quelle
assise, che subirono cambiamenti metamorfici, per azione del fuoco e
dell'acqua, e perciò fatte diverse da quelle di origine.
I. Roccie nettuniane o stratificate.
A) che subirono maggiori spostamenti.
Nella Tuscia romana le roccie che dopo la loro sedimentazione marina
sperimentarono i più gravi disordini sono le seguenti:
1. Calcarie argillose, compatte, a frattura concoide
o scagliosa, in letti da 40-60 centimetri di potenza, biancastri o attraversati
da linee e macchie ferruginose di vari colori da risultarne marmi teneri
del genere delle paesine.
2. Calcarie similmente argillose, a frattura scagliosa,
incerta ovvero concoide a strati sottili corrispondenti all'alberese
dei Toscani, di color bigio palombino, qualche volta arrossati dal manganese,
ovvero neri dal carbonio. Costituiscono le roccie più numerose
e dominanti della Tolfa. Negli strati palombini rinvenni impressioni
di grosse Nemertiliti, e da un pozzo aperto sotto il Monte Castagno
nel bacino tolfetano sulla sponda del fosso Cupo, vennero estratte numerose
reliquie di varie specie di pesci cicloidi insieme ad una quantità
di piante carbonizzate, terrestri e marine: Muse, Dracene, varie Leguminose.
miste ad una quantità di fucoidi, di cui conservo i saggi nel
gabinetto della R. Università di Roma.
3. Schisti argillosi, più o meno bigi analoghi
ai galestri, sostenuti dalle suddette calcari che presto passano ad
un'alternanza di arenarie o macigni , dando principio ad una lunga serie
di letti, che scendono sulla esterna pendenza dei monti tolfetani, come
si vede lungo la strada da Civitavecchia alle Allumiere. Anche questi
letti schistosi e arenosi sono privi di fossili, per quante ricerche
siano state fatte.
Le enumerate roccie, sebbene non abbiano ancora somministrati avanzi
organici rigorosamente caratteristici, nondimeno per analogia con quelle
di altre contrade prossime, non dubiterei considerarle quali rappresentanti
l'epoca eocenica. Di esse si compongono i monti maggiori, e sporgenti
sulle pianure subapennine, quali sono quelli del gruppo tolfetano, i
colli tarquiniensi e tutte quelle altre prominenze sparse nella estensione
dell'area etrusca, come le prominenze di Monte Romano, di Barbarano,
s. Gio. di Bieda ecc.
B) Roccie meno sollevate delle precedenti e semplicemente attraversate
da fratture.
4. Marne subapennine inferiori di color bigio-turchino,
compatte, depositate in potenti banchi sulle radici dei monti trachitici,
e rialzate al disopra del loro ordinario livello.
Sebbene non si conoscano fin qui i loro fossili nella Tuscia romana,
nondimeno per la loro giacitura ci sembrano doversi riportare alle marne
vaticane ossia al terreno Tortoniano, ovvero al miocene superiore. Ove
questi banchi non furono alterati dal metamorfismo mostrano i loro caratteri
di origine, come alle falde del Monte Virginio, dalle quali sono estratte
per fabbricar laterizi.
5. Calcarie grossolane, che presso di noi sono denominate
Macco, o compatte e lapidee, ovvero poco coerenti e farinose: bianche,
o giallastre e ferruginose in istrati potenti, alcuno dei quali pieno
zeppo di Amfistegine. Contengono altresì una ricca fauna pliocenica
composta di fossili che si distinguono per la loro gigantesca statura,
come il Pecten latissimus Broc. il Balanus tintinnabulum Lin. grossissime
ostriche e molte foraminifere, riferibili alle assise zancleane, o al
terreno Messiniano del Seguenza, vale a dire al pliocene inferiore.
Queste calcarie che mancano nella scala stratigrafica del Monte Mario,
si mo strano invece lungo il lido del mare Tirreno sotto forma di leggere
prominenze, emergenti per innalzamento, da cui risulta il Capo d'Anzio,
i paraggi di Palo e Civitavecchia e specialmente la collina di Corneto,
ove si vedono succedere alle marne precedenti cangiate in gesso.
6. Marne turchine superiori alle calcarie del Macco,
alternate con letti di sabbione giallastro, a giacitura orizzontale,
attraversate da fenditure e salti indicanti più leggeri spostamenti.
Sono ricche in fossili identici a quelli della Farnesina presso Roma,
e perciò le riteniamo come un pliocene medio.
Poca quantità di queste marne si rinviene nel fondo del bacino
di Tolfa; ma in maggior potenza si distendono sulle prominenze Cornetane
sovraincombenti al Macco. Parete vi osservò i fossili al ponte
del Mignone sulla via di Civitavecchia, ed io ebbi il vantaggio di esaminarne
la fauna sulla strada da Corneto alle Allumiere. Le marne, che si estraggono
per far mattoni nella strada che da Civitavecchia sale alle Allumiere,
appartengono a questo piano.
7. Sabbie gialle di Brocchi, tanto cognite come rappresentanti
il pliocene superiore, succedono nella serie ascendente. Fin qui poche
ricerche sono state fatte dei loro fossili nella Tuscia romana, però
non si erra nel giudicarle analoghe a quelle del Monte Mario, o riferibili
al piano Astiano.
Lungo il littorale si distendono in una larga zona per eguagliare la
scabrosità delle roccie sollevate sulle quali furono depositate,
come si vede al Capo Linaro. Sulla strada da Civitavecchia alla Tolfa
si salgono delle terrazze o gradini, indicanti il ritiro delle acque
nella lenta e intermittente emersione di questa zona, quali sono quella
dei Cappuccini e quella delle terme Taurine.
8. Ghiaje e breccie risultanti dal detrito delle roccie
dei monti maggiori, logorate dall'attrito del trasporto marino. Meglio
apparenti in prossimità dei monti da cui ebbero origine, sono
sempre superiori alle sabbie gialle. In queste breccie non s'incontrano
mai ciottoli vulcanici, perchè anteriori alla loro comparsa,
come ancora in generale non contengono fossili.
Rappresentano il diluvio apennino, analogo all'alpino dei geologi lombardi,
accennano cioè che il periodo terziario è finito, ed ha
avuto principio il quaternario coll'epoca diluviale. Qualche raro fossile
raccolto in queste breccie appartiene a resti di elefanti o piante terrestri.
Nella Tuscia romana, questi strati sono in genere molto leggeri e sovente
mancano.
9. Tufi vulcanici o conglomerati più o meno
compatti e lapidei di scorie, lapilli e ceneri eruttati dai tre vulcani
sottomarini Vulsinio, Cimino e Sabatino, e impastati dalle onde tempestose
allorché si spandevano su tutto il fondo marino. Si presentano
in potenti banchi, che sormontando le precedenti breccie danno termine
alla scala delle assise nettuniane.
I fossili dei tufi vulcanici si riducono a impressioni di foglie o tronchi
di piante terrestri e qualche reliquia di elefanti. Questi invero non
sono indizi sicuri del tempo a cui riferire i tufi vulcanici, però
dal posto che occupano nella scala stratigrafica facilmente si argomenta
che le assise vulcaniche spettano all'epoca glaciale, occupando il posto
delle morene, e dei massi erratici di Lombardia e del Piemonte, che
mancano in Italia ove arsero i vulcani. Essendo le ultime assise della
scala nettuniana, è chiara l'emersione dopo la loro sedimentazione,
e perciò formano tutto il soprasuolo etrusco, meno l'arcipelago
tolfetano e la collina di Corneto.
C) Roccie orizzontali inalterate.
10 Sabbie rosse, ferruginose, di sedimento marino,
distese in banchi lungo il lido, ad un livello superiore alle acque
moderne: perciò furono dette da Risso delle spiaggie emerse.
I fossili contenuti, quasi tutti identici a quelli che ora vivono nel
mare Tirreno, e la giacitura di queste sabbie, accennano all'epoca alluvionale
succeduta alla glaciale, colla quale termina il periodo quaternario.
11. Sabbie, breccie di trasporto fluviale, risultanti
dagli stessi elementi delle diluviali marine, a cui si aggiungono i
vulcanici, perchè di formazione posteriore alla comparsa dei
crateri eruttivi. Anche queste sono alluvionali, coeve cioè alle
precedenti marine, perchè trasportate dalle grandi correnti che
caratterizzano quell'epoca, e perciò sono contenute nei grandi
alvei dei fiumi. I fossili di queste breccie sono numerosi e contengono
due faune distinte: una terziaria pliocenica di secondo trasporto, composta
di ossa frantumate, logorate e disperse di grossi pachidermi, molti
dei quali perduti; la seconda di animali contemporanei di fisionomia
moderna, intatte o ben conservate per la mancanza dell'attrito di trasporto.
La grande vallata nella quale serpeggia il moderno Tevere, quelle dei
suoi principali affluenti, e di tutti gli altri fiumi ne danno prove
evidenti.
12. Travertini e tartari prodotti da sorgenti calcarifere
parimenti alluvionali, compatti e litoidi, sovente ferruginosi. Formano
depositi enormi da usarne in vaste proporzioni nell'edilizia, e fra
questi si notano i travertini di Civitavecchia a tinte variegate, impiegati
anche come marmi decorativi col nome di alabastri. Nel bacino di Tolfa
un'altra specie di questi viene adoperata e conosciuta col nome di alabastro
del Bagnarello. I fossili di queste roccie sono numerosissimi, spettanti
ad animali e piante di acqua dolce e terrestri la maggior parte dei
quali vivono tuttora sui luoghi. Vasti depositi di travertino si trovano
a Piano, e ad Orte sulla sponda etrusca del Tevere, quelli di Civita
Castellana come quelli già citati in Civitavecchia ai bagni di
Trajano, e della Tolfa, o di altre località sono compresi nel
territorio etrusco.
13. Depositi moderni, ultimi nella serie dei terreni
di sedimento, tanto marini che delle acque dolci, si trovano in quantità
più ristretta, sotto forma di tartari, attorno le sorgenti, ovvero
costituiti da sabbie e ghiaje sono trasportati dai fiumi, e dati in
balia delle onde marine per essere gettati sulle spiaggie sottili. Contengono
vestigia di animali e piante che vivono ancora nel paese, associate
ad opere manufatte dall'uomo, caratteristiche di una formazione assolutamente
moderna.
II. Roccie ignee o eruttive.
14. Trachite, in masse non stratificate, costituita
da sostanza feldspatica, ruvida al tatto, bigia, in cui sono sparsi
cristalli di riacolite, quarzo ed altri minerali avventizi che gli danno
aspetto granitico o porfiroide. La forma esterna che assume questa roccia
è quella propria delle materie dense e vischiose, cioè
di mammelloni, o cupole rilevate e isolate, ovvero trascorsa per il
proprio peso sulla superficie del suolo. Le trachiti sono molto variabili
non solo negli elementi costitutivi, ma altresì nel colore, trovandosene
spesso di quelle che dal bigio passano al verde, al rosso, al giallo,
al bruno e perfino al nero a causa del ferro contenuto. La Tuscia romana
comprende un sistema ordinato di sbocchi eruttivi di questa roccia,
diffusi ad occupare un'area ben vasta o un distretto trachitico, in
ciascuno dei quali la trachite si presenta sotto aspetti diversi. Sui
monti di Allumiere, nella contrada del Lume-morto, trovasi una trachite
bigia con grossi cristalli di riacolite vetrosa, e condita di minutissimi
cristallini brillanti di quarzo che si cava come pietra refrattaria.
Alle cave vecchie gli elementi sono così esili da comparire omogenea,
e qualche volta il quarzo si raccoglie in grandi masse cristalline bianche,
altre volte adoperato per uso di vetrerie come quello delle Trincere
o della cava Ballotta. Al Monte Rovello sotto le Allumiere si trovano
geodi rivestite di agate fasciate di bianco e ceruleo, ovvero sotto
forma di calcedonie. I così detti diamanti della Tolfa sono cristalli
isolati di quarzo, talvolta limpidissimi, seminati specialmente in certi
luoghi dell'area trachitica, come sui Poggi della Stella o alle Spiaggie.
Prende anche l'aspetto di retinite gialla o nera sulle prominenze della
Chiesaccia, o le coste del Marano. Brocchi trovò la trachite
passata in ossidiana al Pian del Gallo, con qualche indizio di scorificazione;
sulla strada di Mola farnesiana un'ossidiana nera sparsa di bianchi
cristalli simile ad una variolite fu rinvenuta in prossimità
dell'Elce-mercato.
Altre varietà vengono offerte dai mammelloni propagati a distanze.
Al Sasso si vede una trachite omogenea e verdastra: al Monte Virginio
la pietra detta di Manziana, che si estrae come refrattaria, è
una trachite biancastra ruvida con cristalli vetrosi di riacolite ha
un aspetto semi-decomposto. Al Cimino, Brocchi notò che nella
parte inferiore della montagna i cristalli sono più minuti dei
superiori, a causa della pressione della massa sovraincombente. Queste
trachiti mammellonari sorsero nella prima e maggiore eruzione, per la
quale si sollevarono le roccie stratificate eoceniche che costituiscono
i monti più rilevati su tutta l'area etrusca.
15. Ferro, in grossi e ramificati filoni di eruzione,
injettati nelle roccie di origine nettuniana, molto diffusi attorno,
e in contatto colle masse trachitiche, alle quali sembrano attinenti.
Sono di varia potenza, da dicchi di molti metri di spessore, alla sottigliezza
capillare penetrata nelle più minute screpolature, da risultarne
reti complicatissime. Questo ferro eruttivo si presenta sotto tre diverse
specie, cioè la limonite, la magnetite e l'oligisto.
Il ferro limonitico o il sesquiossido di ferro idrato è il più
diffuso di tutti nella Tuscia romana. Si presenta amorfo, compatto,
talvolta scoriaceo, e di color variabile fra il rosso, il giallo, il
bruno. Al Pian Ceraso se ne vedono due enormi dicchi, sui quali vennero
aperte ampie escavazioni, dalle quali si diramano i grossi filoni che
attraversano le Sbroccate, fino a quelli del Monte Crocifisso sui Poggi
della Stella. Al Monte della Roccaccia, similmente altre cave misero
a giorno un intralcio di grossi filoni, e al Campaccio sotto le Allumiere,
ne dovrebbero ricorrere anche potenti penetrazioni, a giudicare dalle
antiche lavorazioni ivi praticate. Necessario poi si rende notare che
questo minerale non è libero dallo zolfo e dal fosforo, che lo
ridussero in solfuro e in fosfato. Conciossiaché si vede serpeggiare
la pirite entro la massa limonitica, o sulla sua superficie, e in varie
escavazioni dei minatori, si sono appalesate materie tinte di turchino
dovute al bleu di Prussia naturale, o alla vivianite. Nel ferro di Pian
Ceraso si contengono minutissime raccolte di cristalli verdastri di
ferro fosfato. Ma questi elementi, che guastano la limonite, e fanno
ostacolo alla fabricazione della ghisa nel forno fusorio sotto Cibona,
non sono costanti perché qualche volta scompariscono, e specialmente
nelle escavazioni profonde. Queste osservazioni porterebbero a credere
che il fosforo e lo zolfo siano sostanze acquisite dopo la eruzione
del ferro, ovvero un metamorfismo di questo. Le calcarie contenenti
i filoni di ferro ne sono imbevute, e perciò sempre brune ed
ocracee. A tali penetrazioni devonsi attribuire le colorazioni, che
rendono pregevoli le pietre paesine dei monti di Tolfa attraversate
da linee rette ad angoli determinati da risultarne figure triangolari
e variopinte. La magnetite in minor quantità sui monti di Tolfa,
trovasi sempre associata alla limonite. Essa è parimenti amorfa,
e dotata più o meno dì forza magnetica fino a rendersi
polare. Tale unione mi faceva pensare che sia lo stesso ferro limonitico,
meno ossidato e non alterato dalle sopraggiunte sostanze straniere.
Il ferro oligisto ha lo stesso aspetto di quello dell'Elba, e si rinviene
alla Val¬lascetta in numerose masse antiche sparse sulla superficie
del suolo, e diffuse sul monte Perazzeto, Lasco della Capra, e fosso
Ferrone. La distanza dal centro eruttivo di Tolfa, e la prossimità
del Sasso, mi fanno credere quelle masse attinenti piuttosto alle vaste
eruzioni trachitiche di questo luogo. Però non si fa uso di questo
minerale, non essendo stato mai rinvenuto nella sua giacitura naturale
entro le roccie che lo contengono.
E qui fa d'uopo avvertire che alle predette roccie elaborate dal fuoco
terrestre si dovrebbe altresì aggiungere l'allumite. Ma siccome
questa sostanza, sebbene in origine sia stata una trachite eruttiva,
trovasi ora trasformata per metamorfismo; così credo abbiasi
a riferire alla terza sezione che segue, siccome una roccia cangiata
di natura.
16. Lave basaltine, pietrose, bigie, spesso ribollite,
o scoriacee, sotto forma di filoni, ovvero traboccate dai crateri e
corse in correnti più o meno distese in ragione della loro densità.
Contengono vari minerali in cristalli disseminati nella loro massa,
come i feldspati, gli amfigeni, i pirosseni, i peridoti, le melaniti
ecc.
Nella Tuscia romana queste lave si trovano all'intorno dei crateri sottomarini,
dei centri eruttivi Vulsinio, Cimino, e Sabatino distese in correnti,
in genere di molta potenza e poca estensione, per accusare la loro vischiosa
densità. Sono parimenti di sostanza lavica le scorie, i lapilli,
le pomici, le ceneri lanciate dai vulcani atmosferici o sottomarini;
ma questi materiali diffusi sul suolo circostante, assumendo i caratteri
dei depositi, vanno a far parte delle roccie stratificate, e perciò
li abbiamo compresi nella prima sezione, col nome di tufi o conglomerati
vulcanici. Zolfo, Anche questa sostanza, quando sotto forma di vapore
emana dall'interno della terra, e si solidifica alla sua superficie,
dev'essere compresa fra le materie eruttive. Il vapore solfureo penetrato
nelle roccie di sedimento vi si sublima per raffreddamento; però
a condizione che queste non contengano calce, altrimenti le converte
in gesso. Accompagna le eruzioni vulcaniche, e dopo che queste sono
estinte resta come testimonio delle passate eruzioni; perciò
si trova nei distretti vulcanici raccolto nei conglomerati, e spesso
in così gran quantità da costituire più o meno
vaste solfatare da lusingare l'industria. Nella Tuscia romana si possono
citare i zolfi di Canale sotto il Monte Virginio, quelli sul ciglio
del cratere di Scrofano; la solfatara di Nemi sulla via Cassia; di Latera
sulla sponda del gran bacino Vulsinio, e in altri luoghi di diversa
portata. Acido carbonico. Dalle sostanze emanate dalla terra nemmeno
si può escludere la esalazione di acido carbonico, che come lo
zolfo resta in memoria delle antiche con¬flagrazioni vulcaniche.
Il trasudamento di acido carbonico nella Tuscia è generale e
lento, perché si fa da tutta la superficie del suolo vulcanico,
ed è causa della sua fertilità.
III. Roccie metamorfiche.
A) Roccie ignee alterate o cangiate.
19. Caolino: argilla plastica a porcellana e refrattaria.
È il risultato della semplice decomposizione della trachite operata
dagli agenti esterni coi quali è messa in contatto. È
finissima, bianca candida, di plasticità diversa secondo il grado
di più o meno avanzata decomposizione; spesso è tinta
in rosso, in giallo, o variegata dal ferro che contiene.
Derivando dalla trachite si trova ristretta ai monti dì Tolfa.
Alla cava Gangalandi quella roccia si trova in tutti i gradi di disfacimento,
da dura e compatta, ad una sostanza farinosa, resa quasi insolubile.
Il villaggio detto La Bianca viene così appellato perchè
posto sulla fiancata meridionale del Monte dell'Elceto tutta convertita
in candido caolino, sul quale vennero aperte le cave per metterlo in
commercio.
20. Ocre. Le terre a colori sono ancora esse dovute
al disfacimento dei minerali di ferro, operato dagli agenti atmosferici,
e specialmente dall'acqua. Il diverso grado d'ossidazione del ferro,
e della sua idratazione, non che l'aggiunta di qualche sostanza avventizia,
hanno dato per risultato tante specie di ocre, rosse, gialle, brune
ecc. Perciò si trovano sempre associate alle masse di ferro eruttivo.
Sui monti di Tolfa ve ne sono in gran numero. specialmente ove le escavazioni
le misero allo scoperto.
21. Allumite. È un solfato doppio di allumina
e potassa allo stato pietroso, compatto, bianco ovvero tinto dal ferro
in giallastro, rosso o violetto, cristallino e sovente anche cristallizzato.
Contiene cristallini di pirite marziale, e ferro idrato. Trovasi in
filoni più o meno potenti e serpeggianti nel seno della gran
massa trachitica dei monti tolfetani, dalla quale si estrae per far
l'allume del commercio. È un minerale che ha avuto una origine
eruttiva, e i massi di trachite semi-decomposta contenuti negli stessi
filoni portano a credere che quest'allumite della Tolfa sia stata egualmente
una trachite injettata nella prima per una seconda eruzione, poi metamorfosata
in allumite per reazioni chimiche. Sembra che questo cangiamento sia
derivato dalla stesso solfuro di ferro contenuto, il quale passato in
solfato abbia somministrato l'acido solforico alla potassa e all'allumina,
lasciando fuori di combinazione il ferro idrato.
Numerose cave sui monti di Allumiere dimostrano questi filoni.
B) Roccie sedimentarie metamorfiche.
22. Calcarie cristalline, bianche candide, a grana
fina come il marmo statuario, ovvero grossa e luccicante, per le faccie
dei cristalli di carbonato di calce compenetrati fra loro, che spesso
nelle cavità vedi sorgere in grosse romboidi, ovvero si vedono
convertite in masse bianche e traslucide le quali si frazionano in romboedri.
Il trovarsi questa riduzione in contatto colle roccie eruttive bastantemente
accennano alla causa della loro conversione. La diffusione poi di tale
riduzione, 1'intensità del metamorfismo, e la estensione per
via di vene serpeggianti nelle assise sollevate che si assottigliano
e scompariscono a notevoli distanze, dimostrano l'entità di tanta
operazione. Sui monti di Tolfa sembra che questo metamorfismo abbia
avuto un centro in quello spazio che intercorre fra il picco della Tolfa
e quello della Tolfaccia; imperocché quivi in seno alle calcatisi
cristalline si contiene sparsa e mescolata senz'alcun ordine una quantità
di sostanze metalliche, specialmente sotto forma di solfuri, o di carbonati,
accompagnati da fluorina, feldspati ecc. da far credere essere stato
un grande laboratorio chimico della natura. Ma di questi prodotti torneremo
a parlare in seguito.
23. Gessi. Finalmente fra le sostanze metamorfosate
si deve annoverare il gesso, risultante dalla conversione delle marne
subapennine in solfato di calce per una emanazione solforosa sopraggiunta,
la quale cacciò di combinazione l'acido carbonico per impadronirsi
della calce. Da questo metamorfismo ebbero origine le gessaje, quando
si presentano in estesi depositi. Sui monti di Tolta tali ammassi di
gesso si trovano alla base dei monti trachitici sulla quale riposano
i letti marnosi. Così si hanno entro il bacino tolfetano, all'Ara
vecchia, alle Spinare, a Pian dei Santi; sotto il castello del Sasso,
a Frassineto in prossimità dalle trachiti di Monterano e del
Monte Virginio, i gessi di Civitavecchia vicino alla Torre d'Orlando,
e quelli di Corneto, sulla sponda del Marta. Sono queste tante gessaje
usate per la edilizia.
Il seguente quadro sinottico farà meglio conoscere le roccie
ora enumerate.
I. ROCCIE STRATIFICATE
A. sollevate
Eocene |
|
1.
Calcarie argillose compatte, e pietre paesine
2. Calcarie argillose palombine: alberese.
3. Schisti galestrini o macigni |
Nemertiliti
Pesci e piante |
B.
fratturate o mosse
Miocene
sup
Pliocene inf.
id. medio
.id. sup.°
Diluviale
Glaciale
|
4.
Marne subapennine inferiori
5. Calcarie del Macco
6. Marne turchine
7. Sabbie gialle
8. Ghiaje e sabbie marine
9. Tufi vulcanici |
Ricca
fauna
id.
id.
id.
Resti elefantini
Vegetabili |
C. orizzontali
Alluvionali |
|
10.
Sabbie ferruginose marine
11. Breccie fluviali
12. Travertini
|
Fossili
quaternari
Numerose ossa
Fossili d'acqua dolce |
Moderna |
|
13. Depositi
in via di formazione |
Fossili viventi |
|
|
|
II.
ROCCIE IGNEE |
III.
ROCCIE METAMORFICHE
A. eruttive |
14.
Trachite |
19.
Caolino |
15. Ferro,
limonite, magnetite, oligisto |
20. Ocre |
16.
Lave vulcaniche |
21. Allunite
B. sedimentarie |
17. Zolfo |
22. Calcarie
cristalline |
18. Acido
carbonico |
23. Gessi |
Se
sopra una carta geologica si osservi la distribuzione dei colori indicanti
i diversi terreni che compongono la Tuscia romana, sembra che questi
siano irregolarmente sparsi e disordinati. Ma, se si presti attenzione
alla natura, giacitura, elevazione, e alle scambievoli relazioni di
quei stessi terreni, facilmente si vedranno ordinati in ragione delle
cause che ne determinarono l'esistenza. Essi sono il risultato di grandi
avvenimenti cosmici, o d'imponenti manifestazioni della possanza di
natura, di cui fu teatro quella regione dell'Italia centrale. L'abbozzo
di un quadro di tali fenomeni darà una prova di tale verità,
e farà meglio conoscere ciò che è la Tuscia romana,
rispetto alla storia fisica del globo. Durante lo svolgimento dell'epoca
eocenica correvano secoli tranquilli, i quali permettevano al mare compiere
regolarmente quella lunga serie di sedimentazioni che oggi vediamo rappresentate
dalle calcari, argille e macigni, sollevate dalla loro naturale orizzontalità
per costituire le più rilevate prominenze della Tuscia romana.
La regolarità di tali assise chiaramente si accorda colla calma
nella natura: ma la scarsezza dei loro fossili, ci concede appena argomentare
sotto quale aspetto si trovasse la vita nelle acque terziarie di quella
regione. Nondimeno si può dire che il mare eocenico veniva animato
da pesci cicloidi, da nemertiliti serpeggianti sopra un fondo tappezzato
di fuchi, e da altri prodotti marini. Però è da osservare
che fra i fossili delle calcarie alberesi si notano altresì reliquie
di piante terrestri come sono le muse, le dracene, le leguminose, le
quali accennano a qualche prossima isola, a meno che non vi fossero
trasportate da maggiori distanze, ossia dagli Apennini già esistenti.
In qualunque modo però possiamo ritenere che nell'epoca eocenica,
nella Tuscia romana ancora tutta sommersa regnava calma e serenità
nell'ordine di natura.
Ma non dovette essere così al declinare di quell'epoca, quando
non lievi turbamenti dovettero per gradi manifestarsi come precursori
di un gran cataclisma, già pronto a mettere a soqquadro tutta
intera l'Italia centrale. Una quantità di trachite dall'interno
della terra fu spinta ad attraversare la crosta terrestre trascinando
seco i brani delle roccie investite, fino ad emergere sul livello di
un tempestoso mare. Può ognuno immaginare da quali sconvolgimenti
fosse accompagnata un'operazione di tanta entità, quali tremendi
terremoti ne fossero i precursori, e come venisse manomesso il paese
fatto centro di una emanazione planetaria. Però il fatto è,
che il risultato di tanta catastrofe fu la comparsa dei monti tolfetani
colle impronte del sollevamento delle loro masse. E difatti un gran
corpo di trachite ne forma nocciolo, circondata dalle roccie eoceniche
raddrizzate all'intorno, metamorfosate dal contatto e attraversate da
filoni di ferro, che accompagnò l'eruzione medesima.
Ma non fu solo quello lo sbocco della materia eruttiva, giacché
allo stato di fusione nell'attraversare le fratture delle roccie di
sedimento vi si diffuse, e spandendovisi corse ad occupare un vasto
spazio, procurandosi altre uscite ausiliarie, e raggianti dal punto
centrale. Il più cospicuo di tali sbocchi secondari è
quello del Sasso. per la quantità di trachite traboccata, e sollevata
a notevole altezza sotto forma mammellonare. A questo succedono il Monte
Cimino, che segna il punto più prominente di tutta la Tuscia
romana; il Monte Virginio; quello della Tolfaccia; della Torre d'Orlando
ecc. A tali isolate prominenze, che rendono aspro e ineguale il suolo
etrusco, si devono altresì aggiungere quei frapposti rilievi,
costituiti dai brani delle roccie eoceniche spinti ad emergere lungo
il cammino sotterraneo dalla materia eruttiva, come sono le colline
di Monte Romano, i monti tarquiniensi gl'isolati rilievi di Barbarano,
s. Giovanni di Bieda ecc. Così veniamo a comprendere come sulla
superficie del mare etrusco, al finire dell'epoca eocenica, comparisse
un piccolo arcipelago per rappresentare i rudimenti della Tuscia romana.
Tuttavia una operazione così vasta, per la quale natura spiegò
forze straordinarie, venne a poco a poco a declinare e compiere la sua
parabola di svolgimento. Imperocché, dato sfogo ad una pletora
planetaria colla emissione di una determinata quantità di materia
eruttiva, l'equilibrio fu ristabilito e la contrada riguadagnò
la sua prisca tranquillità. Però la superficie del mare
non fu più libera; ma interrotta da prominenze emerse o da isole
di svariata grandezza.
Allora le nuove prominenze si rivestirono per la prima volta di uno
strato di vegetazione terrestre, per servire di nutrimento e ricetto
agli animali polmonati che concorsero a prenderne possesso e abitarla.
Frattanto nel mare si riordinavano le sedimentazioni mioceniche, che
si depositavano sulle radici dei monti emersi, e con esse si restaurava
la vita marina, perchè nuove generazioni si venivano svolgendo
colla diffusione di nuovi esseri sotto l'influsso climatologico di un'
epoca diversa. Nel bacino tolfetano non ci è dato studiare quei
fossili, perchè i sedimenti miocenici, furono alterati e guasti
da fatti cosmici a cui andarono soggetti dopo la loro deposizione. Ma
se quegli stessi strati si esaminino a qualche distanza, ove l'azione
metamorfosante non giunse, si vedranno quelle medesime assise piene
di conchiglie e zoofiti relativi a quell'epoca indicatori di calma.
Così passavano quei tempi che possiam dire di riposo o di tregua,
corsi per preparare segretamente una nuova fase eruttiva che non tardò
a comparire sul finire della stessa epoca miocenica. Fu una seconda
emissione di trachite quella che venne di nuovo spinta attraverso le
fratture della stessa massa centrale, prodotte dal suo raffreddamento,
senza traboccare all'esterno come fece la prima. Le osservazioni ci
danno tutto il motivo a credere, che questa seconda emissione di trachite
fosse accompagnata da una emissione solfurea, indicata dalla conversione
delle marne mioceniche in gesso, e dalle tante sostanze metalliche che
sotto forma di solfuri si rinvengano nel seno delle calcarie cristalline
in contatto colle masse eruttive, delle quali terremo parola nella terza
parte di questo discorso. Che poi una esalazione solfurea accompagnasse
la seconda eruzione di trachite si può facilmente argomentare
dagli stessi filoni di questa sostanza che per chimiche reazioni vennero
cangiati in allumite, come le marne in gessi. Sebbene dagli effetti
di questa seconda eruzione si dimostri essere stata impiegata minor
forza della prima, nondimeno fu bastevole ad imprimere ai monti un movimento
ascensivo generale, per il quale alcuni di essi si saldarono insieme,
e le deposizioni superiori del miocene ridotte in selenite furono messe
a giorno sulle radici dei monti. Questo scoprimento si rende apparentissimo
presso le Allumiere e nello stesso bacino della Tolfa all'Ara vecchia,
alle Spinare, a Pian dei Santi ecc.
Ma anche questa seconda operazione cosmica ebbe il suo fine al principiare
dell'epoca pliocenica. I tempi tornarono normali assumendo quella fisionomia
che le nuove condizioni dei tempi imprimevano tanto alle stratificazioni
sedimentarie quarto alla vita degli esseri. Nella scala dei sedimenti,
figurano come primi depositi del pliocene, potenti banchi di una calcaria
grossolana, compatta o farinosa, bianca ovvero inquinata di ferro, con
amfistegine, che si conosce col nome volgare di Macco, corrispondente
al terreno Zancleano o Messiniano di Seguenza. Questi sono pieni di
fossili fra i quali trionfano, o si fanno caratteristici sotto forme
gigantesche, il Pecten latissimus Broc., il Pecten fiabelliformis Lk.,
l'Hinnites Cortesi Defr., il Balanus tintinnabulum Lin. Però
presso di noi queste calcari sono ristrette alla costa tirrena, dove
a luogo a luogo si fanno scorgere più o meno rilevate e prominenti.
Esse formano il Capo d'Anzio; poi ricompariscono sfiorando sulla spiaggia
di Palo e Civitavecchia, infine s'innalzano per formare la collina sulla
quale è posta la città di Corneto.
Ovunque poi vogliansi esaminare queste assise, si troveranno sempre
rotte e spostate per effetto di commozioni telluriche, specialmente
nella prominenza cornetana, ove la giacitura gravemente alterata più
che in qualunque altro luogo fa sospettare essere stato questo un centro
sismico, dal quale le ondulazioni si diffusero a grandi distanze. Di
modo che crediamo non errare nel ritenere che la Tuscia romana, dopo
la deposizione del pliocene inferiore, fu per la terza volta agitata
e manomessa da un periodo di tremendi terremoti. Ma non basta perché
un confronto fra le calcarie cornetane, che rappresentano le prime sedimentazioni
dell'epoca pliocenica sollevate insieme alle marne gessose del miocene
superiore, e le assise del pliocene medio restate orizzontali ad un
livello più basso, fa argomentare altresì che a quell'epoca
tali calcarie furono sollevate fino ad emergere sul livello del mare
e comparire sotto la forma di una nuova isola per essere aggiunta all'arcipelago
etrusco. In questo stato di cose anche il periodo sismico venne a declinare
gradatamente per lasciar finalmente libera l'Italia centrale in tutto
il restante dell'epoca pliocenica. Le marne e le sabbie che succedono
alle calcarie cornetane, non solo si mostrano orizzontali ed intatte,
ma altresì con faune così ricche da non errare nel giudicarle
parallele allo marne della Farnesina presso Roma, rappresentanti il
pliocene medio, e alle sabbie gialle del Monte Mario già tanto
cognite, come spettanti al pliocene superiore. Laonde ne viene la conseguenza
che il periodo sismico a quei tempi era già finito, e che in
tutto il restante dei tempi terziari nessun turbamento verificossi nell'ordine
di natura.
Se non che dallo studio di quei fossili risulta che dopo i terremoti,
un lento e graduale abbassamento di temperatura faceva cangiar fisionomia
alle successive faune fino al declinare del periodo terziario, quando
la serenità del cielo tornò a turbarsi, per divenire fosca
e tempestosa. Difatti nell'ascendere la scala delle roccie sedimentarie,
le stesse sabbie gialle fossilifere si vedono. ingrossare e convertirsi
in ghiaje e breccie, indicanti trasporto torrenziale, e mare agitato.
Così finisce il periodo terziario ed esordisce il quaternario.
Il Monte Mario sulla costa etrusca della gran valle tiberina, mostra
scoperta tutta la scala subapennina, da cui si argomenta che alla calma
pliocenica succedettero nuovi turbamenti cosmici. Imperocché
se le fine sabbie gialle accennano ad un mare in bonaccia, le sovraincombenti
breccie prive di fossili marini accusano un movimento nelle acque, capace
di rimuovere e trasportare materiali più grossi per distenderli
sulle precedenti sabbie. La causa di tali cangiamenti devesi ricercare
sui monti, conciossiaché le burrascose pioggie cadute sulle loro
altitudini, dando origine a precipitosi torrenti, trascinarono giù
una enorme quantità di ciottoli, che consegnati all'attrito di
un mare in tempesta, vennero logorati e ridotti in breccie. Tale è
il carattere che assume la prima epoca del periodo quaternario, di cui
si trovano le traccie anche nella Tuscia romana, e che perciò
prese il nome di epoca diluviale. La comparsa di tante pioggie fu certamente
l'effetto di una esterna depressione del calorico, per cui i vapori
acquosi condensandosi nel seno dell'atmosfera si convertirono in acqua.
Ma questa causa immediata, sempre più avanzando, rese quei tempi
così disgraziati e climaterici, che non poco ebbe a soffrire
la vita degli esseri assoggettati ai più duri trattamenti dalla
stessa natura. Se si ricercassero i fossili nelle breccie diluviali
si vedrebbe che la fauna, tanto ricca nelle precedenti sabbie gialle,
è totalmente scomparsa. Conciossiaché le fragili conchiglie,
i delicati zoofiti e tutti gli altri animali e piante marine non reggendo
al perenne attrito furono tutti uccisi e distrutti. Che se qualche fossile
pur vi si rinviene, questo si riferisca a quei grossi pachidermi che
vivendo ancora sugli Apennini furono rapiti e dispersi dalle correnti.
Laonde qualche volta vi si osservano ossa elefantine, con tutti i segni
di un lungo trasporto, o di altri animali spettanti alla fauna pliocenica
manomessa dalle tremende burrasche diluviali. Ma la depressione del
calorico, che fu capace di tanti disastri, lungi dall'arre¬starsi,
sempre più avanzava, fino a che giunse il punto in cui le acque
si conver¬tirono in nevi. Ed ecco un gran cangiamento di scene sul
teatro del mondo: ecco il principio dell'epoca glaciale, che succede
alla diluviale: ecco i più alti cuspidi montani che incominciano
a rivestirsi di nevi perpetue ecco i ghiacciai che ne discen¬dono:
ecco i massi erratici, colla formazione delle morene.
Ora sorge un altro quesito: se, cioè, in tanto disordine di superficie
poteva il pianeta terrestre restare impassibile? No certamente, perché
la sua vitale attività tanto sensibile al mantenimento dell'equilibrio
dovea rispondere e reagire. Le osservazioni dicono che a quell'epoca
un generale e sfrenato vulcanismo irrompendo in ogni dire¬zione
si manifestò su tutta la terra, in guisa che, mentre questa era
rivestita di ghiacci, trasudava fuoco per tutti i suoi pori. Avvenimento
salutare per la vita degli esseri di quei tempi; che nella grande distruzione
della fauna pliocenica l'irraggiamento del calorico terrestre concesse
a taluni di loro poter superare il periodo gla¬ciale e così
figurare nella fauna moderna. Tali sono gli elefanti, gli ippopotami,
i rinoceronti, i cervi, le jene ed altri, che vivono ancora presso di
noi.
Da tali fatti si ricava che il cataclisma vulcanico-glaciale fu il più
vasto dei tempi più vicini a noi, e fu quello che, avendo messo
a soqquadro tutta intera la faccia del globo, diede l'ultima. mano alla
figura geografica che tuttora rnanifesta. Queste dottrine non sono nuove,
essendo state altra volta da me esposte (1), però ho creduto
rammentarle per farne più chiaramente l'applicazione alla Tuscia
romana, di cui sto trattando. Le indagini e i confronti pertanto, fatti
sulle assise della nostra scala stratigrafica, ci portano a stabilire
con piena sicurezza, che i conglomerati vul¬canici o i tufi sovrastanti
alle ghiaje diluviali, rappresentano netta l'epoca glaciale, e sul piovente
tirreno dell'Italia centrale tengono il posto del terreno morenico delle
regioni sabalpine, mancanti dei sedimenti vulcanici. La zona dei tufi
vulcanici è potente ed estesa, e le materie costituenti sono
scorie, lapilli, ceneri, pezzi di lave, e roccie erratiche, evidentemente
eruttate da quelle medesime bocche che coronano la sommità dei
tre coni di dejezione, Vulsinio, Cimino e Sabatino, compresi in tutta
l'estensione della Tuscia romana. Questi furono vulcani sottomarini,
e perciò le loro materie eruttate, date in preda alle onde, ven¬nero
diffuse sul fondo di un gran golfo, sulla normale del quale sono schierati
i tre accennati crateri, sostenuti dai loro rispettivi coni di dejezione,
parallelamente al corso del Tevere. Di modo che se si eccettui la parte
occupata dai monti trachitici, tutto il resto della Tuscia romana, ancora
sommersa, venne ricoperta dai tufi vulcanici distesi fino alle più
lontane spiaggie. La violenza spiegata, ovvero la intensità delle
forze impiegate in quel periodo di terrestre vulcanicità, deve
essere stata sorprendente. Imperocché i numerosi crateri aggruppati
sulle prominenze dei coni, dai quali traboccò tanta quantità
di materie, e gli stessi sprofondamenti dei bacini Vulsinio e Sabatino,
prodotti da sventramento di materie sottratte, non solo accennano alle
più gagliarde eruzioni, ma altresì alle numerose intermittenze
ripetute per secoli. E in verità, se il vulcanismo etrusco fu
suscitato dal freddo glaciale, la sua vita deve aver durato finché
si mantenne la causa produttrice; cioè tutto il tempo dello svolgimento
dei ghiacciai, fino al loro più avanzato ritiro.
Se poi si rivolga l'attenzione alle condizioni climatologiche che regnarono
in questa parte dell'Italia centrale nel decorrere del gran periodo
vulcanico, non sarà difficile argomentare dalla stessa giacitura
dei banchi delle materie eruttate, o dei tufi, che il mare sotto il
quale esplodevano i fuochi terrestri dovette trovarsi in continua tempesta
specialmente nelle più violente emissioni. Questo stato di tremende
agitazioni portò la distruzione di tutti i suoi abitatori, o
la scomparsa della vita marina. Avvegnaché gli scarsi fossili
che fin qui sono stati notati nei tufi vulcanici si riducono a reliquie
elefantine, e di vegetabili terrestri, che come nelle sottostanti breccie
diluviali scesero dai monti convogliate dai torrenti. Mentre queste
scene di sconvolgimento accadevano nel mare, la sovrastante atmosfera,
ove irregolarmente irraggiava tanto calorico insieme ad enorme quantità
di vapori, non potea certamente restare tranquilla. Laonde fatta sede
delle più intense burrasche dovette scaricare sulle terre emerse,
agitate dalle più intense oscillazioni sismiche, rovesci d'acqua
tremendi, dai quali venivano generati impetuosi torrenti, capaci di
mettere a soqquadro tutto ciò che incontravano per via. In questo
modo l'intera natura sdegnata dava le prove più ampie della sua
illimitata possanza, nello svolgimento parabolico del gran cataclisma
vulcanico-glaciale. Giova poi far notare che, le assise dei tufi vulcanici
sono le ultime nella scala delle deposizioni marine , e perciò
si deduce, come conseguenza necessaria, che tali e tante furono le violenze
esercitate nell'ascensione delle lave attraverso i cunicoli vulcanici,
che il suolo dovette lentamente sollevarsi, tutto intiero e senza alterare
la sua forma. Laonde prime a comparire sulla superficie di quel mar
tempestoso dovettero essere le sommità dei coni di dejezione
sotto l'aspetto d'isole vulcaniche eruttanti, le cui basi sempre più
dilatandosi finirono col mettere in secco tutto intero il paese.
Ma tanta catastrofe, che per la quarta volta giunse a manomettere la
Tuscia romana, condotta dalla depressione della temperatura terrestre,
al rallentarsi di questa dovette eziandio declinare, ed insieme a quella
arrestarsi. Imperocché al rielevarsi della temperie, dato sfogo
alle interne congestioni, dovea il pianeta riprendere il suo stato normale.
Ed ecco incominciare un'epoca nuova, caratterizzata da fatti ben diversi
da quelli fino allora avvenuti: ecco cangiata scena. Il fuoco terrestre
dopo aver tanto scorazzato nella Tuscia romana, scomparve lasciando
in quella regione lente e tranquille emanazioni di acido carbonico,
e di vapori solfurei, quali reminiscenze del suo lungo soggiorno. Ma
non per questa si arrestò l'attività vulcanica della terra,
giacché trasferita nel Lazio, diede principio ad un altro distinto
periodo di vita eruttiva,
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