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La Tuscia Romana e la Tolfa Ponzi
 

quelle assise, che subirono cambiamenti metamorfici, per azione del fuoco e dell'acqua, e perciò fatte diverse da quelle di origine.

I. Roccie nettuniane o stratificate.


A) che subirono maggiori spostamenti.
Nella Tuscia romana le roccie che dopo la loro sedimentazione marina sperimentarono i più gravi disordini sono le seguenti:
1. Calcarie argillose, compatte, a frattura concoide o scagliosa, in letti da 40-60 centimetri di potenza, biancastri o attraversati da linee e macchie ferruginose di vari colori da risultarne marmi teneri del genere delle paesine.
2. Calcarie similmente argillose, a frattura scagliosa, incerta ovvero concoide a strati sottili corrispondenti all'alberese dei Toscani, di color bigio palombino, qualche volta arrossati dal manganese, ovvero neri dal carbonio. Costituiscono le roccie più numerose e dominanti della Tolfa. Negli strati palombini rinvenni impressioni di grosse Nemertiliti, e da un pozzo aperto sotto il Monte Castagno nel bacino tolfetano sulla sponda del fosso Cupo, vennero estratte numerose reliquie di varie specie di pesci cicloidi insieme ad una quantità di piante carbonizzate, terrestri e marine: Muse, Dracene, varie Leguminose. miste ad una quantità di fucoidi, di cui conservo i saggi nel gabinetto della R. Università di Roma.
3. Schisti argillosi, più o meno bigi analoghi ai galestri, sostenuti dalle suddette calcari che presto passano ad un'alternanza di arenarie o macigni , dando principio ad una lunga serie di letti, che scendono sulla esterna pendenza dei monti tolfetani, come si vede lungo la strada da Civitavecchia alle Allumiere. Anche questi letti schistosi e arenosi sono privi di fossili, per quante ricerche siano state fatte.
Le enumerate roccie, sebbene non abbiano ancora somministrati avanzi organici rigorosamente caratteristici, nondimeno per analogia con quelle di altre contrade prossime, non dubiterei considerarle quali rappresentanti l'epoca eocenica. Di esse si compongono i monti maggiori, e sporgenti sulle pianure subapennine, quali sono quelli del gruppo tolfetano, i colli tarquiniensi e tutte quelle altre prominenze sparse nella estensione dell'area etrusca, come le prominenze di Monte Romano, di Barbarano, s. Gio. di Bieda ecc.
B) Roccie meno sollevate delle precedenti e semplicemente attraversate da fratture.
4. Marne subapennine inferiori di color bigio-turchino, compatte, depositate in potenti banchi sulle radici dei monti trachitici, e rialzate al disopra del loro ordinario livello.
Sebbene non si conoscano fin qui i loro fossili nella Tuscia romana, nondimeno per la loro giacitura ci sembrano doversi riportare alle marne vaticane ossia al terreno Tortoniano, ovvero al miocene superiore. Ove questi banchi non furono alterati dal metamorfismo mostrano i loro caratteri di origine, come alle falde del Monte Virginio, dalle quali sono estratte per fabbricar laterizi.
5. Calcarie grossolane, che presso di noi sono denominate Macco, o compatte e lapidee, ovvero poco coerenti e farinose: bianche, o giallastre e ferruginose in istrati potenti, alcuno dei quali pieno zeppo di Amfistegine. Contengono altresì una ricca fauna pliocenica composta di fossili che si distinguono per la loro gigantesca statura, come il Pecten latissimus Broc. il Balanus tintinnabulum Lin. grossissime ostriche e molte foraminifere, riferibili alle assise zancleane, o al terreno Messiniano del Seguenza, vale a dire al pliocene inferiore.
Queste calcarie che mancano nella scala stratigrafica del Monte Mario, si mo strano invece lungo il lido del mare Tirreno sotto forma di leggere prominenze, emergenti per innalzamento, da cui risulta il Capo d'Anzio, i paraggi di Palo e Civitavecchia e specialmente la collina di Corneto, ove si vedono succedere alle marne precedenti cangiate in gesso.
6. Marne turchine superiori alle calcarie del Macco, alternate con letti di sabbione giallastro, a giacitura orizzontale, attraversate da fenditure e salti indicanti più leggeri spostamenti. Sono ricche in fossili identici a quelli della Farnesina presso Roma, e perciò le riteniamo come un pliocene medio.
Poca quantità di queste marne si rinviene nel fondo del bacino di Tolfa; ma in maggior potenza si distendono sulle prominenze Cornetane sovraincombenti al Macco. Parete vi osservò i fossili al ponte del Mignone sulla via di Civitavecchia, ed io ebbi il vantaggio di esaminarne la fauna sulla strada da Corneto alle Allumiere. Le marne, che si estraggono per far mattoni nella strada che da Civitavecchia sale alle Allumiere, appartengono a questo piano.Torna su
7. Sabbie gialle di Brocchi, tanto cognite come rappresentanti il pliocene superiore, succedono nella serie ascendente. Fin qui poche ricerche sono state fatte dei loro fossili nella Tuscia romana, però non si erra nel giudicarle analoghe a quelle del Monte Mario, o riferibili al piano Astiano.
Lungo il littorale si distendono in una larga zona per eguagliare la scabrosità delle roccie sollevate sulle quali furono depositate, come si vede al Capo Linaro. Sulla strada da Civitavecchia alla Tolfa si salgono delle terrazze o gradini, indicanti il ritiro delle acque nella lenta e intermittente emersione di questa zona, quali sono quella dei Cappuccini e quella delle terme Taurine.
8. Ghiaje e breccie risultanti dal detrito delle roccie dei monti maggiori, logorate dall'attrito del trasporto marino. Meglio apparenti in prossimità dei monti da cui ebbero origine, sono sempre superiori alle sabbie gialle. In queste breccie non s'incontrano mai ciottoli vulcanici, perchè anteriori alla loro comparsa, come ancora in generale non contengono fossili.
Rappresentano il diluvio apennino, analogo all'alpino dei geologi lombardi, accennano cioè che il periodo terziario è finito, ed ha avuto principio il quaternario coll'epoca diluviale. Qualche raro fossile raccolto in queste breccie appartiene a resti di elefanti o piante terrestri. Nella Tuscia romana, questi strati sono in genere molto leggeri e sovente mancano.
9. Tufi vulcanici o conglomerati più o meno compatti e lapidei di scorie, lapilli e ceneri eruttati dai tre vulcani sottomarini Vulsinio, Cimino e Sabatino, e impastati dalle onde tempestose allorché si spandevano su tutto il fondo marino. Si presentano in potenti banchi, che sormontando le precedenti breccie danno termine alla scala delle assise nettuniane.
I fossili dei tufi vulcanici si riducono a impressioni di foglie o tronchi di piante terrestri e qualche reliquia di elefanti. Questi invero non sono indizi sicuri del tempo a cui riferire i tufi vulcanici, però dal posto che occupano nella scala stratigrafica facilmente si argomenta che le assise vulcaniche spettano all'epoca glaciale, occupando il posto delle morene, e dei massi erratici di Lombardia e del Piemonte, che mancano in Italia ove arsero i vulcani. Essendo le ultime assise della scala nettuniana, è chiara l'emersione dopo la loro sedimentazione, e perciò formano tutto il soprasuolo etrusco, meno l'arcipelago tolfetano e la collina di Corneto.
C) Roccie orizzontali inalterate.
10 Sabbie rosse, ferruginose, di sedimento marino, distese in banchi lungo il lido, ad un livello superiore alle acque moderne: perciò furono dette da Risso delle spiaggie emerse. I fossili contenuti, quasi tutti identici a quelli che ora vivono nel mare Tirreno, e la giacitura di queste sabbie, accennano all'epoca alluvionale succeduta alla glaciale, colla quale termina il periodo quaternario.
11. Sabbie, breccie di trasporto fluviale, risultanti dagli stessi elementi delle diluviali marine, a cui si aggiungono i vulcanici, perchè di formazione posteriore alla comparsa dei crateri eruttivi. Anche queste sono alluvionali, coeve cioè alle precedenti marine, perchè trasportate dalle grandi correnti che caratterizzano quell'epoca, e perciò sono contenute nei grandi alvei dei fiumi. I fossili di queste breccie sono numerosi e contengono due faune distinte: una terziaria pliocenica di secondo trasporto, composta di ossa frantumate, logorate e disperse di grossi pachidermi, molti dei quali perduti; la seconda di animali contemporanei di fisionomia moderna, intatte o ben conservate per la mancanza dell'attrito di trasporto. La grande vallata nella quale serpeggia il moderno Tevere, quelle dei suoi principali affluenti, e di tutti gli altri fiumi ne danno prove evidenti.
12. Travertini e tartari prodotti da sorgenti calcarifere parimenti alluvionali, compatti e litoidi, sovente ferruginosi. Formano depositi enormi da usarne in vaste proporzioni nell'edilizia, e fra questi si notano i travertini di Civitavecchia a tinte variegate, impiegati anche come marmi decorativi col nome di alabastri. Nel bacino di Tolfa un'altra specie di questi viene adoperata e conosciuta col nome di alabastro del Bagnarello. I fossili di queste roccie sono numerosissimi, spettanti ad animali e piante di acqua dolce e terrestri la maggior parte dei quali vivono tuttora sui luoghi. Vasti depositi di travertino si trovano a Piano, e ad Orte sulla sponda etrusca del Tevere, quelli di Civita Castellana come quelli già citati in Civitavecchia ai bagni di Trajano, e della Tolfa, o di altre località sono compresi nel territorio etrusco.
13. Depositi moderni, ultimi nella serie dei terreni di sedimento, tanto marini che delle acque dolci, si trovano in quantità più ristretta, sotto forma di tartari, attorno le sorgenti, ovvero costituiti da sabbie e ghiaje sono trasportati dai fiumi, e dati in balia delle onde marine per essere gettati sulle spiaggie sottili. Contengono vestigia di animali e piante che vivono ancora nel paese, associate ad opere manufatte dall'uomo, caratteristiche di una formazione assolutamente moderna.
II. Roccie ignee o eruttive.
14. Trachite, in masse non stratificate, costituita da sostanza feldspatica, ruvida al tatto, bigia, in cui sono sparsi cristalli di riacolite, quarzo ed altri minerali avventizi che gli danno aspetto granitico o porfiroide. La forma esterna che assume questa roccia è quella propria delle materie dense e vischiose, cioè di mammelloni, o cupole rilevate e isolate, ovvero trascorsa per il proprio peso sulla superficie del suolo. Le trachiti sono molto variabili non solo negli elementi costitutivi, ma altresì nel colore, trovandosene spesso di quelle che dal bigio passano al verde, al rosso, al giallo, al bruno e perfino al nero a causa del ferro contenuto. La Tuscia romana comprende un sistema ordinato di sbocchi eruttivi di questa roccia, diffusi ad occupare un'area ben vasta o un distretto trachitico, in ciascuno dei quali la trachite si presenta sotto aspetti diversi. Sui monti di Allumiere, nella contrada del Lume-morto, trovasi una trachite bigia con grossi cristalli di riacolite vetrosa, e condita di minutissimi cristallini brillanti di quarzo che si cava come pietra refrattaria. Alle cave vecchie gli elementi sono così esili da comparire omogenea, e qualche volta il quarzo si raccoglie in grandi masse cristalline bianche, altre volte adoperato per uso di vetrerie come quello delle Trincere o della cava Ballotta. Al Monte Rovello sotto le Allumiere si trovano geodi rivestite di agate fasciate di bianco e ceruleo, ovvero sotto forma di calcedonie. I così detti diamanti della Tolfa sono cristalli isolati di quarzo, talvolta limpidissimi, seminati specialmente in certi luoghi dell'area trachitica, come sui Poggi della Stella o alle Spiaggie. Prende anche l'aspetto di retinite gialla o nera sulle prominenze della Chiesaccia, o le coste del Marano. Brocchi trovò la trachite passata in ossidiana al Pian del Gallo, con qualche indizio di scorificazione; sulla strada di Mola farnesiana un'ossidiana nera sparsa di bianchi cristalli simile ad una variolite fu rinvenuta in prossimità dell'Elce-mercato.
Altre varietà vengono offerte dai mammelloni propagati a distanze. Al Sasso si vede una trachite omogenea e verdastra: al Monte Virginio la pietra detta di Manziana, che si estrae come refrattaria, è una trachite biancastra ruvida con cristalli vetrosi di riacolite ha un aspetto semi-decomposto. Al Cimino, Brocchi notò che nella parte inferiore della montagna i cristalli sono più minuti dei superiori, a causa della pressione della massa sovraincombente. Queste trachiti mammellonari sorsero nella prima e maggiore eruzione, per la quale si sollevarono le roccie stratificate eoceniche che costituiscono i monti più rilevati su tutta l'area etrusca.Torna su
15. Ferro, in grossi e ramificati filoni di eruzione, injettati nelle roccie di origine nettuniana, molto diffusi attorno, e in contatto colle masse trachitiche, alle quali sembrano attinenti. Sono di varia potenza, da dicchi di molti metri di spessore, alla sottigliezza capillare penetrata nelle più minute screpolature, da risultarne reti complicatissime. Questo ferro eruttivo si presenta sotto tre diverse specie, cioè la limonite, la magnetite e l'oligisto.
Il ferro limonitico o il sesquiossido di ferro idrato è il più diffuso di tutti nella Tuscia romana. Si presenta amorfo, compatto, talvolta scoriaceo, e di color variabile fra il rosso, il giallo, il bruno. Al Pian Ceraso se ne vedono due enormi dicchi, sui quali vennero aperte ampie escavazioni, dalle quali si diramano i grossi filoni che attraversano le Sbroccate, fino a quelli del Monte Crocifisso sui Poggi della Stella. Al Monte della Roccaccia, similmente altre cave misero a giorno un intralcio di grossi filoni, e al Campaccio sotto le Allumiere, ne dovrebbero ricorrere anche potenti penetrazioni, a giudicare dalle antiche lavorazioni ivi praticate. Necessario poi si rende notare che questo minerale non è libero dallo zolfo e dal fosforo, che lo ridussero in solfuro e in fosfato. Conciossiaché si vede serpeggiare la pirite entro la massa limonitica, o sulla sua superficie, e in varie escavazioni dei minatori, si sono appalesate materie tinte di turchino dovute al bleu di Prussia naturale, o alla vivianite. Nel ferro di Pian Ceraso si contengono minutissime raccolte di cristalli verdastri di ferro fosfato. Ma questi elementi, che guastano la limonite, e fanno ostacolo alla fabricazione della ghisa nel forno fusorio sotto Cibona, non sono costanti perché qualche volta scompariscono, e specialmente nelle escavazioni profonde. Queste osservazioni porterebbero a credere che il fosforo e lo zolfo siano sostanze acquisite dopo la eruzione del ferro, ovvero un metamorfismo di questo. Le calcarie contenenti i filoni di ferro ne sono imbevute, e perciò sempre brune ed ocracee. A tali penetrazioni devonsi attribuire le colorazioni, che rendono pregevoli le pietre paesine dei monti di Tolfa attraversate da linee rette ad angoli determinati da risultarne figure triangolari e variopinte. La magnetite in minor quantità sui monti di Tolfa, trovasi sempre associata alla limonite. Essa è parimenti amorfa, e dotata più o meno dì forza magnetica fino a rendersi polare. Tale unione mi faceva pensare che sia lo stesso ferro limonitico, meno ossidato e non alterato dalle sopraggiunte sostanze straniere.
Il ferro oligisto ha lo stesso aspetto di quello dell'Elba, e si rinviene alla Val¬lascetta in numerose masse antiche sparse sulla superficie del suolo, e diffuse sul monte Perazzeto, Lasco della Capra, e fosso Ferrone. La distanza dal centro eruttivo di Tolfa, e la prossimità del Sasso, mi fanno credere quelle masse attinenti piuttosto alle vaste eruzioni trachitiche di questo luogo. Però non si fa uso di questo minerale, non essendo stato mai rinvenuto nella sua giacitura naturale entro le roccie che lo contengono.
E qui fa d'uopo avvertire che alle predette roccie elaborate dal fuoco terrestre si dovrebbe altresì aggiungere l'allumite. Ma siccome questa sostanza, sebbene in origine sia stata una trachite eruttiva, trovasi ora trasformata per metamorfismo; così credo abbiasi a riferire alla terza sezione che segue, siccome una roccia cangiata di natura.
16. Lave basaltine, pietrose, bigie, spesso ribollite, o scoriacee, sotto forma di filoni, ovvero traboccate dai crateri e corse in correnti più o meno distese in ragione della loro densità. Contengono vari minerali in cristalli disseminati nella loro massa, come i feldspati, gli amfigeni, i pirosseni, i peridoti, le melaniti ecc.
Nella Tuscia romana queste lave si trovano all'intorno dei crateri sottomarini, dei centri eruttivi Vulsinio, Cimino, e Sabatino distese in correnti, in genere di molta potenza e poca estensione, per accusare la loro vischiosa densità. Sono parimenti di sostanza lavica le scorie, i lapilli, le pomici, le ceneri lanciate dai vulcani atmosferici o sottomarini; ma questi materiali diffusi sul suolo circostante, assumendo i caratteri dei depositi, vanno a far parte delle roccie stratificate, e perciò li abbiamo compresi nella prima sezione, col nome di tufi o conglomerati vulcanici. Zolfo, Anche questa sostanza, quando sotto forma di vapore emana dall'interno della terra, e si solidifica alla sua superficie, dev'essere compresa fra le materie eruttive. Il vapore solfureo penetrato nelle roccie di sedimento vi si sublima per raffreddamento; però a condizione che queste non contengano calce, altrimenti le converte in gesso. Accompagna le eruzioni vulcaniche, e dopo che queste sono estinte resta come testimonio delle passate eruzioni; perciò si trova nei distretti vulcanici raccolto nei conglomerati, e spesso in così gran quantità da costituire più o meno vaste solfatare da lusingare l'industria. Nella Tuscia romana si possono citare i zolfi di Canale sotto il Monte Virginio, quelli sul ciglio del cratere di Scrofano; la solfatara di Nemi sulla via Cassia; di Latera sulla sponda del gran bacino Vulsinio, e in altri luoghi di diversa portata. Acido carbonico. Dalle sostanze emanate dalla terra nemmeno si può escludere la esalazione di acido carbonico, che come lo zolfo resta in memoria delle antiche con¬flagrazioni vulcaniche. Il trasudamento di acido carbonico nella Tuscia è generale e lento, perché si fa da tutta la superficie del suolo vulcanico, ed è causa della sua fertilità.
III. Roccie metamorfiche.
A) Roccie ignee alterate o cangiate.
19. Caolino: argilla plastica a porcellana e refrattaria. È il risultato della semplice decomposizione della trachite operata dagli agenti esterni coi quali è messa in contatto. È finissima, bianca candida, di plasticità diversa secondo il grado di più o meno avanzata decomposizione; spesso è tinta in rosso, in giallo, o variegata dal ferro che contiene.
Derivando dalla trachite si trova ristretta ai monti dì Tolfa. Alla cava Gangalandi quella roccia si trova in tutti i gradi di disfacimento, da dura e compatta, ad una sostanza farinosa, resa quasi insolubile. Il villaggio detto La Bianca viene così appellato perchè posto sulla fiancata meridionale del Monte dell'Elceto tutta convertita in candido caolino, sul quale vennero aperte le cave per metterlo in commercio.Torna su
20. Ocre. Le terre a colori sono ancora esse dovute al disfacimento dei minerali di ferro, operato dagli agenti atmosferici, e specialmente dall'acqua. Il diverso grado d'ossidazione del ferro, e della sua idratazione, non che l'aggiunta di qualche sostanza avventizia, hanno dato per risultato tante specie di ocre, rosse, gialle, brune ecc. Perciò si trovano sempre associate alle masse di ferro eruttivo.
Sui monti di Tolfa ve ne sono in gran numero. specialmente ove le escavazioni le misero allo scoperto.
21. Allumite. È un solfato doppio di allumina e potassa allo stato pietroso, compatto, bianco ovvero tinto dal ferro in giallastro, rosso o violetto, cristallino e sovente anche cristallizzato. Contiene cristallini di pirite marziale, e ferro idrato. Trovasi in filoni più o meno potenti e serpeggianti nel seno della gran massa trachitica dei monti tolfetani, dalla quale si estrae per far l'allume del commercio. È un minerale che ha avuto una origine eruttiva, e i massi di trachite semi-decomposta contenuti negli stessi filoni portano a credere che quest'allumite della Tolfa sia stata egualmente una trachite injettata nella prima per una seconda eruzione, poi metamorfosata in allumite per reazioni chimiche. Sembra che questo cangiamento sia derivato dalla stesso solfuro di ferro contenuto, il quale passato in solfato abbia somministrato l'acido solforico alla potassa e all'allumina, lasciando fuori di combinazione il ferro idrato.
Numerose cave sui monti di Allumiere dimostrano questi filoni.
B) Roccie sedimentarie metamorfiche.
22. Calcarie cristalline, bianche candide, a grana fina come il marmo statuario, ovvero grossa e luccicante, per le faccie dei cristalli di carbonato di calce compenetrati fra loro, che spesso nelle cavità vedi sorgere in grosse romboidi, ovvero si vedono convertite in masse bianche e traslucide le quali si frazionano in romboedri. Il trovarsi questa riduzione in contatto colle roccie eruttive bastantemente accennano alla causa della loro conversione. La diffusione poi di tale riduzione, 1'intensità del metamorfismo, e la estensione per via di vene serpeggianti nelle assise sollevate che si assottigliano e scompariscono a notevoli distanze, dimostrano l'entità di tanta operazione. Sui monti di Tolfa sembra che questo metamorfismo abbia avuto un centro in quello spazio che intercorre fra il picco della Tolfa e quello della Tolfaccia; imperocché quivi in seno alle calcatisi cristalline si contiene sparsa e mescolata senz'alcun ordine una quantità di sostanze metalliche, specialmente sotto forma di solfuri, o di carbonati, accompagnati da fluorina, feldspati ecc. da far credere essere stato un grande laboratorio chimico della natura. Ma di questi prodotti torneremo a parlare in seguito.
23. Gessi. Finalmente fra le sostanze metamorfosate si deve annoverare il gesso, risultante dalla conversione delle marne subapennine in solfato di calce per una emanazione solforosa sopraggiunta, la quale cacciò di combinazione l'acido carbonico per impadronirsi della calce. Da questo metamorfismo ebbero origine le gessaje, quando si presentano in estesi depositi. Sui monti di Tolta tali ammassi di gesso si trovano alla base dei monti trachitici sulla quale riposano i letti marnosi. Così si hanno entro il bacino tolfetano, all'Ara vecchia, alle Spinare, a Pian dei Santi; sotto il castello del Sasso, a Frassineto in prossimità dalle trachiti di Monterano e del Monte Virginio, i gessi di Civitavecchia vicino alla Torre d'Orlando, e quelli di Corneto, sulla sponda del Marta. Sono queste tante gessaje usate per la edilizia.
Il seguente quadro sinottico farà meglio conoscere le roccie ora enumerate.

I. ROCCIE STRATIFICATE
A. sollevate

 

Eocene 1. Calcarie argillose compatte, e pietre paesine
2. Calcarie argillose palombine: alberese.
3. Schisti galestrini o macigni

Nemertiliti
Pesci e piante

B. fratturate o mosse

Miocene sup
Pliocene inf.
id. medio
.id. sup.°
Diluviale
Glaciale

4. Marne subapennine inferiori
5. Calcarie del Macco
6. Marne turchine
7. Sabbie gialle
8. Ghiaje e sabbie marine
9. Tufi vulcanici
Ricca fauna
id.
id.
id.
Resti elefantini
Vegetabili

C. orizzontali

Alluvionali 10. Sabbie ferruginose marine
11. Breccie fluviali
12. Travertini
Fossili quaternari
Numerose ossa
Fossili d'acqua dolce
Moderna   13. Depositi in via di formazione Fossili viventi
     
II. ROCCIE IGNEE III. ROCCIE METAMORFICHE
A. eruttive
14. Trachite 19. Caolino
15. Ferro, limonite, magnetite, oligisto 20. Ocre
16. Lave vulcaniche

21. Allunite
B. sedimentarie

17. Zolfo 22. Calcarie cristalline
18. Acido carbonico 23. Gessi

 

Se sopra una carta geologica si osservi la distribuzione dei colori indicanti i diversi terreni che compongono la Tuscia romana, sembra che questi siano irregolarmente sparsi e disordinati. Ma, se si presti attenzione alla natura, giacitura, elevazione, e alle scambievoli relazioni di quei stessi terreni, facilmente si vedranno ordinati in ragione delle cause che ne determinarono l'esistenza. Essi sono il risultato di grandi avvenimenti cosmici, o d'imponenti manifestazioni della possanza di natura, di cui fu teatro quella regione dell'Italia centrale.Torna su L'abbozzo di un quadro di tali fenomeni darà una prova di tale verità, e farà meglio conoscere ciò che è la Tuscia romana, rispetto alla storia fisica del globo. Durante lo svolgimento dell'epoca eocenica correvano secoli tranquilli, i quali permettevano al mare compiere regolarmente quella lunga serie di sedimentazioni che oggi vediamo rappresentate dalle calcari, argille e macigni, sollevate dalla loro naturale orizzontalità per costituire le più rilevate prominenze della Tuscia romana. La regolarità di tali assise chiaramente si accorda colla calma nella natura: ma la scarsezza dei loro fossili, ci concede appena argomentare sotto quale aspetto si trovasse la vita nelle acque terziarie di quella regione. Nondimeno si può dire che il mare eocenico veniva animato da pesci cicloidi, da nemertiliti serpeggianti sopra un fondo tappezzato di fuchi, e da altri prodotti marini. Però è da osservare che fra i fossili delle calcarie alberesi si notano altresì reliquie di piante terrestri come sono le muse, le dracene, le leguminose, le quali accennano a qualche prossima isola, a meno che non vi fossero trasportate da maggiori distanze, ossia dagli Apennini già esistenti. In qualunque modo però possiamo ritenere che nell'epoca eocenica, nella Tuscia romana ancora tutta sommersa regnava calma e serenità nell'ordine di natura.
Ma non dovette essere così al declinare di quell'epoca, quando non lievi turbamenti dovettero per gradi manifestarsi come precursori di un gran cataclisma, già pronto a mettere a soqquadro tutta intera l'Italia centrale. Una quantità di trachite dall'interno della terra fu spinta ad attraversare la crosta terrestre trascinando seco i brani delle roccie investite, fino ad emergere sul livello di un tempestoso mare. Può ognuno immaginare da quali sconvolgimenti fosse accompagnata un'operazione di tanta entità, quali tremendi terremoti ne fossero i precursori, e come venisse manomesso il paese fatto centro di una emanazione planetaria. Però il fatto è, che il risultato di tanta catastrofe fu la comparsa dei monti tolfetani colle impronte del sollevamento delle loro masse. E difatti un gran corpo di trachite ne forma nocciolo, circondata dalle roccie eoceniche raddrizzate all'intorno, metamorfosate dal contatto e attraversate da filoni di ferro, che accompagnò l'eruzione medesima.
Ma non fu solo quello lo sbocco della materia eruttiva, giacché allo stato di fusione nell'attraversare le fratture delle roccie di sedimento vi si diffuse, e spandendovisi corse ad occupare un vasto spazio, procurandosi altre uscite ausiliarie, e raggianti dal punto centrale. Il più cospicuo di tali sbocchi secondari è quello del Sasso. per la quantità di trachite traboccata, e sollevata a notevole altezza sotto forma mammellonare. A questo succedono il Monte Cimino, che segna il punto più prominente di tutta la Tuscia romana; il Monte Virginio; quello della Tolfaccia; della Torre d'Orlando ecc. A tali isolate prominenze, che rendono aspro e ineguale il suolo etrusco, si devono altresì aggiungere quei frapposti rilievi, costituiti dai brani delle roccie eoceniche spinti ad emergere lungo il cammino sotterraneo dalla materia eruttiva, come sono le colline di Monte Romano, i monti tarquiniensi gl'isolati rilievi di Barbarano, s. Giovanni di Bieda ecc. Così veniamo a comprendere come sulla superficie del mare etrusco, al finire dell'epoca eocenica, comparisse un piccolo arcipelago per rappresentare i rudimenti della Tuscia romana. Tuttavia una operazione così vasta, per la quale natura spiegò forze straordinarie, venne a poco a poco a declinare e compiere la sua parabola di svolgimento. Imperocché, dato sfogo ad una pletora planetaria colla emissione di una determinata quantità di materia eruttiva, l'equilibrio fu ristabilito e la contrada riguadagnò la sua prisca tranquillità. Però la superficie del mare non fu più libera; ma interrotta da prominenze emerse o da isole di svariata grandezza.
Allora le nuove prominenze si rivestirono per la prima volta di uno strato di vegetazione terrestre, per servire di nutrimento e ricetto agli animali polmonati che concorsero a prenderne possesso e abitarla. Frattanto nel mare si riordinavano le sedimentazioni mioceniche, che si depositavano sulle radici dei monti emersi, e con esse si restaurava la vita marina, perchè nuove generazioni si venivano svolgendo colla diffusione di nuovi esseri sotto l'influsso climatologico di un' epoca diversa. Nel bacino tolfetano non ci è dato studiare quei fossili, perchè i sedimenti miocenici, furono alterati e guasti da fatti cosmici a cui andarono soggetti dopo la loro deposizione. Ma se quegli stessi strati si esaminino a qualche distanza, ove l'azione metamorfosante non giunse, si vedranno quelle medesime assise piene di conchiglie e zoofiti relativi a quell'epoca indicatori di calma. Così passavano quei tempi che possiam dire di riposo o di tregua, corsi per preparare segretamente una nuova fase eruttiva che non tardò a comparire sul finire della stessa epoca miocenica. Fu una seconda emissione di trachite quella che venne di nuovo spinta attraverso le fratture della stessa massa centrale, prodotte dal suo raffreddamento, senza traboccare all'esterno come fece la prima. Le osservazioni ci danno tutto il motivo a credere, che questa seconda emissione di trachite fosse accompagnata da una emissione solfurea, indicata dalla conversione delle marne mioceniche in gesso, e dalle tante sostanze metalliche che sotto forma di solfuri si rinvengano nel seno delle calcarie cristalline in contatto colle masse eruttive, delle quali terremo parola nella terza parte di questo discorso. Che poi una esalazione solfurea accompagnasse la seconda eruzione di trachite si può facilmente argomentare dagli stessi filoni di questa sostanza che per chimiche reazioni vennero cangiati in allumite, come le marne in gessi. Sebbene dagli effetti di questa seconda eruzione si dimostri essere stata impiegata minor forza della prima, nondimeno fu bastevole ad imprimere ai monti un movimento ascensivo generale, per il quale alcuni di essi si saldarono insieme, e le deposizioni superiori del miocene ridotte in selenite furono messe a giorno sulle radici dei monti. Questo scoprimento si rende apparentissimo presso le Allumiere e nello stesso bacino della Tolfa all'Ara vecchia, alle Spinare, a Pian dei Santi ecc.
Ma anche questa seconda operazione cosmica ebbe il suo fine al principiare dell'epoca pliocenica. I tempi tornarono normali assumendo quella fisionomia che le nuove condizioni dei tempi imprimevano tanto alle stratificazioni sedimentarie quarto alla vita degli esseri. Nella scala dei sedimenti, figurano come primi depositi del pliocene, potenti banchi di una calcaria grossolana, compatta o farinosa, bianca ovvero inquinata di ferro, con amfistegine, che si conosce col nome volgare di Macco, corrispondente al terreno Zancleano o Messiniano di Seguenza. Questi sono pieni di fossili fra i quali trionfano, o si fanno caratteristici sotto forme gigantesche, il Pecten latissimus Broc., il Pecten fiabelliformis Lk., l'Hinnites Cortesi Defr., il Balanus tintinnabulum Lin. Però presso di noi queste calcari sono ristrette alla costa tirrena, dove a luogo a luogo si fanno scorgere più o meno rilevate e prominenti. Esse formano il Capo d'Anzio; poi ricompariscono sfiorando sulla spiaggia di Palo e Civitavecchia, infine s'innalzano per formare la collina sulla quale è posta la città di Corneto.
Ovunque poi vogliansi esaminare queste assise, si troveranno sempre rotte e spostate per effetto di commozioni telluriche, specialmente nella prominenza cornetana, ove la giacitura gravemente alterata più che in qualunque altro luogo fa sospettare essere stato questo un centro sismico, dal quale le ondulazioni si diffusero a grandi distanze. Di modo che crediamo non errare nel ritenere che la Tuscia romana, dopo la deposizione del pliocene inferiore, fu per la terza volta agitata e manomessa da un periodo di tremendi terremoti. Ma non basta perché un confronto fra le calcarie cornetane, che rappresentano le prime sedimentazioni dell'epoca pliocenica sollevate insieme alle marne gessose del miocene superiore, e le assise del pliocene medio restate orizzontali ad un livello più basso, fa argomentare altresì che a quell'epoca tali calcarie furono sollevate fino ad emergere sul livello del mare e comparire sotto la forma di una nuova isola per essere aggiunta all'arcipelago etrusco. In questo stato di cose anche il periodo sismico venne a declinare gradatamente per lasciar finalmente libera l'Italia centrale in tutto il restante dell'epoca pliocenica. Le marne e le sabbie che succedono alle calcarie cornetane, non solo si mostrano orizzontali ed intatte, ma altresì con faune così ricche da non errare nel giudicarle parallele allo marne della Farnesina presso Roma, rappresentanti il pliocene medio, e alle sabbie gialle del Monte Mario già tanto cognite, come spettanti al pliocene superiore. Laonde ne viene la conseguenza che il periodo sismico a quei tempi era già finito, e che in tutto il restante dei tempi terziari nessun turbamento verificossi nell'ordine di natura.Torna su
Se non che dallo studio di quei fossili risulta che dopo i terremoti, un lento e graduale abbassamento di temperatura faceva cangiar fisionomia alle successive faune fino al declinare del periodo terziario, quando la serenità del cielo tornò a turbarsi, per divenire fosca e tempestosa. Difatti nell'ascendere la scala delle roccie sedimentarie, le stesse sabbie gialle fossilifere si vedono. ingrossare e convertirsi in ghiaje e breccie, indicanti trasporto torrenziale, e mare agitato. Così finisce il periodo terziario ed esordisce il quaternario. Il Monte Mario sulla costa etrusca della gran valle tiberina, mostra scoperta tutta la scala subapennina, da cui si argomenta che alla calma pliocenica succedettero nuovi turbamenti cosmici. Imperocché se le fine sabbie gialle accennano ad un mare in bonaccia, le sovraincombenti breccie prive di fossili marini accusano un movimento nelle acque, capace di rimuovere e trasportare materiali più grossi per distenderli sulle precedenti sabbie. La causa di tali cangiamenti devesi ricercare sui monti, conciossiaché le burrascose pioggie cadute sulle loro altitudini, dando origine a precipitosi torrenti, trascinarono giù una enorme quantità di ciottoli, che consegnati all'attrito di un mare in tempesta, vennero logorati e ridotti in breccie. Tale è il carattere che assume la prima epoca del periodo quaternario, di cui si trovano le traccie anche nella Tuscia romana, e che perciò prese il nome di epoca diluviale. La comparsa di tante pioggie fu certamente l'effetto di una esterna depressione del calorico, per cui i vapori acquosi condensandosi nel seno dell'atmosfera si convertirono in acqua. Ma questa causa immediata, sempre più avanzando, rese quei tempi così disgraziati e climaterici, che non poco ebbe a soffrire la vita degli esseri assoggettati ai più duri trattamenti dalla stessa natura. Se si ricercassero i fossili nelle breccie diluviali si vedrebbe che la fauna, tanto ricca nelle precedenti sabbie gialle, è totalmente scomparsa. Conciossiaché le fragili conchiglie, i delicati zoofiti e tutti gli altri animali e piante marine non reggendo al perenne attrito furono tutti uccisi e distrutti. Che se qualche fossile pur vi si rinviene, questo si riferisca a quei grossi pachidermi che vivendo ancora sugli Apennini furono rapiti e dispersi dalle correnti. Laonde qualche volta vi si osservano ossa elefantine, con tutti i segni di un lungo trasporto, o di altri animali spettanti alla fauna pliocenica manomessa dalle tremende burrasche diluviali. Ma la depressione del calorico, che fu capace di tanti disastri, lungi dall'arre¬starsi, sempre più avanzava, fino a che giunse il punto in cui le acque si conver¬tirono in nevi. Ed ecco un gran cangiamento di scene sul teatro del mondo: ecco il principio dell'epoca glaciale, che succede alla diluviale: ecco i più alti cuspidi montani che incominciano a rivestirsi di nevi perpetue ecco i ghiacciai che ne discen¬dono: ecco i massi erratici, colla formazione delle morene.
Ora sorge un altro quesito: se, cioè, in tanto disordine di superficie poteva il pianeta terrestre restare impassibile? No certamente, perché la sua vitale attività tanto sensibile al mantenimento dell'equilibrio dovea rispondere e reagire. Le osservazioni dicono che a quell'epoca un generale e sfrenato vulcanismo irrompendo in ogni dire¬zione si manifestò su tutta la terra, in guisa che, mentre questa era rivestita di ghiacci, trasudava fuoco per tutti i suoi pori. Avvenimento salutare per la vita degli esseri di quei tempi; che nella grande distruzione della fauna pliocenica l'irraggiamento del calorico terrestre concesse a taluni di loro poter superare il periodo gla¬ciale e così figurare nella fauna moderna. Tali sono gli elefanti, gli ippopotami, i rinoceronti, i cervi, le jene ed altri, che vivono ancora presso di noi.
Da tali fatti si ricava che il cataclisma vulcanico-glaciale fu il più vasto dei tempi più vicini a noi, e fu quello che, avendo messo a soqquadro tutta intera la faccia del globo, diede l'ultima. mano alla figura geografica che tuttora rnanifesta. Queste dottrine non sono nuove, essendo state altra volta da me esposte (1), però ho creduto rammentarle per farne più chiaramente l'applicazione alla Tuscia romana, di cui sto trattando. Le indagini e i confronti pertanto, fatti sulle assise della nostra scala stratigrafica, ci portano a stabilire con piena sicurezza, che i conglomerati vul¬canici o i tufi sovrastanti alle ghiaje diluviali, rappresentano netta l'epoca glaciale, e sul piovente tirreno dell'Italia centrale tengono il posto del terreno morenico delle regioni sabalpine, mancanti dei sedimenti vulcanici. La zona dei tufi vulcanici è potente ed estesa, e le materie costituenti sono scorie, lapilli, ceneri, pezzi di lave, e roccie erratiche, evidentemente eruttate da quelle medesime bocche che coronano la sommità dei tre coni di dejezione, Vulsinio, Cimino e Sabatino, compresi in tutta l'estensione della Tuscia romana. Questi furono vulcani sottomarini, e perciò le loro materie eruttate, date in preda alle onde, ven¬nero diffuse sul fondo di un gran golfo, sulla normale del quale sono schierati i tre accennati crateri, sostenuti dai loro rispettivi coni di dejezione, parallelamente al corso del Tevere. Di modo che se si eccettui la parte occupata dai monti trachitici, tutto il resto della Tuscia romana, ancora sommersa, venne ricoperta dai tufi vulcanici distesi fino alle più lontane spiaggie. La violenza spiegata, ovvero la intensità delle forze impiegate in quel periodo di terrestre vulcanicità, deve essere stata sorprendente. Imperocché i numerosi crateri aggruppati sulle prominenze dei coni, dai quali traboccò tanta quantità di materie, e gli stessi sprofondamenti dei bacini Vulsinio e Sabatino, prodotti da sventramento di materie sottratte, non solo accennano alle più gagliarde eruzioni, ma altresì alle numerose intermittenze ripetute per secoli. E in verità, se il vulcanismo etrusco fu suscitato dal freddo glaciale, la sua vita deve aver durato finché si mantenne la causa produttrice; cioè tutto il tempo dello svolgimento dei ghiacciai, fino al loro più avanzato ritiro.
Se poi si rivolga l'attenzione alle condizioni climatologiche che regnarono in questa parte dell'Italia centrale nel decorrere del gran periodo vulcanico, non sarà difficile argomentare dalla stessa giacitura dei banchi delle materie eruttate, o dei tufi, che il mare sotto il quale esplodevano i fuochi terrestri dovette trovarsi in continua tempesta specialmente nelle più violente emissioni. Questo stato di tremende agitazioni portò la distruzione di tutti i suoi abitatori, o la scomparsa della vita marina. Avvegnaché gli scarsi fossili che fin qui sono stati notati nei tufi vulcanici si riducono a reliquie elefantine, e di vegetabili terrestri, che come nelle sottostanti breccie diluviali scesero dai monti convogliate dai torrenti. Mentre queste scene di sconvolgimento accadevano nel mare, la sovrastante atmosfera, ove irregolarmente irraggiava tanto calorico insieme ad enorme quantità di vapori, non potea certamente restare tranquilla. Laonde fatta sede delle più intense burrasche dovette scaricare sulle terre emerse, agitate dalle più intense oscillazioni sismiche, rovesci d'acqua tremendi, dai quali venivano generati impetuosi torrenti, capaci di mettere a soqquadro tutto ciò che incontravano per via. In questo modo l'intera natura sdegnata dava le prove più ampie della sua illimitata possanza, nello svolgimento parabolico del gran cataclisma vulcanico-glaciale. Giova poi far notare che, le assise dei tufi vulcanici sono le ultime nella scala delle deposizioni marine , e perciò si deduce, come conseguenza necessaria, che tali e tante furono le violenze esercitate nell'ascensione delle lave attraverso i cunicoli vulcanici, che il suolo dovette lentamente sollevarsi, tutto intiero e senza alterare la sua forma. Laonde prime a comparire sulla superficie di quel mar tempestoso dovettero essere le sommità dei coni di dejezione sotto l'aspetto d'isole vulcaniche eruttanti, le cui basi sempre più dilatandosi finirono col mettere in secco tutto intero il paese.
Ma tanta catastrofe, che per la quarta volta giunse a manomettere la Tuscia romana, condotta dalla depressione della temperatura terrestre, al rallentarsi di questa dovette eziandio declinare, ed insieme a quella arrestarsi. Imperocché al rielevarsi della temperie, dato sfogo alle interne congestioni, dovea il pianeta riprendere il suo stato normale. Ed ecco incominciare un'epoca nuova, caratterizzata da fatti ben diversi da quelli fino allora avvenuti: ecco cangiata scena. Il fuoco terrestre dopo aver tanto scorazzato nella Tuscia romana, scomparve lasciando in quella regione lente e tranquille emanazioni di acido carbonico, e di vapori solfurei, quali reminiscenze del suo lungo soggiorno. Ma non per questa si arrestò l'attività vulcanica della terra, giacché trasferita nel Lazio, diede principio ad un altro distinto periodo di vita eruttiva,

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