dai primi anni della cristianità ha assunto significati anche antitetici. Animale sacro a Pan e a Giove, divenne per i cristiani il simbolo rispettivamente del diavolo e del Cristo, della sfrenata lussuria (cattedrale di Auxerre, Francia) e del supremo sacrificio immolatorio. Vanno senz'altro considerate in quest'ultimo senso tutte quelle raffigurazioni, come quella di Tolfa, in cui l'ariete viene scolpito naturalisticamente e senza accompagnamento di altre figure, e di cui elenco qui di seguito alcuni esempi.
A) — Acquapendente, S. Sepolcro, cripta (IX): capitello con quattro teste di ariete, una per spigolo, inframezzate da fogliami.
B) — ibidem, capitello con due teste di ariete, su spigoli contrapposti, ognuna con due corpi (uno per lato).
C) — ibidem, capitello di lesena (cioè dimezzato) con testa di ariete.
D) — San Quirico d'Orcia (Si), Collegiata (anteriore all'XI): sulla trabeazione sopra l'arco del portale di ponente aggettano tre teste d'ariete.
4 — Questo capitello risulta unico nel suo genere. Scene di caccia sono poco frequenti nella scultura medievale (C. L. Ragghianti, « L'arte Bizantina e Romanica », ed. Casini, col. 381-2; VIII sec.: scene di caccia, Cattedrale di Civita Castellana; caccia col falcone, S. Saba a Roma), e il tema dell'arciere non é quasi mai toccato. Nella chiesa della Madonna del Parto, a Sutri, una pittura di epoca tardomedievale fornisce l'unico paragone, raffigurante appunto un arciere che lancia contro un cervo delle frecce miracolosamente respinte. Escluso il particolare delle frecce (peraltro difficilmente rappresentabile su un unico capitello), ritroviamo la medesima iconografia, con in più la conferma della natura dell'animale cacciato. La raffigurazione ci riporta ad una ben nota leggenda del Gargano.
5 — La genericità del manufatto consente soltanto di fare più ipotesi che considerazioni. Essendo privo di ogni decorazione, la mancanza della lastra del coperchio si fa ancor più sentire. Il materiale é lo stesso dei capitelli, indice dello sfruttamento della medesima cava, ma non necessariamente di contemporaneità con essi. La presenza di sepolture scavate nella viva roccia sotto l'edificio ecclesiale e poi coperte dalle absidi (presumibilmente nel XII sec.) indica soltanto che forse il sarcofago non era pertinente alla primissima fase della chiesa.
Non é facile attribuire una datazione ad un manufatto così generico e non decorato. La sua disadorna semplicità fa pensare al modus vivendi cistercense ed ai sarcofaghi normanni dell'Italia meridionale, fenomeni entrambi dell'XI-XII secolo, ma non é possibile escludere del tutto una datazione anteriore a questa.
6 — Per questo capitello valgono le stesse considerazioni di cui al n. 1.
7 — E' una grossolana e squadrata interpretazione medievale del capitello corinzio classico, di cui esistono numerosissime varianti più o meno aderenti al prototipo antico. Valgono anche per esso le considerazioni globali fatte per il n. 1, con in più l'aggravante della totale mancanza di decorazione nelle foglie, esclusa la punta leggermente ripiegata, fatte salve le altre differenze. Esistono parecchi esempi di capitelli con foglie così semplici (cfr. Orvieto, S. Lorenzo, ciborio XII sec.) ma mai disposti su più girali ed in quantità così alta come nel nostro. Lì la stilizzazione é effettuata su tutto il capitello, nel nostro solo sugli elementi che lo formano: si tratta di una scelta ben diversa, legata alla ricerca della semplicità più che del formalismo estetico fine a se stesso, scelta che anche gli altri manufatti di Piantangeli ci suggeriscono ma non con la stessa evidenza.
8 ; 9 — Valgono le considerazioni espresse per il n. 1. E' degna di nota la ricerca di preziosità fatta raccordando la base delle volute col vertice delle foglie sottostanti, collegabile alle cospicue dimensioni dei capitelli, che ne fanno gli esemplari più vistosi.
10; 11 — Valgono le considerazioni espresse per il n. 7. Del n. 11 si noti la pianta a forma rettangolare.
12 — E' senz'altro parte di una transenna, molto probabilmente di quella delimitante il coro. Nell'architettura ecclesiale del medioevo il coro posto al centro della chiesa era elemento tipico e costante, e numerosi sono gli esempi giunti fino a noi (Roma, S. Clemente; Monreale, Duomo; ecc.); nel VII sec. l'impiego delle transenne appare radicato e diffuso, per poi continuare a lungo, con una gamma di decorazioni pari a quelle dei capitelli per fantasia e ricchezza. Escludo che il nostro elemento facesse parte dell'ambone della chiesa di Piantangeli perché questo sarebbe risultato troppo grande rispetto al resto dell'edificio, così come escludo che facesse parte della balaustrata del presbiterio, della quale non risultano testimonianze in loco. Accurati nell'esecuzione, gli animali facenti parte della decorazione sono rappresentati nello stesso stile dei capitelli, con simmetria precisa e puntuale e con la medesima sobria utilizzazione. Molto curata ed esatta é anche la cornice rettangolare che li racchiude. La mancanza di decorazioni superflue avvicina questo elemento ad altri esemplari di transenne piuttosto recenti (Bominaco, L'Aquila, S. Pellegrino (1263). Il tema delle fiere accovacciate e con la coda fra le gambe, posa interpretabile sia come sottomessa e addomesticata (cfr. Sacra di S. Michele, Val di Susa, capitello del portale, dopo X secolo), sia come aggressiva e in atto di sopraffare (L'Aquila, S. Maria di Paganica, arco sopra il portale, XIV sec.), qui é probabilmente collegabile al primo dei due sensi indicati: negli animali manca l'evidenziamento delle caratteristiche ferine altrimenti indispensabili.
13 — Assieme al leone, l'aquila é l'animale che in ogni tempo ha più sollecitato la fantasia degli uomini: in Grecia fu una delle metamorfosi di Giove; a Roma fu uno dei simboli del potere imperiale; per i cristiani, fu simbolo sia di S. Giovanni Evangelista che del trionfo glorioso di Nostro Signore. Per tutto il Medioevo, e anche dopo, queste due fiere furono gli animali più usati e raffigurati sugli scudi araldici, in virtù dell'impressione di forza e potenza da essi esercitata. Perciò trovare aquile come elementi decorativi nelle chiese medievali non è motivo di stupore. Fra il IX e XIII secolo ne troviamo in grande quantità, dopo che Carlo Magno nell'anno 800 fu il primo grande personaggio a fregiarsi di tale simbolo.
Ecco una piccola scelta di esempi paralleli a Piantangeli:
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A — Pisa e Siena, Duomo, XIII sec.: aquila a sostegno dei messali sui pulpiti (cfr. opere simili in Puglia).
B — Acquapendente, S. Sepolcro, cripta IX sec.: 3 capitelli interi con un'aquila su ogni spigolo e un capitello di lesena con un'aquila sulla faccia anteriore.
C — S. Quirico d'Orcia, Collegiata, 1288: su due dei portali esterni, aquila su una coppia di capitelli; sulla lunetta di una bifora esterna, un'aquila isolata (tutte simili a quelle di Piantangeli).
D — L'Aquila, chiesa di S. Marciano, XIII sec.: aquila sui capitelli del portale (accostata dagli altri simboli degli Evangelisti; assai simile a Piantangeli).
E — L'Aquila, S. Maria di Collemaggio, Porta Santa; e Civita Castellana, Duomo, portale (con numerosi altri esempi): aquila a coronamento degli archi sopra la porta.
F — Avigliana (Torino), edificio diruto nel centro storico: capitello di bifora con aquila agli spigoli.
G — Aquila isolata a decorazione di amboni (Moscufo (PE)), 1159; Ravello, XII-XIII sec.; Sessa Aurunca, XIII) e di cattedre vescovili (Canosa di Puglia, 1078-H — Pavia, S. Michele, portale: aquila su un angolo di un capitello (posteriore al VII-VIII sec.).
Notiamo quindi che l'uso di aquile su capitelli interni alle chiese, come sono quelle di Piantangeli, è più limitato rispetto a quello su altri elementi. Si predilige l'uso su pulpiti o sopra i portali, per sfruttare le qualità plastiche delle figure, oppure su capitelli esterni all'edificio. La posa dell'animale é la stessa in ogni esempio, ad ali aperte con la punta verso il basso, più sfruttabile esteticamente e più ricca di senso protettivo (cfr. le ali degli angeli nelle pitture medievali), rispetto a quelle con le punte in alto, senz'altro più rapace e quasi esclusiva nell'uso araldico.
Il ricco piumaggio fa delle aquile di Piantangeli le figure più decorate e rifinite, forse più per sottolinearne le caratteristiche che a causa di una diversa fonte di esecuzione rispetto alle altre. Mancano, nei capitelli giunti fino a noi, altri simboli degli Evangelisti; tuttavia è forse da escludere l'ipotesi di una forma particolare di culto verso S. Giovanni nella chiesa di Piantangeli.
14 — Per quanto riguarda le facce b), c), d), valgono le osservazioni relative al n. 1. Sulla faccia d) va segnalata la presenza di un piccolo volto umano, senza corpo, che è un elemento fra i più caratteristici dell'arte decorativa medievale. Lo troviamo usato in particolare all'esterno delle chiese, sui falsi archetti oggettanti alle pareti (L'Aquila, S. Domenico, posteriore al XIII sec.; Ponzano Romano, S Andrea ad Flumine, anteriore al 962) o come decorazione aggiunta su grandi superfici (es. a coronamento della facciata o sugli archi interni della costruzione). Tale uso di completamento e sottolineature venne esteso senza difficoltà anche ai capitelli, di cui quello di Piantangeli é un esempio classico e semplice. La figura della faccia a) merita un discorso a parte. Si tratta di una sirena, intesa nel senso medievale e non antico, cioè un mostro metà donna e metà pesce, discendente dalla Scilla dei greci e di cui esistono alcuni esempi (cfr. Sovana, Tomba della Sirena, IV-III sec. a.C.). Questo personaggio, noto in araldica col nome di Melusina, fu oggetto di numerose leggende medievali, soprattutto in zone di influenza francese, e godette di una certa fama. Tema caro ai Bestiari manoscritti, la Melusina fu molto diffusa nella scultura medievale europea, grazie anche ai numerosi spunti plastici offerti dalla sua spiccata simmetria; un elenco sommario dei paragoni possibili é perciò forzatamente assai riduttivo:
A — Cividale del Friuli, Museo Archeologico, VIII sec. (?);
B — Montefiascone (VT), S. Flaviano, 1032-1302; é la meno dissimile dalla nostra di Piantangeli;
C — Monreale (PA), chiostro del Duomo, XII sec., almeno due capitelli raffigurano anche una Melusina;
D — Como, S. Fedele, XII sec.;
E — Alba Fucens, pannello, VI sec.;
F — L’Aquila, S. Maria di Collemaggio, XII sec. Melusina in cima al portale sinistro con code floreali anziché ittiche;
G — Acquapendente, S. Sepolcro, IX sec., cripta, capitello di lesena.
L'iconografia della Melusina di Piantangeli si attiene allo schema classico, che vede la figura femminile stringere ognuna delle code nei pugni alzati. Ciò che la rende unica é l'assenza di alcuni segni distintivi quali i capelli e le squame, elementi tipici e di cui si fa ampio uso nelle leggende orali ed in ogni altra figurazione esaminata. Questo succede non per incuria da parte dello scultore, che ha peraltro raffigurato la Melusina con precisione (occhi, viso, mani a 5 dita, ecc.); ma per sua scelta evidente: é una figura schematica, quasi geometrica e totalmente simbolica. Se la Melusina raffigura la lussuria, come vuole la maggioranza degli studiosi, allora quella di Piantangeli ne é l'esempio e il simbolo più schietto e meno compiaciuto, più significativo e meno stuzzicante. Allineata allo stile sobrio degli altri elementi, é però la figura in cui più risaltano stile, cultura e temperamento dell'artista scultore.
15 — Per questo capitello valgono le considerazioni svolte per il n. 2, tenendo ovviamente presenti le differenti pose degli animali. Non é escluso che le scene scolpite facessero parte di una storia unica, almeno limitatamente a questo capitello; l'ani¬male della faccia b) é presente anche sulla faccia a), ma i due animali di questa faccia sono senz'altro diversi da quelli del capitello n. 2. A titolo di raffronto, ricordiamo:
A — L'Aquila, S. Maria di Paganica, arco del portale (1308) vera raccolta di scenette brulicanti di animali, isolati o a coppie;
B — L'Aquila, S. Pietro di Coppito, arco del portale (XIV sec.) simile al precedente ma meno ricco di figure;
C — Paganica (AQ), chiesa dell'Immacolata, facciata con lapide romana di riutilizzo scolpita con scene di animali (aquile soranti, cervi inseguiti da cani, arieti, pavoni).
Notiamo che il coniglio, animale caro alla tradizione classica e notissimo nel medioevo, viene scarsamente usato nelle scul¬ture; l'animale del capitello in questione potrebbe essere anche un asino, molto popolare anch'esso, e non in senso negativo.
16 — Valgono le stesse considerazioni espresse per il n. 1. A differenza del n. 14, faccia d), l'ornamento fra le volute é un fiore e non un volto umano; ciò, unitamente alla foggia a spigoli acuti, pone questo capitello in evidenza particolare rispetto agli altri, forse in relazione ad un suo impiego in luogo più visibile.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
IV — Questi capitelli sono senz'altro opera di una personalità sicura, tendente al concreto, conoscitrice e partecipe della cultura del suo tempo; dotato di una certa istruzione, di un temperamento attento ai riferimenti terreni e morali delle figure da lui rappresentate, questo artista badava a raffigurare in forma semplice i suoi soggetti, trascurando le ornamentazioni ricche e superflue e limitandosi a sottolineare con piccoli dettagli i lati più salienti delle sue raffigurazioni (l'erba fra le zampe degli arieti). Evita, con una frugalità quasi ascetica, perfino decorazioni praticamente essenziali come i capelli e le squame della Melusina, a dispetto anche dal suo desiderio di precisione che lo spinge a riprodurre fedelmente i dettagli anatomici dei corpi (mani a 5 dita, volti, ecc.). Artista libero da schemi, cura la simmetria ordinata (melusine e capitelli compositi) ma é abile anche nelle figurazioni a schema libero (capitello del cacciatore, animali) e in quelle con ordine più complesso (arieti); conosce opere similari e tende a riprodurle più che a ricopiarle, con buon gusto ed una certa fantasia. Sa creare, e il capitello del cacciatore ne é la prova, sia per proporzioni fra le masse che per precisione e cura psicologica delle figure. Forse non é un lapicida di professione, perché evita i lavori di virtuosismo scultorio (fogliami, volute, ecc.) tanto comuni nel suo periodo. Molto probabilmente era un chierico
dell'abbazia, in grado di viaggiare e di attingere alle fonti di cultura necessarie; una delle tante figure tuttofare di cui il medioevo é ricco, un uomo di chiesa ma non di curia, colto ma vicino alla gente, conoscitore dei classici e della tradizione popolare.
V — Cenni sulle posizioni dei manufatti nella planimetria originaria.
A — Il sarcofago.
Le dimensioni relativamente piccole dei resti della chiesa di Piantangeli (circa 20 m. di lunghezza per 12 di larghezza) inducono a ritenere che esso fosse posto al di fuori oppure sulle sue mura, piuttosto che nel suo interno; forse era anzi conservato nell'ambito di uno dei diversi edifici le cui fondamenta si individuano ancora attorno alla chiesa, tuttavia non é possibile portare prove precise pro o contro queste ipotesi.
B — Le lastre.
I resti della chiesa, a tre absidi, indicano nel suo centro la presenza di un recinto, molto probabilmente un coro. Le lastre conservate a Tolfa sono, con molte probabilità, pertinenti ad es¬so, e potevano costituirne una parte del perimetro.
C — I capitelli.
Sono raggruppabili in tre gruppi di dimensioni: grandi (7 esemplari), medi (5), piccoli (2); raggruppandoli invece per disposizioni di decorazioni notiamo che solo uno é certamente decorato nelle quattro facce, mentre ben 11 lo sono solo sulla metà o sulla faccia anteriore (i restanti due non sono decifrabili). Sulla planimetria si notano i segni o i resti di 8 basamenti di colonne (4 fra ogni navata): in corrispondenza ad essi, sulle pareti non si notano tracce di colonne laterali o di lesene, di cui tuttavia dobbiamo ammettere l'esistenza, vista la gran quantità di capitelli di lesena (quelli decorati a metà) che ci sono pervenuti. I due capitelli piccoli molto probabilmente decoravano le finte colonne dei portali, di cui restano scarse tracce. Davanti alla facciata sono ancora i resti di un ambiente, forse un ingresso porticato (cfr. Roma, S. Clemente, ingresso originario; Milano, S. Ambrogio); l'attuale presenza di un piccolo cumulo di rocchi di colonna fra i resti di quest'ambiente induce a credere che il numero dei capitelli di Piantangeli rimasti sia, tutto sommato, piuttosto scarso.
VI — Datazioni; un suggerimento sugli scopi di Piantangeli.
Dagli esempi e dai paragoni effettuati, abbiamo visto come tutti i capitelli di Piantangeli siano esempi locali di raffigurazioni comuni all'arte ed al pensiero medievale. Fa eccezione il capitello dell'arciere, per il quale sarebbe auspicabile in futuro un'indagine più capillare ed esclusiva. Per quanto riguarda lo stile delle raffigurazioni, abbiamo invece notato che i paragoni possibili sono pochi: non é facile trovare esempi artistici medievali in cui semplicità e schematismo delle figure si uniscano ad una voluta mancanza di decorazioni superflue ed estetizzanti e ad un acuto senso della simmetria e del buon gusto. Ognuno di questi parametri ha incontrato accoglienze diverse nel corso del tempo. Le figure semplici o ridotte in schemi vengono in uso fin dai tempi delle invasioni barbariche; le decorazioni, geometriche o floreali che fossero, dopo essersi grandemente diffuse in parallelo con le decorazioni consimili dei manoscritti, verranno gradatamente meno a partire dalla ripresa dell'attività edilizia in grande stile a cavallo fra il X e l'XI secolo (quando sull'Europa « ...si stese un bianco mantello di chiese »). La simmetria ed il buon gusto nell'arte sono esigenze connaturate all'uomo. Nel medioevo, tuttavia, le tecniche artistiche non consentirono sempre agli artefici di trasferire fedelmente sugli oggetti le proprie intenzioni; ciò soprattutto fu vero nelle zone più lontane da luoghi di traffico. Se lo stile delle decorazioni dei capitelli di Piantangeli ha pochi riscontri, la loro natura é invece assai meno originale. Perfettamente inseriti nelle correnti di pensiero, nelle abitudini e nelle consuetudini del tempo essi trovano facilmente paragoni sia dentro che fuori d'Italia. Gli esempi che ho riportato (limitandomi soltanto a quelli nostrani) coprono globalmente un arco di tempo piuttosto ampio, fra l’VIII e il XV secolo. Considerando anche lo stile, dimezziamo quest'intervallo e poniamo fra il X ed il XII secolo l'epoca della presumibile realizzazione delle opere esaminate.
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Capitelli
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Maurizio Gorra

LA CERAMICA DI PIANTANGELI

I reperti provenienti dalle prospezioni archeologiche di superficie effettuate nel villaggio abbandonato di Piantangeli (57), consistono quasi esclusivamente di frammenti ceramici. L'abbondanza di materiale visibile a livello di campagna ha suggerito l'opportunità di progettare un sistematico lavoro di raccolta che ha confermato una volta di più la validità di tale metodo d'indagine (58). Nella realizzazione della planimetria generale, il sito è stato suddiviso in quattro settori (59):
1) SETTORE A: Interno della chiesa, con due ulteriori differenziazioni, Al e A2, rispettivamente per l'abside sinistra (Al), e per la Torre Campanaria (A2).
2) SETTORE B: Interno cortina muraria;
3) SETTORE C: Esterno cortina muraria;
4) SETTORE D: Abitato.
SETTORE A
All'interno dell'area delimitata dai muri in elevazione dell'edificio sacro sono stati recuperati 365 frammenti. Altri 368 provengono dalla terra di riempimento dell'abside sx (Al), che, al momento del nostro intervento, risultava già scavata da ignoti per una profondità di cm. 105 dal piano su cui doveva essere impostato il pavimento.
E' stata dedicata particolare attenzione alla completa ripulitura della cortina absidale sx che ha evidenziato alcune fosse tombali tagliate nel pancone trachitico. Tali sepolture vennero verosimilmente disturbate, come risulta dalla investigazione architettonica, durante la costruzione dell'abside riferibile alla fase romanica della chiesa (sec. XII). Si sono recuperate fra l'altro almeno quattro anfore (olle acquarie) frammentarie, che contenevano ossa umane: una di queste è stata ricostruita quasi integralmente. La fase romanica della chiesa costituisce quindi un possibile « terminus ante quem » per la ceramica contenuta nella terra di riempimento dell'abside sx.
Analoga indicazione è fornita dal fondo della torre campanaria (A2), che ha restituito 23 frammenti.
SETTORE B
Dall'interno della cortina muraria, dove si evidenziano anche strutture riferibili alla rocca, provengono 301 frammenti.
SETTORE C
All'esterno, lungo le pendici della stessa collina, sono stati recuperati 840 frammenti.
SETTORE D
La zona dove sorgeva l'abitato é stata individuata a sud-ovest della collina principale (60), dalla quale dista circa 250 metri. Le abitazioni erano organizzate su tre terrazzamenti abbastanza regolari. La concentrazione dei reperti fittili ivi recuperati, suggerisce con buona approssimazione l'ampiezza di circa m. 250x80. I 753 frammenti provengono dalla superficie e da strati più profondi; infatti, il terreno, attualmente destinato a pascolo, viene periodicamente sottoposto ad interventi meccanici per estirpare la macchia invadente e presenta larghe buche irregolari, profonde mediamente 70 cm.
L'insieme del materiale ceramico rappresentato da 2650 frammenti è stato diviso in quattro gruppi cronologici all'interno dei settori da cui provengono, consentendo la realizzazione di una tabella di distribuzione dei diversi tipi nel luogo e nel tempo (Fig. 1). Analisi del materiale (61)
La quantità dei reperti ceramici calcolabile in quasi 2700 pezzi é veramente notevole, purtroppo però il loro stato di conservazione, decisamente frammentario, non ha consentito di ricostruire integralmente più di un recipiente. Mancando, quindi, com'è evidente, la possibilità di effettuare confronti per la forma, l'interpretazione si è basata soprattutto sulla tecnica di copertura, sulla decorazione e sull'impasto. Per avere poi una immagine globale del sito, era opportuno non privilegiare certi tipi, relativamente più facili da determinare, rispetto a quelli privi di caratteristiche peculiari, anche perché questi ultimi costituiscono il gruppo più consistente.
Capitelli

CERAMICA DI TRADIZIONE TARDO ROMANA

Appartiene all'ultima produzione romana di ceramica comune, un esiguo gruppo di frammenti ad impasto quasi tenero, ben depurato, di tonalità dal cuoio rosato al rosso. Un'ansa e un bordo mostrano particolari che ricordano la produzione classica, mentre gli altri, molto deteriorati, evidenziano solamente la loro appartenenza a forme chiuse. (disegni e le fotografie sono di Riccardo Berretti.)
Per l'apparente assenza di quell'associazione di materiali che si riscontra in livelli tardo imperiali (Lamboglia, 1950, 21), questi frammenti sembrano potersi collocare in periodo alto medievale. L'assoluta mancanza di ceramiche sigillate, prodotte nel Mediterraneo fino al VII secolo (J. W. Hayes, 1972) potrebbe rappresentare un possibile « terminus post quem » per la data di fondazione di questo insediamento. Allo stesso periodo dovrebbero appartenere un orlo a mandorla in rozza terracotta e 32 frammenti di parete; provengono quasi tutti dal settore D. Si illustrano solamente quelli che offrono qualche possibilità di identificazione.
1) Porzione di ansa a sezione trapezoidale appartenente ad olpe. Argilla rosa, depurata, quasi tenera (Fig. 2, n. 1).
2) Orlo estroflesso e arrotondato di olpe. Argilla rossa, depurata, tenera (Fig. 2, n. 2).
3) Orlo a mandorla in rozza terracotta, di tonalità rosso bruno, imitante la forma Lamb. 10A della terra sigillata chiara (Fig. 2, n. 3).
4) Porzione di ansa appiattita, impostata all'orlo, con avvio di parete. Impasto duro con minuti inclusi bianchi, superficie ruvida di tonalità rosso arancio. L'impasto è simile a quello delle olle in rozza terracotta presenti nei livelli riferibili alle ville tardo imperiali; la forma, invece, specialmente per quanto riguarda l'impostazione dell'ansa, è confrontabile a quella della pignatta medievale (Fig. 2, n. 4).
CERAMICA ALTOMEDIEVALE
L'apporto che l'archeologia ha dato alla conoscenza della produzione ceramistica dell'altomedioevo è ancora scarso. In particolare per ciò che concerne la campagna romana, non vi sono pubblicazioni di scavi sistematici in stanziamenti databili dall'VIII al IX/X sec. d.C. (62). Unici punti di riferimento seno le ceramiche provenienti dalle necropoli cosiddette barbariche dell'Italia Centrale (63) e i fittili impiegati nell'edilizia laziale (64).
Considerando che la frammentarietà dei reperti non permette comparazioni sicure attraverso le normali fonti bibliografiche, i confronti sono esclusivamente avvenuti, quando è stato possibile, con i materiali esposti nei musei di Roma, Tarquinia, Allumiere e Orvieto.
Ceramiche prive di rivestimento
Se si escludono i 7 elementi di brocca a « vetrina pesante ed uno coperto di colorazione rossa, il complesso dei frammenti attribuibili a questo periodo è privo di qualsiasi copertura anche terrosa. Le forme individuate sono anfore e brocche. Completamente assenti le forme aperte. Sono distinguibili due tipi di impasto: a) rozzo rossastro: b) depurato, dal beige al rosa chiaro.
1) Frammento di ansa a nastro di grosso contenitore, impostato alla altezza dell'orlo, impasto rosso mattone, duro, con minutissimi inclusi bianchi; in frattura presenta anima grigia molto scura (Settore B) (Fig. 3, n. 1).
2) Frammento di parete di probabile anfora, con le stesse caratteristiche tecniche del frammento n. 1 (Settore D) (Fig. 3, n. 2).
3) Frammento di ansa a nastro appartenente ad anfora (cfr. Mazzucato, 1977, fig. 69), impasto rossiccio, duro, mediamente depurato (Settore B) (Fig. 3, n. 3).
4) Frammento di parete di anfora con traccia dell'attacco d'ansa; impasto analogo al Fr. 3 (Settore B) (Fig. 3, n. 4).
5) Frammento di parete d'anfora con corpo ovoidale (cfr. Mazzucato, 1977, .Fig. 67). Impasto duro, depurato, beige rosato (Settore C) (Fig. 3, n. 5).
6) Porzione d'ansa superiore, con due leggere scanalature, pertinente a grosso contenitore in uso fino all'XI sec. Impasto rosa pallido, ben depurato, duro (Settore B) (Fig. 3, n. 6).
7) Orlo arrotondato di brocca in terra giallo rosata, quasi dura, con minutissimi inclusi scuri. Si nota l'avvio dell'ansa sotto la svasatura del labbro (cfr. Mazzucato, 1977, Fig. 4) (Settore C) (Fig. 3, n. 7).
8) Orlo espanso e arrotondato di olla o brocca. Impasto duro e depurato, di tonalità rosa chiaro. (Settore B) (Fig. 3, n. 8).
9) Orlo espanso e appiattito di piccola olla o brocca; impasto rosato semiduro, ben depurato (Settore D) (Fig. 3, n. 9).
10) Fondino umbonato di brocchetta su piede a disco appena rilevato; impasto rosato, semiduro, depurato., (Settore D) (Fig. 3, n. 10).
11) Frammento di fondo apodo di brocca con avvio di parete ricurva; impasto beige rosato, depurato, piccoli inclusi scuri su tutta la superficie (Settore D) (Fig. 3, n. 11).
12) Due frammenti di anse appartenenti a brocchette: la prima con impasto duro, rosa chiaro, con sezione a fagiolo; la seconda con impasto beige, tenero, con sezione a nastro leggermente insellato (Settore B) (Fig. 3, nn. 12 e 12/bis).
13) Un frammento particolarmente interessante proveniente dal settore C. E' stato recuperato a poca distanza dalla cortina muraria dell'abside sx della chiesa, in un punto dove il terreno scosceso reca tracce evidenti di smottamenti avvenuti in epoche non troppo recenti. Si tratta di un fondo con avvio di parete appartenente a contenitore di medie dimensioni (forse brocca), apodo con fondo piano. La parete esterna, che presenta larghe scanalature orizzontali, poco profonde, è ricoperta da colorazione rosso slavato che investe anche una parte della base. La materia colorante sembra essere stata applicata con la tecnica del bagno a crudo. L'impasto è depurato, quasi duro, di tonalità beige chiaro, in qualche zona rosso per assorbimento di colorante in cottura (Settore C) (Fig. 4, n. 1).
Tale frammento dovrebbe rappresentare una imitazione di età altomedioevale delle ultime « sigillate ». Sarebbe interessante un confronto col materiale coevo di Luni dove H. Blake ha messo in luce una notevole quantità di ceramica ad ocra rossa (65).
Ceramica a vetrina pesante (Forum Ware)
Sono solamente 7 i frammenti da assegnare a questa classe. Benché i problemi circa l'origine e datazione delle prime invetriate medievali prodotte nel Lazio siano ancora aperti (66), appare comunque chiaro che tale tipologia non è andata oltre il mille.
1) Frammento di ceramica invetriata appartenente al corpo di un vaso chiuso. La vetrina è brillante, verde oliva con sfumature giallastre; l'impasto è duro, rosso chiaro, con inclusi rosso mattone e bianchi (Settore B) (Fig. 4, n. 2).
2) Frammento analogo al precedente per quanto riguarda la forma di appartenenza e il rivestimento. Qui l'impasto è più compatto e depurato, con piccoli vacuoli in frattura. Rosso all'interno e grigio dalla parte a contatto con la vetrina (Settore B) (Fig. 4, n. 3).
3) Parte superiore di beccuccio cilindrico, leggermente schiacciato e unito all'orlo del vaso. E' ricoperto di vetrina « matta » verde giallastra; impasto duro, di tonalità grigio scuro. E' simile a quelli che si riscontrano in alcuni esemplari recuperati nel Foro Romano (Mazzucato, 1979, Tav. 1, 4) (Settore C) (Fig. 4, n. 4).
Ceramica a macchie di vetrina (sparse glazed)
Nel Lazio ha oltrepassato il Mille, con persistenza almeno fino al XII secolo (D. Whitehouse 1967, pagg. 53-55 e O. Mazzucato 1976, pagg. 5-9), l'uso di decorare le brocche con vetrina pesante applicata a zone. I due frammenti di Piantangeli presentano impasto molto duro, compatto, chiaro, sottile, tecnicamente confrontabile con quello delle olle acquarie provenienti dal pavimento del Palazzo Diaconale di Santa Maria in Cosmedin (O. Mazzucato 1970, pagg. 352-8).
4) N. 2 frammenti di brocchetta a parete sottile, rivestiti esternamente di vetrina verde oliva applicata a macchie; impasto duro, depurato, di tonalità rosa molto chiaro. In un caso sono evidenti sulla parete esterna scanalature da tornio. Provengono dal settore A. (Fig. 4, nn. 5, 6).
CERAMICA MEDIEVALE
Al punto in cui si trova lo studio della cultura materiale del medioevo in Italia, i tipi di ceramica che possono essere datati con precisione sono pochi e riguardano soprattutto le invetriate al piombo e allo stagno entrate in uso nel XIII secolo. La produzione dei due secoli precedenti é ancora nebulosa, specialmente per quanto riguarda il materiale da cucina. Nel Lazio settentrionale, la ceramica rozza proveniente da scavi controllati è rappresentata da frammenti di difficile interpretazione.
Per la ceramica depurata, invece, almeno un punto è stato fissato: il rapporto tra forme chiuse e forme aperte é nettamente a favore delle prime fino dal XIII secolo, muta decisamente con l'avvento delle prime invetriate e smaltate tardo-medievali. Anche a Piantangeli é stata riscontrata un'analoga situazione: l'unica forma aperta, attribuibile a questo periodo, é costituita da rozzo materiale « testaceo »(67).
Ceramica depurata
Dei 750 frammenti in argilla depurata, privi di rivestimento, appartenenti ad anfore (olle acquarie) e brocche in uso dalla fine dell'XI al XIV secolo, 11 risultano decorati a pittura rossa (68).
1) Frammento di brocca decorato con una linea orizzontale ondulata incisa a crudo e con larga pennellata di ossido rosso. Il tipo d'impasto rosso, argilloso, duro, contenente piccolissimi inclusi calcarei e quarzosi e la coesistenza delle due tecniche decorative, potrebbero giustificare una datazione intorno al IX secolo. Da tener presente, però, che questo frammento proviene dalla terra di riempimento dell'abside sx che ha fornito un gruppo omogeneo di reperti dotato di probabile « terminus ante quem » al XII secolo (v. sopra pag. 1). Non è escluso tuttavia che possa appartenere al corredo di una delle sepolture preesistenti disturbate dall'ampliamento dell'edificio. Con i dati attualmente disponibili, questa rimane solamente una ipotesi plausibile (Settore Al) (Fig. 5, n. 1).
2) 3 frammenti appartenenti al fondo piatto di un boccale (o brocchetta) con ventre probabilmente ovoidale allungato, munito d'ansa a nastro, di cui si nota l'attacco inferiore. Sulla parete una pennellata di ossido rosso deborda fin sotto il fondo. Impasto rosato duro (Settore B) (Fig 5, n. 2).
3) Frammento di parete analogo al vaso di cui al n. 1, decorato con larga pennellata rossa (Settore B) (Fig. 5, n. 3).
4) 4 frammenti di contenitore di forma chiusa decorati a bande rosse più o meno larghe. Impasto rosato, duro. Tre provengono dal settore A e l'altro dal settore B (Fig. 5, n. 4).
5) Frammento di orlo espanso e arrotondato. All'esterno colature di ossido rosso, impasto duro, ben depurato. Proviene dal fondo del campanile (Settore A2), è quindi da mettersi in relazione con la fase romanica della chiesa (Fig. 5, n. 5).
6) Frammento di parete d'anfora con l'attacco superiore dell'ansa a nastro. Impasto duro, giallo-rosato. E' decorato con larga pennellata di colore rosso (Settore B) (Fig. 5, n. 6).
Anche gli altri 739 frammenti, di cui si illustrano alcuni elementi peculiari, rappresentano generalmente contenitori d'acqua. Non si sono riscontrate in questi, decorazioni plastiche né pittoriche, fatta eccezione per un solo reperto (Fig. 6, n. 1).
L'impasto dì varie tonalità, costantemente molto depurato, compatto, con risonanza metallica, denuncia una buona tecnica di tipo « industriale ».
1) Frammento di parte d'anfora decorata con una linea ondulata incisa a crudo. Impasto grigio chiaro. Proviene dal campanile (Settore A2) (Fig. 6, n. 1).
2) Anfora Alto-laziale per buona parte ricostruita da n. 23 frr. Corpo piriforme su base piana, collo cilindrico, orlo leggermente svasato e arrotondato. Due anse verticali a nastro contrapposte, impostate superiormente alla base del collo e inferiormente nel punto di massima espansione della parete. Larghe scanalature poco profonde su tutta la superficie esterna. Impasto di tonalità giallo rosato. Proviene dall'abside sx (Settore Al) dove, come già sottolineato, esiste una connessione tra reperti e strutture murarie, per cui è lecito supporre che fosse già in uso nella prima metà del XII secolo.
La forma trova analogia con le anfore recuperate dai pozzi di Tuscania (J.B. Ward Perkins et al. 1973, pag. 51, fig. 1, n. 4). (Settore Al) (Fig 7, n. 2).
3) Frammento di collo cilindrico e spalla relativo ad anfora piriforme, impasto di tonalità rosso chiaro. Sono evidenziate le scanalature lasciate dalla tornitura sulla parete (Settore A) (Fig. 6, n. 3).
4) 2 frammenti di orlo arrotondato con avvio di spalla di anfora piccola. Impasto di tonalità rosa chiaro. Uno reca un grumo di malta (Settore C e Al) (Fig. 6, nn. 4, 5).
5) 2 frammenti di versatoio a mandorla di brocca media e piccola. Impasto di tonalità rosa chiaro (Settore B) (Fig. 6, nn. 6, 7).
6) Frammento di orlo sagomato e parete pertinente a boccale piccolo o brocchetta. Impasto giallo rosato (Settore Al) (Fig. 6, n. 8).
7) Piccolo versatoio di brocca leggermente schiacciato. Impasto grigio chiaro (Settore B) (Fig. 6, n. 9).
8) 2 frammenti contigui di versatoio a cannello con bocca trilobata. Impasto analogo al fr. precedente (Settore Al) (Fig. 6, n.' 10).
9) Frammento di brocchetta con ansa a nastro leggermente insellata. L'ansa è impostata superiormente a livello dell'orlo e inferiormente subito sotto il punto di massima espansione del corpo. Impasto rosa chiaro (Settore A) (Fig. 6, n. 11).
10) 2 attacchi superiori di anse impostate a livello dell'orlo, appartenenti a brocche o boccali di differente dimensione.. Impasto rosato (Settori A e C) (Fig. 6, nn. 12, 13).
11) 2 porzioni d'ansa di grossi anforacei. Impasto rosa con anima grigia per difetto di cottura (Settori A e C) (Fig. 8, nn. 1, 2).
12) 2 parti della stessa anfora ricomposte da 7 frr. La forma è apoda con fondo piano e corpo ovoide. Impasto di tonalità rossa (Settore Al) (Fig. 8, n. 3).
13) Fondino umbonato di brocca con base piana molto spessa in confronto alla parete, di cui si nota l'avvio. Impasto beige chiaro (Settore B) (Fig. 8 n. 4).
14) Frammento di brocchetta su base a disco appena rilevato. Impasto rossastro con incrostazioni interne da fuoco. Base molto sottile in confronto alla parete. Fattura piuttosto rozza (Settore A) (Fig. 8, n. 5).
15) Frammento di ansa tubolare ricurva con spaccatura mediana intenzionale più larga verso il centro. Doveva essere impostata ad arco sopra la bocca di un secchio o brocca. Impasto chiaro molto duro. Confronti, ma solo per la particolare positura del manico, si possono istituire con un secchio proveniente dalla stanza C, fase II (taglio 4) del Palazzo Pretorio di Prato (G. Vannini 1978, pag. 122, c63) (69) e con una pentola dalle volte dugentesche, sottostanti al pavimento del refettorio di S. Francesco ad Assisi (H. Blake 1971, pag. 379, figg. 2, 5) (Setto-re C) (Fig. 8, n. 6).
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Ceramica grezza
E' il gruppo più consistente, rappresentato in prevalenza da forme chiuse. L'esame dei frammenti più significativi ha consentito l'individuazione di un modesto corredo da cucina costituito da pignatte, rari coperchietti e « testi ».
a) Pignatte (pentole):
Sono di varie dimensioni; corpo sferoide, fondo piano ed anse verticali con sezione a nastro sempre impostate a livello dell'orlo. Impasto refrattario rosso bruno. Il tipo é comune in tutto il Lazio (70) dove, senza apprezzabili variazioni, é rimasto in uso dall'XI al XIV secolo (Mazzucato 1976, 68).
1) 3 frammenti di bordo appartenenti a pignatte. Rappresentano le tre dimensioni riscontrate a Piantangeli. Orlo leggermente piegato in fuori e arrotondato. Generalmente mostrano tracce di esposizione al fuoco (Settori A, Al e D) (Fig. 9, nn. 1, 2, 3).
2) 2 frammenti d'attacco d'ansa a nastro su orlo di pignatta e uno alla parete. Tracce di esposizione al fuoco (Settori C, B, B) (Fig. 9, nn. 4, 5, 6).
3) 3 frammenti di fondo apodo di pignatta con avvio di parete. I primi 2 con tracce all'esterno di lunga esposizione al fuoco; il terzo anche all'interno (Settori A, B, D) (Fig. 9, nn. 7, 8, 9).
4) 3 frammenti di parete di pignatta con tracce interne lasciate dal tornio. I primi due recano incrostazioni da fuoco su tutta la superficie, il terzo, invece, solo all'esterno (Settori A, B, D) (Fig. 9, nn. 10, 11, 12).
5) 2 frammenti di coperchio ad orlo appiattito con tracce di tornitura e di fumo (Settore B) (Fig. 9, nn. 13, 14).
6) Presa a rocchetto appartenente a coperchio di pignatta. Impasto duro, rosso bruno, ben selezionato con rari piccoli inclusi bianchi (Cfr. Mazzucato 1976, 79 n. 1) (Settore B) (Fig. 9, n. 15).
7) 4 frammenti di pignattelle invetriate solo all'interno: due bordi piegati in fuori con orlo appiattito; un orlo con avvio d'ansa a nastro complanare e una porzione di pancia. L'impasto è costantemente rosso, privo di inclusi e le pareti molto sottili (Spessore cm. 0,3). Sono attribuibili alla prima metà del XIV secolo (Settori A, A, D, B) (Fig. 9, nn. 16, 17, 18, 19).
b) « Testi »
A Piantangeli sono stati trovati 206 frammenti di « testi » per la cottura di focacce, di dimensioni e spessori diversi. Sono caratterizzati dal fondo largo e piatto da cui sorge il bordo più o meno alto, in certi casi appena rilevato. Le forme sono grossolane e non lavorate al tornio; presentano costantemente tracce di lunga esposizione alla fiamma sulla parete esterna.
I « testi », frequenti in Liguria (71) e in Toscana (72), mancano nei ritrovamenti del Lazio (Mazzucato 1976, 64): L'esplorazione di 150 siti effettuata dalla British School at Rome nell'Ager Faliscus (73), alcuni dei quali saggiati con scavi stratigrafici, non ha fornito, per quanto ci risulta, che qualche esemplare di questo tipo (74). E' probabile che la presenza di « testi » in questa parte del Lazio sia legata alla coltura del castagno. Un dato toponomastico interessante si ha nelle vicinanze del sito esplorato, ove si riscontrano toponimi come « Pian Castagno », « Castagneto della Camera » e « Monte Castagno ».
In assenza di dati stratigrafici non é possibile suggerire un arco cronologico, seppure approssimativo, per questa forma ceramica: un frammento proviene dal settore A2 (fondo della torre campanaria), per cui vi sono buone ragioni per ritenere che in questa zona, i « testi » fossero già in uso all'inizio del XII secolo.
1) Frammento di testo a parete alta e leggermente curva, orlo arrotondato. Impasto duro, grossolano, di tonalità rosso-marrone. Irregolari tracce di tornio lento sulla parete (Settore B) (Fig. 10, n. 1).
2) Frammento di testo a parete alta ed orlo arrotondato. Impasto marrone con vistosi inclusi. Anche in questo caso sono evidenti irregolari tracce di tornitura (Settore B) (Fig. 10, n. 2).
3) 2 frammenti di « testo » a parete poco svasata ed orlo arrotondato. Impasto analogo ai precedenti: uno mostra lisciature a stecca sulla parete esterna (Settore C) (Fig. 10, nn. 3, 4).
4) Frammento di parete di « testo » ad orlo arrotondato. Impasto duro, rossastro, con inclusi bianchi e rossi (Settore A2) (Fig. 10, n. 5).
5) 3 frammenti di « testi » foggiati a mano (il n. 8 reca tracce di rifinitura « a ditata »). Impasto rosso bruno, duro, selezionato, con piccoli inclusi bianchi (Settori B, D, C) (Fig. 10, nn. 6, 7, 8).
6) 2 frammenti di « testi » piani a margini arrotondati e rialzati. Impasto analogo ai precedenti, foggiati a mano (Settore C, D) (Fig. 10, nn. 9, 10).
7) Frammento di fondo e parete di « testo ». Impasto rossastro, duro, selezionato, con minuti inclusi bianchi. Tracce molto irregolari di tornitura (Settore B) (Fig. 10, n. 11).
8) 4 frammenti di fondo (di cui uno con accenno di parete) appartenenti a « testi » foggiati a mano. Impasti duri, con tonalità dal rosso al rosso-bruno (Settori B, B, C, D) (Fig. 10, nn. 12, 13, 14, 15).
Ceramica invetriata
Tra le ceramiche invetriate sono pochi i frammenti che hanno offerto la possibilità di risalire alla forma originale, tuttavia é stato possibile individuare tre gruppi tipologici ben distinti:
a) Invetriata monocroma verde
Argilla marnosa chiara, gessosa al tatto. Cristallina sottile, applicata direttamente su tutta la superficie del biscotto dal quale é facilmente scrostabile (75).
1) 2 frammenti di fondo e avvio di parete pertinenti a forma chiusa, con piede piano leggermente distinto (Settori A e C) (Fig. 11, n. 1, 2).
2) Frammento di parte con l'attacco dell'ansa appartenente a forma non identificabile (Settore B) (Fig. 11, n. 3).
3) Frammento di bordo di boccaletto. L'orlo arrotondato e trilobato è sottolineato da lieve scanalatura all'esterno e all'interno (Settore A) (Fig. Il, n. 4).
h) Decorata a rumina e manganese su biscotto
Argilla rosata depurata, piuttosto tenera, cristallina giallastra, molto sottile, applicata su tutta la superficie. La decorazione é a bande verticali di ramina profilate in manganese. Il motivo é di derivazione islamica (Mazzucato 1976, 41-54) e cronologicamente assegnabile al XIII secolo.
1) Frammento di tazza carenata su basso piede e fondino piano leggermente espanso. Era sicuramente munita di due anse verticali, di cui si nota un attacco all'altezza della carenatura. Un confronto può essere istituito con il vasellame recuperato dai pozzi di Tuscania (D. Whitehouse 1972, 212, n. 9) (Settore B) (Fig. 12, n. 1).
2) Frammento di parete carenata pertinente alla forma di cui sopra (Settore B) (Fig. 12, n. 2).
3) 3 porzioni di anse appartenenti a boccali: due con sezione ellittica ed una a nastro. Tracce di decorazione a ramina e manganese (Settori B, D, A) (Fig. 12, nn. 3, 4; 5).
4) Frammento di parete di boccale con decorazione in bruno, campita in verde, sotto vetrina gialla. Boccali di questo tipo sono stati recuperati anche a Tuscania (Settore C) (Fig. 12, n. 6).
c) Decorata a ramina e manganese su ingobbio
Un singolo pezzo rappresenta questo tipo di rivestimento; tanto la forma quanto la tecnica decorativa sono comuni nel Lazio nord occidentale e a Orvieto (76).
1) Parte di tazza carenata, munita di anse verticali, caratterizzata dal piede tronco-conico. Impasto rosa, duro. Decorazione a bande verticali in ramina delimitate da fili in manganese, eseguita su ingobbio bianco sporco sotto vetrina trasparente molto brillante (Settore B) (Fig. 13, n. 1).
Maiolica arcaica
La gamma di ceramica con rivenimento stannifero è qui rappresentata da frammenti di piccole dimensioni. La decorazione, prevalentemente geometrica, in un solo caso zoomorfa, si avvale di due colori: bruno di manganese e verde ramina su fondo bianco grigiastro. Modesta la presenza di frammenti con ornamento policromo: bruno, verde e giallo.
1) 3 orli a fascia di boccale di tipo viterbese (Mazzucato 1974, 293 n. 1/2). Invetriatura interna di tonalità giallastra, impasto duro, grigio (fine XIV sec.) (Settori A, A, B) (Fig. 14, nn. 1, 2, 3).
2) Frammento di orlo a fascia di boccale con decorazione policroma: bruno, verde e giallo; tipo attribuito a fornace del Lazio nord occidentale (D. Whitehouse 1967). Invetriatura interna marrone chiaro; impasto duro, rosa pallido (XIV sec.) (Settore B) (Fig. 14, n. 4).
3) 2 frammenti di parete con decorazione policroma comprendente anche il giallo; impasto analogo al precedente (Settore B) (Fig. 14, nn. 5, 6).
4) Un frammento di orlo trilobato e 2 di parete appartenenti a boccali. Invetriatura interna marrone chiaro; impasto tenero, rosso (Settore C) (Fig. 14, nn. 7, 8, 9).
5) 2 frammenti, non contigui, appartenenti allo stesso boccale piccolo con corpo sferoide, decorato a rombi campiti in ramina, delimitati da linee in manganese (cfr. Mazzucato 1976, 57 fig. 61). Invetriatura interna giallastra; impasto duro, grigio (Settore A) (Fig. 14, nn. 10, 11).
6) Gruppo di 20 frammenti di forme chiuse (probabilmente boccali) con decorazione geometrica in ramina e manganese. All'interno la vetrina al piombo è di tonalità giallastra più o meno consistente; in un solo caso verde. Impasto duro, rosato. Lo smalto che riveste gli ultimi due frammenti è bolloso per surcottura: potrebbero essere considerati scarti di fornace (Settore A: 9 frr. - Settore B: 6 frr. - Settore C: 5 frr.). (Fig. 15 A - 15 B).
7) Gruppo di 7 frammenti di forme aperte (probabilmente tazze carenate) rivestiti di smalto stannifero anche all'esterno; decorazione e impasto analoghi al gruppo precedente (Settore A: 2 frr. - Settore B: 5 frr) (Fig. 16).
8) Gruppo di 4 frammenti, di cui 3 contigui, pertinenti a parete di boccale con decorazione zoomorfa (volatile) in ramina e manganese; impasto duro, rosato, con leggera vetrina interna giallastra. L'uccello di profilo è un tema ricorrente nella iconografia medievale: alcuni esemplari, con cui può essere istituito un confronto, sono datati alla prima metà del XIV secolo, provengono da Assisi (H. Blake 1971, 365), da Montalcino — Palazzo Comunale — (H. Blake 1980, 107 Tav. XII/e), da Tuscania (L. Ricci Portoghesi 1972, Tav. XXV/a). Solo per la decora¬zione vedi anche esemplare da Celleno (F. Picchetto 1980, 285 Tav. LXV/a) attribuito a Orvieto (Settore A) (Fig. 17, nn. 1, 2).
9) 3 frammenti di piede svasato di boccale. Invetriatura gialla sulla superficie interna ed esterna limitatamente alla parte non decorata. Impasto duro, rosato (Settore B) (Fig. 18, nn. 1, 2, 3).
10) Un frammento di piede a disco di boccale con avvio di parete. Smalto avorio con tracce di ramina all'esterno; vetrina marrone coprente sulla superficie interna. Impasto duro, rosato (Settore C) (Fig. 18, n. 4).
11) Un frammento di base di albarello ad impasto duro, chiaro. Si evidenziano due linee in manganese su smalto grigio; internamente vetrina giallo coprente (Settore B) (Fig. 19, n. 1).
12) 2 ansette appiattite appartenenti a forma aperta (probabilmente tazza carenata). Smalto grigio, impasto duro, rosato (Settore A) (Fig. 19, nn. 2, 3).
13) Porzione di ansa a nastro appartenente a forma chiusa; impasto chiaro semiduro. Decorazione costituita da linee orizzontali in manganese su smalto stannifero povero facilmente scrostabile (Settore B) (Fig. 19, n. 4).
14) 2 porzioni di ansa a sezione ellittica appartenenti a boccale decorate con linee in ramina e manganese, leggermente, inclinate. Smalto stannifero grigio, coprente; impasto duro, rosa chiaro (Settore A) (Fig. 19, nn. 5, 6).
CERAMICA RINASCIMENTALE E POST-RINASCIMENTALE
La ceramica post-medievale, estremamente rara, é stata recuperata tutta attorno alla chiesa, evidenziando frequentazioni occasionali del sito dal XV secolo in poi.
1) Porzione di ansa a nastro ingrossato. Maiolica arcaica tarda, decorata con banda orizzontale verde su smalto corposo. Impasto duro beige chiaro (Settore B) (Fig. 20, n. 1).
2) Un frammento di boccale recante traccia di decorazione a bande di tonalità giallo-arancio, delimitate da linee in manganese su smalto stannifero spesso, bianco coprente. Impasto duro, rosato. Proviene probabilmente da fabbrica viterbese dell'ultimo quarto del XV sec. (G. Mazza 1979) (Settore B) (Fig. 20, n. 2).
3) Un frammento di boccale dove si nota, in cobalto e ferraccia, il classico rosone a scaletta, destinato ad accogliere la decorazione principale. Smalto consistente, bianco latte, con difetti. Impasto duro, beige chiaro. Fabbrica laziale del XV sec. inoltrato (Settore A) (Fig. 20, n. 3).
4) Un frammento di ceramica graffita a punta su ingobbio chiaro, sotto vetrina giallastra. Appartiene a forma aperta: impasto semiduro rosso vivo. Trova riscontro in tipi prodotti nell'area toscana (medio Valdarno) (Settore B) (Fig. 20, n. 4).
5) Frammento di base a disco rilevato, con avvio di parete fortemente inclinata. Spessa invetriatura al piombo color arancio, applicata solamente sulla superficie interna. Impasto duro, rosso, discretamente depurato (Settore B) (Fig. 20, n. 6).
6) Un frammento di contenitore di forma aperta, con invetriatura arancio su tutta la superficie e tracce di decorazione ad ingobbio giallo. Impasto duro, rosso. Tipologia comune nell'Italia centrale dal XVI al XVII secolo (Settore B) (Fig. 20, n. 5).
FUSERUOLE
Ne sono state rinvenute 3. Sono confrontabili per dimensioni e tecnica di fabbricazione con quelle provenienti dai pozzi M4 ed M20 di Tuscania (Ward-Perkins et al. 1973, 152 nn. 23 e 25).
1) Fuseruola a ciambella; impasto duro, grigio chiaro depurato. Diam. cm. 2,1; h. cm. 1,1 (Settore A) (Fig. 21, n. 1).
2) Fuseruola biconica; impasto semiduro, rosato, depurato. Diam. cm. 2,1; h. cm. 1,4 (Settore B) (Fig. 21, n. 2).
3) Mezza fuseruola biconica; impasto duro, rosato con anima grigio-scura per difetto di cottura. Diam. cm. 2; h. cm. 1,3 (Settore B) (Fig. 21, n. 3).
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LATERIZI
Sono stati recuperati parecchi fittili da costruzione ma nessuno nelle condizioni tali da permettere la misura delle dimensioni. Si tratta di coppi, embrici piatti con orlo a squadra e mattoni. I coppi hanno impasto giallastro o rosato con vistosi vacuoli in frattura; spess. da cm. 1,5 a cm. 2.
a) Impasto rosato, depurato, con anima grigio-scura per difetto di cottura, orlo a squadra arrotondato, alto da cm. 2 a cm. 3; spess. cm. 2. Un esemplare è solcato al centro da una scanalatura digitale curvilinea, impressa a crudo.
b) Impasto rosato con inclusi rossi, orlo piatto, talvolta con scanalatura mediana, alto da cm. 2,5 a cm. 3; spess. da cm. 2 a cm. 2,5.
c) Impasto giallastro depurato con vacuoli poliedrici in frattura. la superficie presenta evidenti tracce di paglia tagliuzzata usata come legante (77), orlo a groppa d'asino alto cm. 2; spess. cm. 2,5.
I mattoni hanno impasto rosso, duro con piccoli vacuoli in frattura: sono del tipo usato nel tardo impero. Un frammento reca l'impronta della zampa di cane; spess. da cm. 2,5 a cm. 4. Alcuni mattoni simili figurano inseriti nell'apparecchiatura muraria della chiesa ed uno alla base del campanile.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
I frammenti campionati, spesso appena sufficienti per definire le forme, rappresentano una scelta fra i tipi più significativi del materie fittile recuperato. Malgrado le incertezze insite in questo tipo di prospezione, ci sembra opportuno azzardare alcune ipotesi generali. A Piantangeli, nonostante la presenza di :qualche reperto più antico (78), non è emerso un successivo contesto romano; la ceramica più arcaica suggerisce una presenza umana dalla fine dell'VIII o inizio del IX secolo in entrambi i punti esplorati: colle principale fortificato e terrazzamenti abitativi. Il gruppo più consistente di ceramica è cronologicamente compreso tra il XII e il XIV secolo e permette di cogliere il periodo di maggior sviluppo dell'insediamento in coincidenza con la fase di ampliamento della chiesa. L'abbandono sembra essersi verificato in due momenti diversi i cui margini cronologici sono definiti dall'introduzione della maiolica arcaica. La zona dove sorgeva l'abitato non ha restituito, infatti, ceramica con rivestimento stannifero e benché esistano prove che la prima maiolica era prodotta nell'Italia centrale intorno alla metà del 1200, è dimostrato sulla base dell'evidenza archeologica che essa non entrò nell'uso comune fino al 1300. E' ragionevole supporre quindi che il villaggio era già deserto intorno al 1350 o forse anche prima. La frequentazione del colle principale che include la chiesa, sembra essersi invece protratta fino agli ultimi anni del XIV secolo, dimostrata dalla presenza di 128 frammenti di maiolica arcaica. Nessun coccio con decorazione del primo rinascimento o che, comunque, imiti lo « stile severo », é stato trovato: l'assenza da Piantangeli di questa tipologia, che sicuramente era penetrata nella zona, come dimostrano i ritrovamenti del vicino insediamento di Tulfanova (79), suggerisce che agli albori del 1400 l'intero complesso era completamente abbandonato.
I pochi frammenti di ceramica rinascimentale e post-rinascimentale (6 in tutto) sono chiaramente le tracce di modeste e sporadiche frequentazioni successive.
Per quanto riguarda il contributo di « Piantangeli » alla storia della ceramica medievale dell'alto Lazio, sebbene le tipologie individuate non presentino novità rispetto a quelle già note diffuse in tutta la regione, un dato interessante è fornito dal rinvenimento di numerosi frammenti di materiale testaceo che, grazie alla loro presenza, permettono di includere l'alto Lazio occidentale (80) nell'area geografica di distribuzione del « testo », confermando anche il legame tra questo manufatto e la coltura del castagno.
Enrico Pieri
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21. — Piantangeli: Fuseruole.
Le monete recuperate a Piantangeli (Tav. I) provengono dalle seguenti aree:
1) — Zecca di Verona sec. XII/XIII.
2) Zecca di Montefiascone sec. XIV.
3) — Zecca di Avignone sec. XIV.
La prima è stata rinvenuta a contatto del piano dove era impostato il pavimento della chiesa, le altre invece sono state recuperate dal setacciamento della terra rimossa da scavatori abusivi.
1) FEDERICO II (1198-1250) VERONA
Denaro piccolo scodellato
mistura chiara, P. 0,40 gr. diam. 13 m/m.
D — (croce che interseca la poco chiara leggenda): — VE RO NA (croce che interseca la leggenda). CNI P. 264 N. 4 TAV. XXIV, 4.
La giacitura di questo esemplare, che non presenta eccessive tracce di usura, sembra indicare che la fase romanica della chiesa è da attribuire alla fine del XII inizio XIII secolo.
2) GIOVANNI XXII PAPA (1316-1134) MONTEFIASCONE
Denaro paparino
mistura, P. 0,69 gr. diam. 15 m/m
D — + IOS ° PAPA ° XXII (chiavi affiancate);
R — ° P..°... : ... (croce patente):
3) URBANO V PAPA (1362-1370) AVIGNONE
Duplo (doppio denaro);
mistura, P. 0,97 gr. diam. 19 m/m.
D — URB' : PP : SR...° (mitria);
R SANT' PET ° E PAUL (croce patente nel II e III). MUNTONI Vol. I p. 30 n. 8 (variante per la leggenda al dritto).
Sebbene le due monete pontificie, che sono le più recenti rinvenute a Piantangeli (81), presentino evidenti segni d'uso, la loro scarsa consistenza strutturale sta ad indicare un periodo di circolazione non troppo prolungato. E' quindi ragionevole ipotizzare che l'abbandono dell'insediamento sia avvenuto non oltre la fine del XIV secolo.

Filippo D'Aloia


Note
(1) Per una completa trattazione delle vicende di Farfa, vedi I. SCHUSTER, L'imperiale abbazia di Farfa, Roma I921.
(2) I. GIORGI - U. BALZANI (a cura di) Il Regesto di Farfa di Gregorio di Catino, [Reg. Farf.], (Biblioteca della Società Romana di Storia Patria) 5 voll., Roma. vol. I 1914, voll. II-V 1879-I892; doc. 92 II, pag. 85.
(3) Reg. Fari. doc. 273, II. pag. 225.
(4) Reg. Fari. doc. 224, II, pag 183.
(5) Reg. Fari. doc. I85. II, pag. 152..
(6) Reg. Farf. doc. 300, III, pag. 5..
(7) C, A. MASTRELLI, La Toponomastica Lombarda di Origine Longobarda, in: AA.VV., « I Longobardi e la Lombardia », Milano 1978, pag. 35-ss.
(8) Ringrazio per la notizia l'amico Frau, responsabile del gruppo Studi e Ricerche Marittime del Gruppo Archeologico Romano.
(9) F. TRON, I Monti della Tolfa nel Medio Evo, Roma 1982.
(10) G. ZUCCHETTI (a cura di), Liber Largitorius vel Notarius Monasterii Pharphensis II voll., (Regesta Chartarum Italiae nn. 11, 17), Roma 19I3, 1932; doc. n. 60, I, pagg. 6I-62 e doc. n 77, I, pag. 71.
(11) Reg. Farf. 439, III, pag. 152.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem.
(14) Reg. Farf. doc. 404 III, pag. 108.
(15) Reg. Farf. doc. 407 III, pag. 116.
(16) Reg. Farf. doc. 437 III, pag. 149.
(17) Reg. Farf. doc. 421 11I, pag. 132.
(18) M. POLIDORI, Croniche di Corneto, (a cura di M. Moschetti), Tarquinia I977.
(19) C. CALISSE, Documenti del monastero di San Salvatore sul Monte Amiata riguardanti il territorio romano (secoli VIII-XII), in: « Archivio della Società Romana di Storia Patria» XIV (1893), pagg. 289-sgg.; XVII (1894), pagg. 95-ss.
(20) J.v. PFLUGK-HARTTUNG (a cura di) Acta Pontificum Romanorum Inedita, Stuttgart 1884; vol. Il n. 93, pag 57.
21) Ci manca il documento di donazione di San Pellegrino; ma Io possiamo ricostruire da un atto del 10I7 in cui l'abate Ugo se ne fa riconoscere la proprietà da Painerio, marchese di Toscana; Reg. Farf. doc. 505, III pag. 215.
22) Reg. Farf. docc. I236-I237, V pagg. 221-222.
23) Reg. Farf, doc. 990, IV pag. 370.
24) Reg. Farf. doc. 991, IV pag. 371.
25) Reg. Farf. doc. I096, V pag. 91.
26) Reg. Farf. doc. 1006, V, pag. 9.
27) Reg. Farf. dott. 1076, 1077, 1078, V pagg. 71-74.
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28) Reg. Farf. doc. I318, V. pag. 30.
29) C. CALISSE, Storia di Civitavecchia, Firenze 1898: pagg. 124-I40.
30) J. GUIRAUD, La badia di Farfa alla fine del secolo XII, in :«Arch. Soc. Rom. Storia Patria», XV (I892), pagg. 275-289.
31) Reg. Farf. Appendice al vol. V, pag. 330.
32) L. SIGNORELLI, Viterbo nella ,storia della Chiesa, vol. I, Viterbo I907, pag. 386.
33) P. SUPINO (a cura di), La Margarita Cornetana, Regesto dei documenti, Roma I969; doc. 570, pag. 421.
34) Istituto Geografico Militare; tavoletta al 1:25000, foglio 142, I S-E.
35) P. EGIDI, Un documento cornetano del secolo X, in «Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medioevo», XXXIV (I9I4), pagg. I-6.
36) G. SILVESTRELLI, Città, castelli e terre della Regione Romana, 2 voll., (II ediz.), Roma I970; II pag. 733.
37) I. CAMPANARI, Tuscania e i suoi monumenti con i siti, Montefiascone 1856, 2 voll., I pag. 121.
38) SUPINO, Marg. Corn... cit., doc. n. 2 pag. 253.
39) Ibidem, docc. 4, 5, pag. 54.
40) INNOCENZO IV, Il Regesto, (a cura dell'Ecole Francaise de Rome), Paris 1884; doc. 1347.
41) SUPINO, Marg. Corn... cit., doc. 12, pag. 61.
42) ibidem, doc. I3, pag. 62; 29I, pag. 255; 316, pag. 328, ecc.
43) BATTELLI G., (a cura di) Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV: Latium, Città del Vaticano I946 (Studi e Testi 128); nn. 2847, 2853.
44) Ibidem, nn. 3041, 3061.
45) SILVESTRELLI, Città, cast... cit., Il pag. 855.
46) SIGNORELLI, Viterbo... cit., pag. 376-segg.
47) ANZILLOTTI, Cenni sulle finanze del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia nel secolo XV, in «Arch. Soc. Rom. Storia ,Patria» XLII (I9I9); pag. 349-segg.
48) Per una ricostruzione della leggenda di S. Agostino, vedi il capitolo che gli dedica O. MORRA, in Tolfa, Civitavecchia 1979.
49) F. M. MIGNANTI, Santuari della regione di Tolfa, Roma I936.
50) INNOCENZO IV, Regestum... cit., docc. 355, pag. 57 e 579, pag. I00
51) O. MORRA, Dove l'angelo parlò a S. Agostino, il santuario alle foci del
Mignone, in «Roma», anno XVIII (1940), n. 4, pagg. II0-II2.
52) BATTELLI, Rationes... cit., n. 2839.
53) «Analecta Agustiniana», vol. II, pagg. 226-229.
(54) F° 143 IV S.O. dell'I.G.M.
(55) Vedi relazione E. Pieri in questo stesso volume.
(56) F. D'Aloia. Relazione in questo stesso volume.
(57) Nome attuale derivato dalla corruzione del toponimo S. Angelo o S. Arcangelo. Situato su uno sperone trachitico alto 511 metri s.l.m., domina da occidente la valle del Mignone e dista 7 km. da Tolfa (prov. di Roma). Vedi notizie storiche (F. Tron) in questo stesso volume.6
(58) V. per esempio: (P. Beck, B. Maccari, J. M. Poisson, 1975: 328-358); (T. W. Potter, 1975: 215-235); (L. e T. Mannoni, 1975: 121-136); (M. Milanese, 1977: 314-325); (S. Gelichi, 1977: 306-313); (E. Pieri, 1978: 1-18).
(59) V. più avanti Fig. 1.
(60) Unita a questa per una « sella ».
(61) I nostri ringraziamenti vanno al prof. Otto Mazzucato per avere cortesemente esaminato un cospicuo numero di frammenti ceramici e per i suggerimenti che sono stati utilizzati nel testo. Ringraziamo anche l'arch. Diego Maestri per averci permesso confronti con materiale inedito.
(62) Lo scavo di S. Cornelia eseguito dalla B.S. at. R. nel 1962 non è stato ancora pubblicato.
(63) I. Baldassarre (1967) e O. Von Hessen (1968).
(64) O. Mazzucato, 1970: 339-361.
(65) Notizia rilevata da: T. Mannoni (1975).
(66) Sulla « Forum Ware » v. principalmente: O. Mazzucato, 1972; Idem 1968 147-155; D. Whitehouse, 1965: 53-63; Idem 1967: 48-53.
(67) Per lo stesso ambito cronologico, una tale associazione di mate¬riali e rapporto di forme, trova confronti in ambiente toscano: (R. Fran¬covich et al. 1978: 261); (R. Francovich, G. Vannini 1976: 53-138).
(68) Per questa tipologia v. D. Whitehouse 1969: 137-142.
(69) In R. Francovich et al. 1978, con riferimento iconografico alla nota 12, pag. 122.
(70) Oltre che a Roma, forme simili sono state reperite a Tarquinia, Tuscania, Porciano, Bolsena, Civita Castellana, Civitavecchia, torre Busson, Artena, Vico Caprino, Castellottieri, Tolfaccia e Casale Laurentino (vedi bibliografia).
(71) v. T. Mannoni 1965. 49-64 n. 1/2.
(72) e G. Vannini 1974: 92 e segg.
(73) Topograficamente corrisponde al bacino idrico della Treia.
(74) Intervento di D. Whitehouse a seguito della relazione di O. Mazzucato (La ceramica medievale da fuoco nel Lazio) IX Congresso di Albissola 1976.
(75) Ringraziamo il prof. O. Mazzucato per aver attratto la nostra attenzione su questa pezzo.
(76) Per quanto riguarda l'impiego di paglia usata come legante dell'argilla, un esempio recente ci viene da Civitella Benazzone (Perugia), T.F.C. Blagg 1975: 359-366.
(77) 6 frammenti di bucchero fine e un fondino di impasto recuperati sulle sommità della collina principale, attribuibili al VI sec. a.C., dimostrano una frequentazione del sito in periodo etrusco.
(78) Tipo trattato da D. Whitehouse (1967) in « Lazio », datato dall'A al sec.XII
(79) Attualmente « Tolfaccia ». Vedi Notiziario del Museo Civico di Allumiere 1972: 31-36.
(80) V. anche recenti trovamenti a Castro (S. Coccia 1980: 120-126, tav. VII, nn. 9 e 10).
(81) Alle suddette vanno aggiunte altre due monete dello stesso periodo. attualmente esposte nel museo di Tolfa, rinvenute occasionalmente.

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