La
Tuscia Romana e la Tolfa.
Memoria del Socio PONZI
letta nelle sedute del 4 marzo, 8 aprile, 6 maggio e 3 giugno 1877.
INTRODUZIONE
Sulla estensione dei continenti come sulle isole, che
interrompono la continuità dei mari, s'incontrano sovente certe
regioni, le quali, sia per accidentalità di terreno, sia per discordante
fisionomia col circostante paese, sia per la diversa natura del suolo,
presentano un carattere tutto particolare, che richiama l'attenzione del
geologo, sempre diretta alla ricerca dei grandi fenomeni di natura. Tali
sono quei punti verso i quali le forze concentrate del pianeta si diressero
e li fecero teatro dei più sorprendenti avvenimenti, lasciandovi
le traccie indelebili del loro tremendo passaggio. Una di queste contrade
presso di noi è la Tolfa; paese formato da un gruppo di monti che
lungo il littorale tirreno sovrastano i paraggi di Civitavecchia, e che
sebbene poco rilevati, pure danno a scorgere essere stati prodotti da
meravigliose e straordinarie operazioni cosmiche. La svariata quantità
di minerali, la magnificenza delle loro cristallizzazioni resero celebre
quel paese, e perciò nei passati tempi non solo fu visitato dai
curiosi della natura, ma altresì da speculatori industriali. Al
finire del passato secolo, ed al principio del nostro, scrissero sulla
Tolfa, Arduino, Fortis, Breislak, Brocchi; ma la geologia in quei tempi
trovandosi ancor minorenne, navigava in acque basse, né peranche
si era lanciata a veleggiare in alto mare, come ha potuto fare dopo di
loro. Laonde gli studi da essi publicati si ridussero a semplici osservazioni
locali, e sulle roccie raccolte. Non mancarono però in appresso
a peregrinarvi geologi stranieri di bella fama, a fine di conoscere i
prodotti utilizzabili: ma nessuno fin qui spese parole che potessero soddisfare
i desideri della scienza. Cosicché si può dire che quella
interessante contrada attende ancora una illustrazione capace di farla
giustamente apprezzare.
È vero che la curiosità di conoscere i monti della Tolfa
presto si destò anche in me, e per iscoprirne la natura e l'origine
vi passai molti anni in ricerche ed osservazioni. È vero anche
che in quelle peregrinazioni raccolsi molto materiale scientifico, ma
ciò non tolse che avvenisse a me quel che suole accadere anche
ad altri, cioè, che per avere il meglio si trascura il buono, e
perciò nell'intenzione di accrescere il numero delle nuove cognizioni,
tenni in serbo le già acquistate, né ho mai messo fuori
un resoconto del mio operato. Ma ora, per ragione di età, non essendomi
più permesso trascorrere alpestri contrade, non v'ha più
ragione d'indugio, né posso più in coscienza defraudare
la scienza, col correre rischio di mandare all’oblio ciò
che le spetta. Così raccolgo le reti, e metto fuori il raccolto,
qualunque sia, per farlo di pubblica ragione.
Dovendo dunque tener parola di ciò che feci, mi conviene avvertire
il lettore che in una impresa di tal natura, per quanto abbia lavorato,
il risultato ottenuto non è tale che non lasci ancora molto a desiderare.
Imperocché lo studio della natura è inesauribile, e ad ogni
passo sorgono nuove manifestazioni, nuovi portenti. Tuttavia mi faccio
coraggio, e affronto l'impresa con una esposizione geologica di quella
interessante regione, rimettendo lo studio speciale dei minerali ad un
altro lavoro, o a chi verrà dopo di me. Prima però di porre
mano a questa qualunque sia si opera devo premettere che le operazioni
di natura che sto per trattare furono così grandi, svariate e ripetute,
che non si limitarono soltanto ai monti tolfetani, ma, diffuse in un'area
vastissima, che comprende quasi tutta la Tuscia romana, misero a soqquadro
un gran tratto del suolo subapennino. Cosicché per conoscere la
Tolfa conviene abbozzare un quadro generale di tutto il paese che dovetti
percorrere, onde completare per quanto mi è stato possibile il
concetto che dobbiamo farci di quella contrada italiana. Ciò posto,
ecco il mio programma. Divido il lavoro in quattro sezioni: nella prima
parlerò di geografia; però solo di quelle parti che conferiscono
al fine proposto, cioè della orografia, della idrografia, e delle
perenni alterazioni a cui vanno soggette le prominenze: nella seconda
della geologia per far conoscere i diversi terreni che costituiscono quella
contrada e la sua storia fisica: nella terza, meglio tratterò e
con maggior dettaglio delle operazioni di natura nella produzione dei
monti della Tolfa: nella quarta in fine darò un cenno di ciò
che fece l'umana industria dei suoi minerari prodotti.I. GEOGRAFIAL'area che forma il soggetto di questo lavoro scientifico
è quella parte della zona subapennina, che nell' Italia centrale
intercorre fra la catena dei monti Sabini e il littorale tirreno. Essa
è compresa fra il corso del fiume Fiora e l'ultimo tronco del Tevere:
vale a dire si distende in lunghezza da Roma al confine toscano e in larghezza
dalle radici apennine al mare. Questa regione, sede una volta della dominazione
etrusca, fu conquistata per essere assorbita nel gran mondo romano, e
perciò nel medio evo ebbe il nome di Tuscia romana. Passata poi
a far parte delle provincie del patrimonio di s. Pietro, restò
governata dai pontefici fino a che venne riunita al Regno d'Italia, e
tuttora compresa nella provincia di Roma. Noi stimiamo meglio in questo
lavoro lasciarle il nome medioevale di Tuscia romana, perchè ci
sembra il più esclusivo degli altri che ha portato, come anche
perchè rammenta la sua primitiva origine. L'area etrusca, come
l'abbiamo circoscritta, può essere distinta nella sua lunghezza
in due zone: una esterna o littorale che comprende i monti tolfetani,
l'altra interna, depressa intercorrente fra questa e gli Apennini. Però
convien dire ché, se si eccettuino i monti di Tolfa per la loro
sporgenza, tutto il restante paese è basso e gibboso qual si conviene
ad un fondo di mare messo in secco. Per questa forma geografica generale
il gruppo tolfetano sorge come un antemurale di fronte alle catene apennine
da cui dista per la zona interna. La posizione poi di questi monti e la
stessa loro natura portano a considerarli come un brano distaccato della
catena littorale tirrena, o una continuazione della metallifera di Toscana
, di cui da prova l'intercorrente Monte di Canino, che fa pensare ad una
segreta o sotterranea continuità.
Dati questi generali cenni, dovendo ora scendere ad una più minuta
descrizione delle parti costituenti la Tuscia romana, credo pregio dell'opera
pregare il lettore che, a maggior intelligenza di ciò che siamo
per dire, sarebbe bene avesse sotto gli occhi la carta di tutto il paese
preso ad esame, perchè in astratto e senza il soccorso della vista
ne sarebbe difficile l'intelligenza. Una grafica esposizione fa meglio
risaltare la mutua relazione delle parti, da cui deriva la forma generale
del suolo.
Disposte in tal modo le cose, salta subito agli occhi, non solo un apparente
disordine nel gruppo dei monti tolfetani; ma altresì la loro separazione
e isolamenti a distanze diverse, da dare l'idea di un piccolo arcipelago.
E sì che tale dev'essere stato quando ancora le bassure subapennine
erano sott'acqua, la quale poi scolata per lenta e generale emersione,
tutti quei colli si fusero insieme da risultarne un gruppo rilevato sulle
spianate subapennine. Però è da notare che il fiume Mignone
coi suoi serpeggiamenti, nell'attraversare quelle giogaje in epoche etrusche
segnò il confine fra due lucumonie, separando a destra quella di
Tarquinia, corrispondente al moderno Corneto, a sinistra quella di Cere,
rappresentata oggi dalla città di Cerveteri o Cere vetus e per
tale ragione i primi sono appellati Tarquiniensi, gli altri Ceriti o Ceretani.
Questi costituiscono la massa maggiore, o i monti della Tolfa propriamente
detti , che potrebbero essere altresì distinti in due parti dal
corso del Rio-fiume diretto a separare le colline del Sasso; ma di questa
distinzione non terremo conto perchè in verità non è
molto marcata. Ora per servire meglio alla chiarezza fa d'uopo procedere
con ordine, e tracciare i maggiori rilievi tenendo dietro alla linea dello
spartiacque della massa tolfetana, per passare poi alle parti più
depresse o alle valli percorse e segnate dal corso delle acque. Quella
linea adunque di cui teniamo parola s'incomincia a scorgere sui monti
di Cerveteri dai quali s'innalza per raggiungere il castello del Sasso,
alto sul livello del mare m. 429. Da questo punto i monti si dilatano
declinando a ponente verso la spiaggia, e risalendo a levante per formare
quella specie d'anfiteatro che dicesi la Vallascetta sul piovente nella
Lenta. Dalla parte più rilevata di questo cerchio si spiccano due
bracci: uno va a formare il Monte Castagno, l'altro Montisolo, che camminando
fra ponente e tramontana finiscono col riunirsi e scendere a quella punta
sulla quale venne eretto il casale di Rota, a cavaliere del Mignone sotto
la Tolfa. Le altitudini dette della Sconfitta, dalle quali ha origine
il Rio-fiume, legano la massa del Sasso con quella della Tolfa, e il Monte
Ghiande, che n'è la continuazione, serve di contrafforte per sostenere
le due eccelse punte delle Spiaggie e della Tolfaccia o Tolfa vecchia,
alta m. 591,5. Da quelle sommità si precipitano nel bacino di Tolfa
altri contrafforti, mentre sull'opposto piovente scendono i monti di s.
Caterina fino al mare col Monte Rosso e Prato Rotatore. Dalle altitudini
della Tolfaccia lo spartiacque si abbassa fra ponente e tramontana per
raggiungere il Poggio Ombricolo alto m. 544. Da qui si spicca un braccio
che facendo argine al corso del Marangone, declina verso il lido, spingendosi
entro mare con quella punta sporgente che dai naviganti vien detta Capo
Linaro, fra la foce del Tevere e il porto di Civitavecchia. Altri speroni
sorreggono il procedimento di quei monti parallelamente alla spiaggia,
producendo al di là di Civitavecchia il Monte Rotondo e il Poggio
Turco. Dal lato interno di Poggio Ombricolo si trovano i Poggi della Stella,
dai quali si stacca quella depressa catena di piccoli colli che ne conservano
il nome, e che in linea retta vanno a metter capo al Monte della Tolficciola
fra la Tolfa e la Tolfaccia. Lo stesso Poggio Ombricolo poi, avanzando
verso la Croce di Bura, risale per formare la più elevata parte
delle prominenze tolfetane cioè i monti delle Allumiere. Fra essi
fa mostra maestosa il Monte delle Grazie alto m. 615, così detto
da una cappella dedicata alla Vergine, che sovrasta il villaggio delle
Allumiere, visibile da tutti i lati, specialmente dal mare. Però
non è questo il punto culminante, perchè vien soverchiato
dalla catena dell'Elceto, che gli sorge di fronte, e che s'innalza fino
al Monte Urbano, detto anche di Cibona da un convento posto a mezza costa,
il cui cuspide trovasi a m. 622 sul livello del mare. Da questo punto
la cresta declina fino all'ultima prominenza, ossia al Pico della Tolfa
propriamente detto, appellato Monte della Rocca dai ruderi di un antico
castello che sovrasta la città, alto m. 563,8. È un mammellone
di forma conica isolato avanzato a dominare tutto il sottostante bacino
tolfetano.
Dal Monte delle Grazie si continuano altre giogaje lungo le vecchie cave
dell'allume, che camminando col Monte Fischio verso la punta della Chiesaccia
formano una costa dirupata sulla quale si nota il Monte Casalavio. La
cresta si dilata in un largo altipiano che degrada verso settentrione
fino a raggiungere il corso del Mignone, o le selvose prominenze di Palano,
sulle quali sono i ruderi dell'antica Leopoli, oggi Cencelli, città
del medio evo che ha servito di rifugio agli abitanti di Centocelle, o
Civitavecchia nelle incursioni dei Saraceni. Tutta quella distesa si compone
di gibbosità più o meno depresse e svariate, che danno al
suolo un aspetto particolare. Nel centro di questi monti è aperto
il bacino della Tolfa, ossia una vasta cavità, che sarebbe del
tutto chiusa, se nel suo fondo non avesse due aperture attraversate dal
Mignone per portar via gli scoli. Il vasto catino è fiancheggiato
a destra dal Monte Casalavio e le coste del Marano, a sinistra dal Monte
Castagno, e di fronte dal mammellone della Rocca. Tutto il fondo è
ricoperto di terreno subapennino, introdotto per le suddette aperture,
su cui è disteso tutto il sistema idraulico del Verginiese che
ne raccoglie le acque per versarle nel Mignone stesso sotto Rota. Una
strada provinciale che da Civitavecchia conduce a Bracciano scavalca nella
parte più rilevata tutte quelle prominenze etrusche. Essa risale
serpeggiante fra aspre giogaje fino a che, superato lo spartiacque delle
Allumiere, scende attraverso la città della Tolfa, e così
guadagna l'interno del suo bacino. Poi descrivendo una gran curva ne raggiunge
il fondo e per la sponda sinistra del Mignone esce dallo stretto di Rota,
e si dirige a Bracciano passando per Montanciano e Manziana. Tale è
la massa dei monti Ceriti sulla sponda sinistra del Mignone. Quelli di
destra, o i tarquiniensi, si compongono di giogaje di minor conto, però
divise e isolate fra loro per distanze ineguali, la maggiore delle quali
occupa tutto lo spazio compreso nella curva che fa il Mignone girandogli
attorno da Viano a Rota. Questa bassa congerie di rilievi calcarei non
si alza più di m. 550, e si avanza verso Montisola per lasciare
quell'angusto e tortuoso canale, che abbiamo già detto, percorso
dal fiume Mignone per introdursi nel bacino della Tolfa. Passaggio reso
tanto più angusto da vari brani di scogliere distaccate, fra le
quali il fiume è obligato a descrivere un movimento serpentino.
Un altro di questi lacerti rocciosi chiamato Pian Cisterno, vedesi altresì
avanzato nel fondo dello stesso bacino, e sovra di esso si rinvengono
le vestigia di una antica città etrusca di cui non si conosce il
nome. All'estremità settentrionale di questo corpo di prominenze
tarquiniensi si trovano erette Viano e Civitella Cesi. Altri monti spettanti
a quella lucumonia si vedono sparsi come tante isole più o meno
grandi e distanti. Tali sono le altitudini di Monte Romano scavalcate
dalla strada che conduce a Viterbo: quelle poste a fianco di Barbarano,
e le prossime a s. Giovanni di Bieda: il Monte s. Elia fra Barbarano e
Capranica: un' altra isola vicino Vetralla, e l'ultima che sorge presso
Sutri. Con queste terminano le maggiori prominenze che danno un aspetto
speciale alla zona littorale.
Però non si deve credere con ciò, che la zona interna della
Tuscia romana manchi dei suoi rilievi. È vero che chi si aggira
per quelle campagne altro non vede che leggiere gibbosità o una
ondulazione che indica un fondo di mare messo in secco. Ma se si fissi
l'attenzione al portamento delle acque, sarà facile comprendere
che tutto il suolo di quella zona si risolve in tre larghissime prominenze
o coni depressi, perchè i torrenti scendono sulle loro circolari
pendenze. Tali rilievi sono contigui e allineati nella generale direzione
della penisola, ossia scorrono paralleli agli Apennini, come fanno tutte
le altre parti componenti l'Italia. Ciascheduno di quei coni nella sua
sommità sostiene un bacino contenente acque lacustri, conosciuto
coi nomi di Bolsena o Vulsinio, di Vico o Cimino, Sabatino o di Bracciano.
Da questa configurazione del suolo si crede comunemente che quei crateri
rappresentino tre vecchi vulcani estinti; ma le osservazioni lo negano
in gran parte, imperocché ci avvertono che solo quello di Vico
o il Cimino ne presenta i caratteri: gli altri non sono che sprofondamenti
prodotti da sventramenti vulcanici, a fianco dei quali si rinvengono i
veri crateri eruttivi. Il primo di quei bacini lacustri, o il Vulsinio
è il più vasto, e presenta una figura irregolare che si
approssima alquanto alla trapezoidale. Il suo ciglio verso mezzogiorno
è depresso per dar transito alle acque; però vedesi che
da questa bassura i monti si rialzano all'intorno per formare il ciglio
del gran catino fino ad una prominenza conica che ne segna il punto culminante.
Questa è il Monte Falisco o Montefiascone, alto m. 613,75. Le interne
pendenze del bacino sono rapide e scoscese, e perciò in taluni
siti rendono le sponde del lago aspre e scogliose. In seno al lago sorgono
due isolette una detta Bisentina, l'altra Martana perchè dirimpetto
ai paesi omonimi. Sulla sommità di questo gran cono Vulsinio, prima
che precipitasse, sembra che esistessero veri crateri di eruzione; imperocché
l'isola Bisentina, che sembra un brano di quella demolizione, mostra avanzi
di correnti di lave scaturite da qualche prossima bocca eruttiva. A ponente
e sul ciglio del gran bacino trovasi il cratere di Mezzano, forse il più
considerevole di tutti gli altri ora esistenti. Fu una vera bocca di eruzione,
di convenienti dimensioni, nel cui seno sorge un altro monte denominato
il Montione legato al Monte Rosso, aperto a settentrione in una cavità
semicircolare che sembra risultare dal disfacimento di due geminati crateri.
In seno di essi si raccoglie il piccolo lago di Mezzano da cui prende
origine il fiumicello Olpita, che girato attorno le radici del Montione,
e trovata una uscita corre a scaricarsi nel Fiora sul confino toscano.
Altri crateri s'incontrano sulla periferia del gran bacino: come sono
il Monto Rado presso Bagnorea, Capo di Monte, il Laguccione fra Marta
e Valentano, lo stesso Monte Jugo sulla via di Viterbo, ed altri, taluni
dei quali non peranco ben determinati. Da tali bocche di soccorso furono
vomitate tutte le lave che ad ogni passo s'incontrano nel percorrere quelle
contrade, fra le quali si distingue quella corrente basaltina, prismatica
fra Montefiascone e Bolsena , detta delle pietre lanciate, e troncata
dallo sprofondamento. Le esterne pendenze del gran cono Vulsinio hanno
sempre una dolce inclinazione, assumendo la fisionomia dei subapennini,
tanto verso il Tevere, quanto dal lato che insensibilmente degrada verso
la spiaggia. Il secondo cono, che succede al Vulsinio, è il Cimino,
nome tratto dal monte che s'innalza alla sua prossimità. Sebbene
più piccolo degli altri, nondimeno è aperto in un vero cratere
di eruzione la cui cresta circolare si è meglio conservata degli
altri. Il punto culminante di questo cerchio è il Monte di Fogliano
alto m. 975; e la sua profondità si rende tanto più sensibile
per le sue gronde interne dirupate o scosceso sul lago contenuto. Nel
centro di questo cratere sorge un monte conico isolato detto Monte Venere,
elevato fino a m. 883, e più alto del ciglio della cavità
che lo comprende. Le osservazioni però ci fanno sospettare, che
questo monte abbia fatto parte della divisione fra due crateri geminati
demoliti e ridotti dall'abrasione.
Gli esterni pioventi al solito poco inclinati formano il dorso e i fianchi
del cono. Però è da notarsi che sull'alto della sua gronda
settentrionale s'innalza il Monte Cimino o di Soriano, di forma conica
isolata, il cui cuspide è alto m. 1056,57. Questo segna il punto
culminante di tutta la Tuscia romana, perciò da tutti i lati si
vede rivestito di densa foresta. Un prolungamento di tale prominenza va
a connettersi col ciglio del cratere, mediante un istmo detto la Montagna
di Viterbo attraverso il quale passando la via Cassia vi trova la Posta
e l'Osteria della Montagna. Del resto il terreno scende uniforme, leggiero
e declive senza alcun indizio di bocche ausiliarie o crateri di soccorso.
Questo vulcano probabilmente ebbe una vita più breve ed è
il più giovane degli altri. Passando ora al terzo cono, che prende
il nome dell'antica Sabatia sostituita dall'attuale Bracciano, come il
primo o il Vulsinio, ha la sommità sprofondata da cui risultò
il bacino lacustre. Offre una forma quasi circolare, a pareti in qualche
luogo dirupate sul sottostante lago. Il rilievo che gira attorno, e che
ne forma il ciglio, risale a settentrione colla Rocca Romana alta m. 615,
per poi discendere e continuare fino alla sgolatura che a fianco del paese
di Anguillara, l'antica Angularia, da passaggio all'emissario del lago.
Anche in questo le pendenze esterne offrono i caratteri degli altri due
coni: Senonchè a ponente e prossimo al ciglio del gran catino sorge
il cospicuo Monte Virginio, detto anche della Manziana per una città
eretta al suo fianco, alto m. 540, sulla cui punta venne eretto un eremo
denominato il Calvario, che fa parte del famoso convento dei Teresiani
detti di Monte Virginio.
Come sul cono Vulsinio, sulla periferia dello sprofondamento che costituisce
il bacino Sabatino, si trovano i veri crateri di eruzione, dei quali il
lato settentrionale è il meglio fornito. Quivi una serie di bocche
eruttive si spiegano in catena lungo il corso di una fenditura terrestre
rappresentate dalla Valle di Polline, dal laghetto quasi asciutto di Stracciacappe,
corrispondente all'antico Papirianus, dal lago Alseatino, oggi di Martignano,
dalla valle di Baccano, e dalla grande conca che si apre sotto Scrofano.
Oltre questi, altri crateri si notano in varie direzioni. Alle radici
di Bocca romana trovasi il piccolo cratere di Trevignano, l'antico Trebonianum,
aperto perché le acque del gran lago Sabatino vi entrino per formarvi
un seno. Dietro quello stesso monte un altro cratere porta il nome di
Valle-rotonda, e fra Bracciano e Anguillara s'innalzano le vestigia di
un altro ingente cratere detto di Vigna di Valle, troncato come quello
di Trevignano, forse dallo stesso sprofondamento. Fra tramontana e levante
del lago Sabatino sorge distinto il Monterosi alto m. 364, per far contrasto
alla Rocca Romana, alle cui radici un piccolo cratere contiene le Aquae
Janulae, detto oggi laghetto di Monterosi, a fianco della via Cassia.
Finalmente altri rilievi formati da crateri disfatti si trovano attorno
il lago Sabatino, i quali aggiunti agli spandimenti di numerose lave scaturite
da tutti quei crateri, accennano ad una vita vulcanica prolungata per
secoli. A compiere il novero delle prominenze che rendono aspra la Tuscia
romana, occorre indicare due altri monti isolati, e posti alle due estremità
di quella contrada, quasi due termini. Uno di questi a settentrione è
il Monte di Canino, distaccato dai monti toscani, per indicare una combinazione
sotterranea fra questi e il gruppo dei monti della Tolfa. È alto
m. 432, e si compone delle stesse roccie alle quali fa seguito. L'altro
a mezzo giorno è il Monte di s. Oreste, corrispondente al Soratte
degli antichi; prominenza isolata alta m. 681, e di forma allungata come
una piccola catena, indicata dalle roccie costituenti, come un brano distaccato,
dagli Apennini che gli sono di fronte. Esaminate le prominenze, ragion
vuole che abbiansi ad esaminare le depressioni del suolo o le valli che
insieme ai monti contribuiscono a dare il carattere geografico alla Tuscia
romana. Tutti sanno che le acque tendono costantemente a fluire nei luoghi
sempre più bassi per trovarsi una strada più breve al loro
cammino. Da ciò avviene che i fiumi segnano le maggiori profondità
di una contrada o le valli, che fanno contrasto alla sporgenza dei monti;
laonde fa d'uopo rivolgersi alla idrografia siccome quella che meglio
e più chiaramente traccia le parti più depresse di quell'interessante
paese.
Il posto dalla natura assegnato alle acque è il mare contenuto
in distinti bacini, dalla superficie dei quali l'acqua esala continuamente
in vapori, che raccolti nell'atmosfera sotto forma di nubi, sono spinti
dai venti sulle terre messe in secco, dove attratti dai cuspidi montani
ad una bassa temperie si risolvono in pioggie che cadono per inaffiare
il suolo, provvedendo così al mantenimento della vita terrestre.
Dalle altitudini dei monti pertanto si precipitano nelle convalli sotto
forma di torrenti, e ripartit in ragione della forma del suolo che trascorrono,
si riuniscono per costituire i sistemi idraulici dei fiumi. Incontrato
un bacino lo riempiono e, colmatolo, ne escono con un fosso emissario
che associato agli altri convogliano alla fine tutte le acque fino a versarle
nel mare, il quale col suo moto ondoso non cessa mai di flagellare le
coste. Sotto queste diverse forme: cioè di laghi, di fiumi, e di
mare fa d'uopo considerare le acque che bagnano il suolo della nostra
Tuscia.
Uno sguardo lanciato sulla carta di questa provincia farà tosto
conoscere che oltre i tre maggiori laghi di sopra menzionati, altri di
minor conto ve ne sono, contenuti in crateri vulcanici. Al maggiore di
questi ossia al Vulsinio o lago di Bolsena, si riferisce il laghetto di
Mezzano: al secondo ovvero al Cimino nessun lago secondario si annette;
ma al terzo cioè al lago di Bracciano o Sabatino sono attinenti
i minori laghi di Montignano, Stracciacappe, Monterosi, con la valle di
Baccano. Il lago di Bolsena non misura meno di 54 chilometri di circonferenza:
alto sul livello del mare m. 311,22, offre una figura, che come si disse,
si ravvicina ad un trapezio irregolare. Contiene nel suo seno due isolette:
una detta Bisentina perchè dirimpetto al paese di Bisento; l'altra
è un nudo scoglio prossimo al villaggio di Marta da dove prende
origine l'emissario, o il fiume scaricatore che parimenti porta con se
l'istesso nome. Il lago di Mezzano a ponente del Vulsinio, più
elevato di questo, è contenuto in un vero cratere vulcanico, ed
è una piccola raccolta di acque alimentata dalle circostanti sorgive
il cui sopravanzo da origine al fiumicello Olpita tributario del Fiora.
Il lago di Vico, così detto dal villaggio di Vico posto sulla sua
sponda e corrispondente all'antico Vicus Elvii, trovasi in un vero cratere
vulcanico, e fu detto Cimino dagli antichi per la prossimità del
monte di questo nome. Ha una figura irregolare perchè modellato
sulle radici del Monte Venere, e il suo antico e naturale livello venne
abbassato da un emissario scavato attraverso le pareti del catino che
conduce le acque per via sotterranea nel Rio-Ricano per versarle nel Treja.
Il Sabatino ebbe nome dalla città di Sabatia oggi Bracciano. Come
il Vulsinio è contenuto in una fossa di sprofondamento: la sua
figura è irregolarmente circolare con circa 37 chilometri di circonferenza
e la sua superficie è alta sul mare m. 164. Sulla sponda orientale
sopra uno scoglio sporgente come già abbiamo accennato sorge il
castello di Anguillara sotto il quale in una sgolatura sono le chiuse
dell'emissario da cui prende principio il fiume Arone. Però non
tutta l'acqua vi corre, essendo una parte di essa ricevuta dall'acquedotto
Paolino per essere condotta a Roma, destinata ad usi economici. Prossimo
a questo lato è il lago Alseatino o di Martignano, così
detto da un piccolo castello diruto posto sulla sua sponda. Contenuto
in un piccolo cratere eruttivo di sei o sette chilometri di perimetro,
trovasi a m. 209 sul livello del mare. Anche le acque di questo laghetto
sono ricevute nell'acquedotto Paolino. Similmente quello di Stracciacappe
o il Papirianus da qualche Papirio che lo possedette, trovasi in un vero
cratere vulcanico, contiguo al precedente. Ebbe nei tempi passati vari
chilometri di giro, ma dappoiché fu messo in comunicazione per
via sotterranea col Martignano, il suo fondo è ridotto ad una vera
piscina.
Il laghetto di Monterosi contenente le aquae Janulae degli antichi, è
posto nella biforcatura delle due strade di Ronciglione e Civita Castellana:
arriva appena ad un chilometro di circonferenza ed è alto circa
m. 220 sul mare. Finalmente conviene pur fare parola della valle di Baccano,
riempita in altri tempi di acqua lacustre poi scolata dai Romani nel fiume
Cremera. Ebbe otto o nove chilometri di circonferenza; oggi è una
valle crateriforme chiusa ad anfiteatro, attraversata dalla via Cassia
colla stazione ad Baccanos da cui prese il nome. Molti sono i fiumi della
Tuscia romana che meritano maggior considerazione, però il loro
primato devesi al Tevere, che coll'ultimo suo corso, percorrendo le radici
appennine circoscrive quasi la Tuscia romana come in una cornice alla
quale concorre eziandio anche il Paglia suo tributario. Questo fiume,
presa origine dai monti di s. Fiora, prima di raggiungere il Tevere scende
verso Acquapendente e ingrossato dalle acque della Chiana, raggiunge la
base del cono Vulsinio, sulla quale piega a sinistra per seguirne le traccie
coi suoi serpeggiamenti. Giunto ad Orvieto riceve la Chiana, e poco dopo
si scarica nel Tevere presso Tor di Monte. Arricchito di questo acque,
il Tevere seguita a disegnare le basi dei due successivi coni Cimino e
Sabatino, con un movimento quasi festonato e serpentino. Così arriva
al Soratte, e giratogli attorno come ad una meta, prende la direzione
del mare, passando attraverso Roma, e segnando il confine fra il territorio
etrusco e latino. In tutto il tratto che corre dall'incontro del Paglia
al mare, il Tevere riceve a sinistra il tributo delle acque apennine che
piovono su lui, condottegli specialmente da tre principali affluenti.
Il primo di questi è il fiume Nera (Nar degli antichi) che convoglia
le acque dai più distanti recessi del centro italiano, per mezzo
dei fiumi secondari Turano, Salto e Velino: il secondo è il Farfa
che conduce gli scoli delle montagne sabine: il terzo è l'Aniene
(Anio) che trae le sue origini dai due bacini acquiferi di Vallepietra
e Filettino posti al fianco del Cantaro, uno dei più alti cuspidi
apennini.
Da questa disposizione ben si comprende che tutti gli affluenti di destra,
tanto del Paglia che del Tevere, devono scendere dai pioventi esterni
dei tre coni vulcanici, sulle cui basi quei maggiori fiumi trascorrono.
Cosicché tutta la gronda orientale del Vulsinio coi suoi raggianti
torrenti si versa in parte nel Paglia in parte nel Tevere. Ma le contrarie
pendenze dei contigui coni, Vulsinio e Cimino, incontrandosi conducono
le acque a raccogliersi insieme e fondersi per dare origine al Vezza,
che passando sotto Vitorchiano raggiunge il Tevere presso Attigliano.
Similmente avviene del Treja, raccolto fra i coni Cimino e Sabatino, nel
quale immettono altresì le acque dell'emissario del lago di Vico,
condottegli dal Rio-Ricano, passando per Civita Castellana. Finalmente
tutto il lato orientale del cono Sabatino, è in comunicazione diretta
coll'ultimo tratto del corso tiberino.
Il lato settentrionale della Tuscia romana non circoscritto dal Paglia
e dal Tevere, viene segnato dal corso del fiume Fiora, che radendo le
radici della catena metallifera si getta nel mare sotto Montalto: e perciò
in questo fiume confluiscono le acque occidentali del cono Vulsinio. Tutto
il littorale etrusco lungo il mare Tirreno può essere distinto
in tre parti: una settentrionale, corrispondente allo spazio fra il corso
del Fiora e ì monti della Tolfa: la seconda viene costituita da
queste prominenze: la terza si riferisce alla distanza fra esse e il Tevere.
Le acque esterne che scendono fra le due contrarie pendenze dei coni Vulsinio
e Cimino, in senso contrario al sistema del Vezza per portarsi direttamente
al mare, si raccolgono dando origine al Vela, che giunto presso Rocca
Rispampani si getta nell'emissario del lago di Bolsena, ossia nel Marta,
il quale raccogliendo nel suo cammino i laterali affluenti, per Ancarano
va al mare sotto Corneto.
La seconda parte, o la corrispondente ai monti Tolfetani, trovasi in condizioni
ben diverse. Conciossiaché il rilievo di quelli formando barriera,
obliga le acque a raccogliersi in un fiume di maggior calibro a fine di
superare l'ostacolo. Questo è il Mignone che risponde all'antico
Minio, il quale, tratta la sua origine dalla chinata occidentale del cono
Sabatino, scende a Viano, ove piegasi a sinistra per lambire le radici
dei monti tarquiniensi, che gli sorgono a destra fino al diruto paese
di Monterano. Quivi s'impegna fra masse scogliose, che sotto Rota gli
rendono tanto più angusto l'ingresso nel bacino della Tolfa onde
raccoglierne gli scoli. Tenendosi sempre fra scogliere, esce da quello
a riguadagnare il largo, girando attorno la costa del Marano. Quindi passando
fra le altitudini tolfetane e di Monte Romano, declina a destra e corre
al mare in prossimità delle saline di Corneto. Vari affluenti concorrono
ad ingrossare questo fiume; cioè la Lenta che, preso nascimento
sulla gronda occidentale del Monte Virginio e dai torrenti della Vallascetta,
lungo le radici dei monti, per i bagni di Stigliano e Radicata arriva
al Mignone prima di Rota. Un altro considerevole tributario è il
Verginiese il cui sistema è tutto compreso nel bacino della Tolfa
per raccogliersi nel fondo e versarsi nel Mignone sotto Rota. Potrebbe
essere considerato come un terzo tributario un grosso fosso che derivato
da Civitella Cesi si versa nel detto fiume appena uscito dal bacino tolfetano.
Dietro la piccola catena dei monti del Sasso, le acque della Manziana
e di s. Vito danno origine ad altro piccolo sistema denominato del fosso
Vaccino, scorrente in senso contrario alla Lenta per superare i monti
e ripiegarsi verso il mare nel quale si versa fra Palo e Torre Flavia.
Dall'esterno piovente dei monti Ceriti precipitano direttamente nel sottoposto
mare, molti torrenti di diversa portata fra i quali si notano come maggiori,
il Rio Fiume e il Marangone. Il primo viene dalla sommità della
Tolfaccia e della Sconfitta e retto cade nel comune recipiente fra s.
Severa e s. Marinella. L'altro dalla Croce di Bura, vien giù fra
dirupi, e fra Capo Linaro e Civitavecchia entra nel mare. Tutti questi
torrenti non sono inalveati perché di rapina, e perciò nelle
pioggie dirotte si fanno gonfi e veloci da recar danni gravissimi, per
la quantità di materiali che trasportano. La terza parte della
costa fra i monti del Sasso e il Tevere, vien egualmente solcata da numerosi
scoli che scendono dal declivio meridionale del cono Sabatino per iscaricarsi
direttamente nel mare. Fra questi è notevole l'Arene, che conduce
il sopravanzo del lago di Bracciano prendendo origine, come si disse,
presso il paese di Anguillara e terminando sotto Maccarese. Un altro di
questi piccoli sistemi è il Rio Galera, che da s. Maria di Galera,
prossima alle ruine della città di Galera sulla via Clodia, raggiunge
il Tevere ove fu la foce alluvionale di questo principale fiume. Tutto
il decorso della costa marittima, che trovasi dalla foce della Fiora a
quella del moderno Tevere, sarebbe costituita da spiaggia sottile e arenosa
se, come abbiamo veduto, la parte media non fosse occupata dai monti del
Sasso e della Tolfa, che, avanzando col Capo Linaro, rendono quel tratto
eminentemente scoglioso. Da s. Marinella a Civitavecchia la costa, resa
aspra da rupi, è battuta in breccia dalle onde tempestose, che
stritolandole le consumano, e i detriti sono portati via, e dati in preda
al moto ondoso. Così sono ridotti in sabbie e breccie, e nella
direzione dei venti regnanti, rigettati sulle rive per accrescere le spiaggie
sottili. E difatti le due coste fra s. Marinella e il Tevere come quella
fra Civitavecchia e lo sbocco del Fiora sono sempre in via di avanzamento,
specialmente la prima dove pel prolungamento del delta tiberino l'insabbiamento
è maggiore.
Ma non basta avere esaminate le acque dei laghi e dei fiumi, conviene
eziandio rivolgere lo sguardo alle sorgive che bagnano la Tuscia romana.
Tante sono le acque che pullulano in tutta la sua superficie, che ovunque
se ne rinvengono svariatissime e di diversa portata, tanto calde che fredde,
tanto dolci che minerali. Gli studi idrologici hanno dimostrato che nella
sola parte dell' Agro romano che spetta all’Etruria, non v'ha tenimento
che non sia dotato di uno o due fontanili per uso campestre. Le acque
minerali poi sono tante e così diverse nella loro composizione
da rendersi preziose per gli usi terapeutici ai quali vengono destinate.
Gli avanzi delle antiche terme che restano in molti luoghi di quell'ampio
territorio sono una prova del conto che ne fecero gli antichi, come vengono
oggi adoperate nei moderni stabilimenti.
Se si prenda a percorrere il paese per notare, se non tutte, almeno le
principali acque minerali, si osserverà che sulla estensione della
sponda destra del Tevere, ossia sulla parte etrusca della campagna romana,
nessuna di quelle acque minerali si fa vedere; ma se s'imprenda a percorrere
la via Aurelia lungo il littorale tirreno, giunti nelle vicinanze di Palo
s'incomincieranno a trovare polle di acque acidule, e più oltre
alle radici dei monti di Cerveteri zolfi ed acque solfuree; come sotto
il Sasso una gessaja derivata dalle stesse emanazioni. Oltrepassata Civitavecchia,
sulla via che conduce a Corneto, nelle vicinanze della Torre detta di
Orlando v'ha un'altra gessaja, e prossima ad essa, una sorgente acidula
detta della Castagnoletta. Sotto Corneto nella valle del Marta esiste
un'altra piccola sorgente la cui acqua vien bevuta come salutare.
Se per la via Clodia ci portiamo a Bracciano, sulla sponda settentrionale
del lago Sabatino, e al piede del monte di Rocca Romana sono i famosi
bagni di Vicarello. Di queste acque acidule termali, si fece tanto uso
si negli antichi tempi come al presente in uno stabilimento terapeutico.
Sotto Anguillara, prossima all'Arone, da una ingente massa di lava scaturisce
un'acqua mussante per eccesso di acido carbonico, la quale però
è rifiutata in medicina per la calce che contiene. Da Bracciano
giunti al bosco di Manziana si attraversa una larga solfatara con sorgenti
solfuree, ed a s. Vito non molto lungi da questo luogo vedesi una pozza
a modo di laghetto, detta la caldaja di s. Vito, nel mezzo della quale
erompe con impeto un grosso getto di acqua parimenti solfurea, che poi
va a scaricarsi nel Rio Vaccino. Scorrendo sulle radici del Monte Virginio,
sotto Canale, al fosso del Biscione, in seno ad una larga solfatara scaturisce
un'altra grossa polla solfurea, che vien subito portata via dalle acque
dolci del fosso. Ai bagni di Stigliano sul margine della Lenta sono le
acque Stigianae, o le Apollinares degli antichi, rappresentate da un gruppo
di sorgenti diverse, acidule, termali, ferruginose, e solforose, destinate
ad usi terapeutici, e così accreditate da richiamarvi un gran numero
di bagnanti. Seguitando la via, all'approssimarsi a Rota attraverso la
Conca, l'odore d'idrogeno solforato annunzia ancora acque solfuree, ed
entrati nel bacino della Tolfa, a fianco del mammellone trachitico che
lo domina. ecco un altr'acqua termale acida detta della Caduta, che serve
ad un piccolo stabilimento chiamato il Bagnarello della Tolfa. Di qui,
saliti i monti di Allumiere e presa la via di Corneto, scesi verso la
Mola farnesiana entro un' angusta valle scaturisce l' acqua acidulo-ferruginosa
detta del Campaccio, rinomata per le sue virtù deostruenti. Declinando
poi per la strada di Civitavecchia, non ancora terminata la discesa dei
monti, a circa quattro miglia da quella città si incontrano le
vestigia delle sontuose terme Taurine erette da Trajano a causa delle
vaste scaturigini di acque acidule, e prossima a queste un' altra analoga
detta Sferracavalli. Né molto lontano da questi ruderi si manifesta
l'acqua termale della Ficoncella, che insieme alle precedenti viene usata
in medicina.
Per seguitare una ordinata enumerazione delle acque minerali della Tuscia
romana, conviene oltrepassare Monterosi e portarsi ove dalla via Cassia
si diparte quella di Sutri. Quivi fra Bassano e Caprarola bagnano il terreno
altre sorgenti acidule e ferruginose, delle quali si fa poco conto. Ma
se si proceda più oltre, ove si biforca la strada di Nepi e Civita
Castellana si troverà l'osteria detta di Pucciaga sopra una vasta
solfatura, che una impresa industriale dovette abbandonare a causa delle
copiose scaturigini di acque solforose. Dopo Nepi la strada conduce a
Civita Castellana, presso la quale si trova l'acqua marziale di Falleri,
così detta dall'antica Faleria, i cui avanzi si ammirano ancora
su quella scaturigine. Da qui ci conviene saltare a Viterbo, città
rinomata per la ricchezza delle sue sorgive minerali, per le quali vede
ogni anno molti concorrenti. Sono acque diverse, e forse le meglio conosciute
di tutta la Tuscia romana, attesoché ebbero autori di gran riputazione,
che presero ad esaminarle e illustrarle. Tali sono: l'acqua della Grotta,
subacida, ferruginosa e termale: l'acqua della Crociata. parimenti termale
di sapore subacido e odore di gas idrogeno solforato: l'acqua del Bagnolo,
intermedia fra le precedenti: l'acqua del Bulicame, vasta sorgente solforosa,
termale che sembra bollire per lo sprigionamento del gas idrogeno solforato,
entro un piccolo cratere formato da concrezioni calcari, dal quale l'acqua
trabocca per essere impiegata alla macerazione della canape: finalmente
chiude la serie un' acqua acidula, ferruginosa, mussante per la quantità
di acido carbonico. Al di là di Viterbo nei contorni di Montefiascone
pullulano dal suolo altre sorgenti minerali acide delle quali fin qui
poca cura si prese. Finalmente citiamo il paese di Latera sul ciglio del
cratere vulsinico ove un'altra solfatara somministra acque solforose.
Le emissioni di acque che abbiamo accennate nella Tuscia romana sono quelle
di cui abbiamo fin qui più certa notizia. Tuttavia dobbiamo ritenere
non essere le sole che si versano per inaffiare il suolo di quella regione.
Molte altre ve ne devono essere non peranco scoperte o notate. Sarebbe
cosa ottima istituire ricerche scientifiche a tale fine. Però conviene
contentarci per ora di ciò che sappiamo, conciossiaché sono
sufficienti a far conoscere quanto sia estesa l'idrologia della Tuscia
romana.
Esposti i rilievi, che rendono aspra quella contrada del globo, e le valli
disegnato dal corso dei fiumi, conviene vedere se queste parti conservano
ancora le forme geografiche che ebbero nella loro primitiva origine. A
tal domanda conviene rispondere negativamente: imperocchè l'instancabile
natura, anche nel riposo dopo le sue grandi operazioni, lavora nel silenzio
per distruggere senza posa ciò che fece per raccogliere i materiali
della distruzione, e impiegarli a nuove formazioni. Gli agenti atmosferici,
i fiumi, i mari, le piante che aderiscono al suolo, e perfino l'uomo istesso
colla sua operosità congiurano a sfigurare la superficie terrestre,
e a variarne incessantemente l'aspetto geografico. I più rilevati
cuspidi dei monti sono a preferenza investiti dalla folgore, dalle alternative
di temperatura, dalle pioggie, dai geli, e dagli stessi raggi solari che
penetrando le roccie ne guastano la tessitura, le disfanno, le stritolano
e le fanno cadere in detriti. Le piante erbacee rivestendo di un denso
tappeto la superficie del suolo, lo difendono in certo modo da quei nemici;
ma non così gli alberi che penetrando colle loro radici nelle fenditure
delle roccie, ne sconnettono i massi e li rendono mobili. I torrenti portano
via i frammenti, li logorano coll'attrito del trasporto e li convertono
in ciottoli nel loro cammino. Giunti al mare e consegnati all'incessante
moto ondoso sono assottigliati e ridotti in breccie e sabbie, poi rigettati
sulle stesse spiaggie che gli stessi flutti tempestosi logorano nelle
loro sporgenze, perché niente sia sottratto alla gran legge dello
sfiguramento di tutta la superficie terrestre. Questi tanti lavori, incominciati
fin dal momento in cui emersero i continenti e le isole, non avranno fine
se non quando saranno spianati tutti i monti, colmate le valli, e tutto
convertito in pianure. Ma non basta ancora, giacchè il ferro dell'agricoltore
nel passare tante volte sul terreno, lo rimuove perché le acque
lo sciolgano e lo portino via.
L' escavazione delle miniere abbatte estese scogliere, o apre su di esse
squarci immensi alla ricerca delle materie prime, per essere impiegate
ai comodi della vita. Cosicché la trasformazione è incessante
su tutta la superficie dello terre emerse. Nella regione da noi presa
ad illustrare questi maravigliosi fenomeni si compiono sotto i nostri
occhi, come in tutte le altre contrade della terra. Basta salire sulle
altitudini da noi descritte per essere testimoni delle immense ruine a
cui sono in preda e prova ne siano le materie trasportate dai torrenti,
e la medesima spiaggia del mare Tirreno, costituita dai detriti dei monti
soprastanti condotti dalle acque in movimento traslatorio. Se non che
conviene pure avvertire che sui monti della Tuscia romana tutto si dovrebbe
compiere in una scala alquanto minore in confronto degli Apennini, attesa
la minore altezza; ma la quantità della distruzione è compensata
dalla maggior facilità alla decomposizione che offrono le roccie;
cosicché i risultati devono essere presso a poco eguali. Dirò
di più che i monti di Allumiere dimostrano a preferenza qual fu
l'umana potenza, e cosa l'uomo seppe operare nel decorso dei tempi. Gli
enormi squarci che s'incontrano su quelle giogaje praticati dai minatori
per la estrazione del sasso alluminoso, o del minerale ferreo, sono mirabili
per la loro estensione, e le materie dei loro rifiuti sono tali che elevarono
nuovi monti, che a loro posta vengono altresì distrutti dall'azione
generale degli agenti della natura. Per queste cause inesorabili tutto
il suolo etrusco ora è ben diverso da quello che fu nei passati
tempi, e lo sarà eziandio nel decorrere dei secoli avvenire, col
lento modificarsi della sua esterna configurazione. II. GEOLOGIADopo una breve esposizione della esterna fisionomia che
presenta la Tuscia romana, conviene rivolgere l'attenzione alla sua geologica
costituzione, per argomentare da quali cosmiche operazioni ebbe origine.
A raggiungere un tal fine, e a maggiore intelligenza di ciò che
sto per dire, giova premettere una speciale analisi dei terreni costituenti
quella interessante regione, siccome risultati dello formazioni successivamente
compiute nel decorso dei fasti della terra. E primieramente convien rammentare
che i geologi fanno tre grandi divisioni di tutti i terreni componenti
la superficie terrestre, comprendendo nella prima quelli che furono depositati
dalle acque: nella seconda gli elaborati dal fuoco: nella terza quelli
modificati e ridotti da un'azione metamorfica sopraggiunta.
Le incessanti sedimentazioni acquee comprese nella prima divisione, costituiscono
la scala stratigrafica, e sono quelle che accennano a tutti i tempi trascorsi,
o a tutte le epoche che costituiscono la storia geologica del pianeta.
Queste in origine furon tutte depositate nella orizzontalità propria
delle acque tanto salse che dolci: che se oggi non tutte si trovano mantenere
quella loro originaria giacitura, ma talune sollevate e rotte in tanti
modi, altre meno spostate, o semplicemente fratturate, altre in fine restate
inalterate, ciò dipese da sconvolgimenti di natura avvenuti dopo
la loro deposizione. Alla seconda sezione spettano quelle roccie, che,
essendo elaborate dall'interno fuoco terrestre, vennero spinte all'esterno,
sbucando in certi distretti per rovesciarsi sulla superficie del globo.
Queste tengon la forma di masse ingenti non stratificate o di filoni injettati
attraverso le assise nettuniane, ovvero rilevate in cupole o mammelloni
sul loro trabocco, come anche trascorse sul suolo in correnti più
o meno vaste. La terza finalmente comprende
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