BASILIO PERGI: PROFILO DI UN UOMO
E DEI SUOI INTERESSI CULTURALI
Anche
se spesso non lo danno a vedere, gli archeologi sono di solito estremamente
sensibili al genere di interlocutori, più o meno occasionali, che incontrano
nel corso delle loro ricerche sul terreno. A parte quanti ne sono direttamente
coinvolti, proprietari e conduttori del fondo, operai, ecc., essi entrano
prima o poi in contatto con persone interessate, che desiderano « saperne
qualcosa di più ». Fino a qualche anno fa, prima che l'interesse per l'archeologia
diventasse un fenomeno di massa, tra questi non numerosi interlocutori
ricorrevano per lo più figure ben precise: il notabile cultore di studi
umanistici, con interessi piuttosto astratti, desideroso di lunghe discussioni,
ma che di fronte alla tangibile, e di solito modesta realtà dello scavo
restava regolarmente deluso; l'appassionato dall'approccio viceversa fin
troppo concreto, da collezionista, buon conoscitore di luoghi e reperti,
ma che spesso travalicava nello scavatore di frodo; il dilettante con
presunzioni scientifiche, magari spicciativamente avallate nelle sedi
competenti, animato da tensioni competitive; il contadino, osservatore
attento e preciso, il cui interessamento era invece vivo, autentico, ma
inevitabilmente episodico.
Basilio Pergi, conosciuto nel lontano
1960, in visita sullo scavo della necropoli « protovillanoviana » di
Poggio La Pozza presso Allumiere, in cui chi scrive era impegnato
assieme alla moglie, non corrispondeva a nessuno di questi tipi umani.
Cordialissimo, e al tempo stesso schivo, riservato, la sua
partecipazione per le nostre ricerche era viva, autentica, ma anche
costante; piena di concretezza, di esperienza, di capacità di
osservazione, di acume, eppure disinteressata; le sue cognizioni,
manifestate con modestia e semplicità, si rivelavano preziose; i suoi
interessi non erano eruditi né da collezionista, ma schiettamente
culturali. Tra il maturo perito agrario e i giovani archeologi si formò
una corrente di simpatia, che col passare del tempo si trasformò in
amicizia, sobria, piena di ritegni e perciò scevra da slanci di
confidenza, ma sincera e solida.
Attraverso gli anni, a poco a poco,
imparammo a conoscere meglio la personalità umana ed intellettuale di
Basilio Pergi. Ci accorgemmo che gli interessi archeologici non erano
che una piccola parte della gamma delle sue curiosità intellettuali,
che, rivolte alle scienze umane e naturali nel loro insieme, formavano,
soprattutto intorno a tutto ciò che riguardava la sua terra, un fitto e
robusto intreccio. Al tempo stesso, la natura del nostro rapporto andò
mutando. Sempre più spesso non era più Basilio Pergi a chiedere, e noi a
rispondere, ma il contrario. Grazie a ciò che egli ci andava
illustrando, il nostro interesse professionale, settoriale per
l'archeologia dei Monti della Tolfa si arricchiva di spunti diversi, si
inseriva in un quadro più ampio, metteva radici, si faceva, a sua volta,
autenticamente culturale. Da ultimo egli ci andava narrando quelle
stesse cose che raccoglieva e annotava, e che ora sono esposte in questo
libro: e da quei racconti di storia e di vita noi restammo affascinati.
Il saperli trascritti e destinati alla pubblicazione ha un po' attenuato
il dolore per la sua morte improvvisa.
Basilio Pergi era nato a Tolfa nel
1911, da una famiglia dedita da parecchie generazioni alle professioni,
e specialmente all'agrimensura. Famiglia di vivaci e svariati e antichi
interessi culturali, come testimoniano i libri della biblioteca, le
preziose carte dell'archivio domestico, la collezione di reperti
archeologici provenienti da scavi regolari, effettuati negli anni '60
del secolo scorso con l'autorizzazione del governo pontificio.
Trasferitosi da bambino con i suoi a
Civitavecchia, vi fece i suoi studi e vi prese il diploma di perito
agronomo; ma subito dopo, agli inizi degli anni '30, tornò di nuovo a
Tolfa per esercitarvi la sua professione. E' a quegli anni che risale la
completa conoscenza dei suoi monti, percorsi palmo a palmo a piedi o a
cavallo, passando la notte nelle capanne dei campagnoli e condividendone
la durissima esistenza; è a quegli anni che si riferiscono le
osservazioni, le impressioni, le testimonianze sulla vita dei campi
raccolte in questo volume.
Verso il '36 emigrò in Albania,
geometra alle dipendenze dell'impresa di Vaselli; là fu sorpreso dalla
guerra e militarizzato. In seguito allo sbandamento delle forze italiane
tornò a casa clandestinamente, assieme a pochi compagni, con una lunga e
avventurosissima fuga in Jugoslavia, Austria, Italia settentrionale e
infine attraverso le linee del fronte.
Messa su famiglia, si stabilì a
Civitavecchia, e attorno al '50 divenne funzionario dell'Ente Maremma,
con il compito di dirigere i lavori di trasformazione conseguenti alla
riforma agraria e di indirizzare e consigliare gli assegnatari dei
poderi. Riprese così a battere incessantemente le campagne dell'Alto
Lazio, di cui conosceva ogni angolo. Quando si facevano delle escursioni
assieme a lui, era fonte di sempre rinnovata, divertita sorpresa
accorgersi come i contadini, dovunque arrivasse,. avessero, non si sa
come, individuato in anticipo la sua ben conosciuta presenza. Da per
tutto era circondato di cordialità e simpatia. Il carattere riservato
non gli impedì di svolgere una vita associativa piuttosto intensa.
All'Azione Cattolica era iscritto fin da ragazzo. Mi sconcertò scoprirlo
un giorno socio del Rotary, dati i suoi scarsi interessi mondani. Solo
recentemente ho appreso dalle figlie che vi aveva aderito in un momento
in cui il club di Civitavecchia era soprattutto una occasione di
incontri alla buona tra un gruppo di amici, che ne perseguivano con
serietà ed impegno pragmatico le finalità sociali di analisi e
contributo alla soluzione dei problemi della collettività.
Dell'antica e benemerita associazione
archeologica locale, la «Centumcellae», è stato vicepresidente dal 1959
alla morte (1980). Con il presidente Pirani e il segretario-tesoriere
Ferrari formavano un terzetto inseparabile, che ha retto con equilibrio
e buon senso le sorti dell'Associazione in circostanze non sempre
facili. Per gli archeologi italiani e stranieri attivi nell'Alto Lazio
la « Centumcellae » ha sempre rappresentato un confortevole punto di
riferimento, un luogo d'incontro con interlocutori preziosi e cordiali.
Principio informatore della linea di condotta sulla quale Basilio Pergi
intendeva — e molte volte riuscì ad ottenere — si indirizzasse
l'Associazione era quello di non cercare di sostituirsi agli archeologi
professionali, di rispettare l'autorità degli organi preposti alla
tutela, ma di svolgere nello stesso tempo un'azione costante di
segnalazione e di sollecitazione non solo nei confronti di questi, ma
anche degli specialisti interessati, cercando di individuarne le
specifiche competenze, e di convogliarle, mediante opportuni contatti,
verso i diversi oggetti e problemi che via via si presentavano. Concetti
che potrebbero apparire ovvi, se non fosse così rara la loro
applicazione da parte delle associazioni archeologiche locali del nostro
Paese.
In campo specificamente archeologico,
Basilio Pergi era interessato più al contesto territoriale che alle
singole emergenze, più agli aspetti topografici che ai reperti mobili
anche vistosi, come si può rilevare dai suoi lavori a stampa più
significativi, quello sugli stanziamenti etruschi della valle del
Mignone e quello sul centro etrusco di Luni, quest'ultimo scritto in
collaborazione con altri amici. Molto gli giovarono in questi e altri
lavori le sue capacità professionali, che gli consentivano di
accompagnare il testo con rilievi topografici nitidi e precisi quanto le
riproduzioni grafiche di elementi architettonici e strutturali.
Le stesse tendenze si rilevano nelle
numerose segnalazioni alla Soprintendenza e relazioni manoscritte su
escursioni o interventi sul terreno. Accanto a questa attività più
specifica, tecnica, Basilio Pergi ne svolgeva una più ampia, di
divulgazione culturale, sia nell'ambito della vita della « Centumcellae
» (conferenze, numerose visite guidate), sia attraverso la
pubblicistica, vuoi con articoli di giornale firmati e non firmati, vuoi
fornendo spunti e informazioni ai giornalisti. E' qui che emerge
l'ampiezza e varietà dei suoi interessi culturali, senza soluzione di
continuità tra l'archeologia e le altre discipline storiche; e più
questi interessi si legano alle sue concrete esperienze di vita, più si
fanno vivide ed autentiche.
Lo si vede bene negli scritti
raccolti in questo libro. La riflessione sui temi storici vi si fa tanto
più penetrante, quanto più quei temi, sebbene lontani nel tempo, si
legano ad osservazioni dirette e a ricordi, come pure alla sua
professionalità; e al tempo stesso l'attenzione a fatti concreti, le
riminiscenze, l'esperienza del mestiere si traducono in una scrittura
tanto più valida e vivida, quanto più filtrata attraverso la meditazione
di problemi che le trascendono. Di qui il concatenarsi di questi scritti
in filoni, anzi, in ultima analisi, in un unico filone. Così, Il
mestiere di campagnolo è sostanzialmente una diretta testimonianza di
vita vissuta, quella dei primi anni giovanili passati da agrimensore sui
Monti della Tolfa; ma Un mestiere scomparso: il mercante di campagna,
che al precedente si lega in modo diretto, è già per la maggior parte
una ricostruzione, basata su narrazioni e reminiscenze altrui; e
L'Università Agraria è anch'essa, in modo del tutto analogo, una
ricostruzione, in cui però ai racconti orali vengono a sostituirsi le
vecchie carte e i documenti dell'archivio di famiglia. Allo stesso modo,
Il « festino », con il suo cogliere prima del loro estinguersi antiche
forme di vita associativa popolare, si riannoda al mondo, descritto in
L'Ospedale di S. Giovanni, delle confraternite dei secoli passati, in
cui quelle forme trovavano ancora una loro collocazione istituzionale,
grazie alla quale esplicavano tutta la loro vitalità e capacità di
grandi realizzazioni.
Questa unità quasi organica tra
vissuto ed interessi culturali, sia pure, beninteso, all'interno di una
sfera delimitata dalle circostanze, costituisce dunque il tratto più
caratteristico della personalità di Basilio Pergi, tanto più invidiabile
in un tempo in cui, un po' in tutti noi, la dissociazione tra vita e
cultura, e dei diversi aspetti e momenti della cultura tra loro, non
potrebbe essere più completa. Personalità dominata da una serietà
costante e profonda, scevra da intellettualismi, sviluppatasi così
grazie ad un mestiere sostanziato di concretezza; ma anche specchio dí
una umanità vitale ed armoniosa, che a chi lo conobbe ispirava tanta
simpatia, la stessa calda simpatia che si prova leggendo le sue pagine.
RENATO PERONI
INTERESSE DOCUMENTARIO DEGLI APPUNTI
DI
BASILIO PERGI IN RELAZIONE ALLA
STORIA
ECONOMICA E SOCIALE DELLA TOLFA
Nel panorama non vasto di studi di
storia tolfetana, l'opera del Pergi contribuisce a colmare una lacuna,
grazie ai particolari interessi coltivati dall'autore, che affronta
argomenti abbastanza recenti ma ormai del tutto dimenticati. Egli si
pone in una prospettiva non storico-politica e neppure specificatamente
sociologica degli avvenimenti, ma tende a ricostruire ed evidenziare
l'aspetto umano, sotteso alla trama dei rapporti degli abitanti fra di
loro e del paese nel suo insieme nei confronti delle città vicine.
Basandosi su esperienze dirette e su
una personale, profonda conoscenza del territorio, frutto degli
interessi di tutta una vita, egli indaga le radici storiche di vari
istituti tipici di questo paese con uno spirito che parte dal vissuto
quotidiano e non da speculazioni libresche. Forse per la prima volta,
riguardo a Tolfa, non si fa la storia di avvenimenti eccezionali o di
grandi personaggi, ma della vita quotidiana come era alla fine
dell'Ottocento e dei rapporti di lavoro come si strutturavano e ancora
in gran parte si strutturano. Essi sono originali, perché Tolfa è un
paese agricolo ma non ha mai conosciuto né il latifondismo preponderante
né l'eccessivo spezzettamento del terreno; e ciò in quanto è in vigore
per lo meno da tre secoli, e forse anche da cinque, l'istituto
dell'Università Agraria, cioè la proprietà collettiva della grandissima
maggioranza del terreno che viene annualmente distribuito in uso ai
cittadini, che ne fanno richiesta, secondo la loro necessità.
Questa prospettiva particolare non è
affatto presa in considerazione dal piccolo gruppo di appassionati
tolfetani che, negli ultimi tre secoli, si sono prodigati per sottrarre
all'oblio le memorie del loro paese. Fra i più importanti bisogna
ricordare Domenico Buttaoni (1678-1752), che ha lasciato numerosi
appunti manoscritti sulla storia locale; Filippo Maria Mignanti (morto
nel 1867), autore di vari studi che riguardano le chiese costruite o
restaurate nel XVI e XVII secolo e le vicende relative al ritrovamento e
allo sfruttamento dei vari minerali; Alessandro Bartoli (1824-1905) che
ha lasciato una vasta serie di appunti relativi agli ultimi due secoli.
Ma l'opera più compiuta in materia è
senz'altro « Tolfa » di Ottorino Morra (1906-1977), che presenta un
ampio profilo storico accompagnato da una guida illustrativa del paese
(Civitavecchia 1978, a cura della locale Cassa di Risparmio). In essa lo
studioso presenta una puntuale analisi dei vari periodi storici,
documentandola ampiamente e facendo così il punto di tutte le ricerche
compiute pre¬cedentemente in una vasta sintesi originale. Egli passa in
rassegna tutti gli studi esistenti, compresi quelli manoscritti e non
pubblicati, vagliandone con severità la veridicità storica, di cui dà
sempre accurata testimonianza. L'opera è vasta ed esauriente dal punto
di vista della storia diciamo così ufficiale, cioè della vita pubblica,
ed è perciò particolarmente attenta agli avvenimenti concernenti la
scoperta dell'allume e le vicende ad essa connesse. Questi, per
l'interesse che ebbero a livello statale, dell'allora Stato Pontificio,
e per l'incremento che diedero alla vita del paese, sono molto
documentati, anzi si può senz'altro dire che di tutti gli scritti e gli
atti pubblici che riguardano Tolfa la grande maggioranza è legata alle
miniere e alla loro attività.
Rimangono invece in ombra gli
argomenti riguardanti la vita agricola del paese, sia nei suoi aspetti
quotidiani e folkloristici, sia nei rapporti economici che li motivano.
Questa visione degli studi storici è stata finora completamente
trascurata, e perciò un'opera che si proponga di esaminare i documenti
scritti esistenti raccolti nel corso dei secoli, come quella del Morra,
non ne presenta quasi traccia.
Proprio in questo si individua
l'originalità del presente libro che non si propone di colmare questa o
quella lacuna, ma apre, cosa del tutto nuova per quanto riguarda Tolfa,
una diversa angolazione della prospettiva storica. Questo perché lo
scritto nasce dal contatto quotidiano dell'autore con la vita della
campagna e dei campagnoli tolfetani, in una pluridecennale ricognizione
del territorio, spesso a piedi o a cavallo, che lo aveva reso
espertissimo conoscitore della zona, per quanto vasta essa sia, e dei
suoi problemi. Egli era perito agrario e più volte in numerose relazioni
aveva messo in evidenza i pericoli derivati dall'incontrollato
disboscamento e l'impossibilità di una sistemazione agricola del suolo
che fosse economicamente redditizia. Aveva chiaramente individuato e più
volte detto e scritto che tutta la zona è a vocazione boschiva o, nella
migliore delle ipotesi, pastorale. Tale essa è stata infatti fino ad un
secolo fa, perché solo questa utilizzazione si addice all'asperità dei
rilievi e salvaguarda il patrimonio idrico, ma anche quello faunistico
affatto peculiare. Già venti anni fa, in scritti cioè che risalgono agli
anni Sessanta, si trova espresso e documentato questo suo pensiero,
insieme con quello conseguente che nel mondo di oggi sta diventando
prioritario il problema della conservazione della natura, per la
sopravvivenza stessa della specie umana. Certo oggi queste idee sono
molto comuni, ma non lo erano altrettanto allora e mi pare qui doveroso
ricordare la intuizione anticipatrice dello studioso. Egli aveva dunque
capito l'urgente necessità di una qualche forma di protezione del
territorio che salvaguardasse l'incontaminata bellezza naturale e che si
affiancasse, senza distruggerla, all'economia pastorale e alla piccola
coltivazione, in genere orti e vigne, praticate dai paesani. Pur senza
mai scendere in particolari circa l'amministrazione e la concreta
attuazione di questo progetto, egli vedeva l'indubbio vantaggio che
sarebbe venuto al paese da una più diffusa attività turistica, e certo
lo pensava nei termini di quella collaborazione e spirito comunitario
che rappresentavano per lui la genuina tradizione della vita tolfetana.
E' proprio quella tradizione che egli
ricostruisce in questa sede, riportando esperienze e rapporti di lavoro
di contadini e allevatori che costituiscono la popolazione del paese.
Non a caso egli era, infatti, conosciuto ed apprezzato da lungo tempo da
tutti i tolfetani occupati in campagna.
Su questa trama di interessi, ma
anche di rapporti umani, è costituito questo libro che si rifà ad
esperienze personali approfondite da una sagace analisi storica della
società contadina. Attraverso la disamina spesso volutamente
cronachistica di piccoli episodi di vita comune, l'autore coglie due
punti salienti nella struttura di tale società. Il primo punto è la
peculiarità dei rapporti di lavoro che si creano in base alla anomala
distribuzione della proprietà sui Monti della Tolfa per la presenza
della già citata Università Agraria; il secondo è il modo di affrontare
la vita dei paesani che mettono in comune esigenze e problemi
superandoli attraverso strutture di utilità pubblica.
Per quanto riguarda il primo punto,
data la forte pendenza dei numerosi rilievi dei Monti della Tolfa, tutto
il territorio ha sempre avuto chiara vocazione pastorale, come già
accennato, e non si è creata la frantumazione della proprietà tipica
delle colture intensive più redditizie; ma non si è creata neppure
un'economia esclusivamente latifondista, perché la grande proprietà
feudale divenne ben presto pontificia, per trasformarsi poi, forse molto
rapidamente, in enfiteusi, quindi in enfiteusi perpetua e infine in
piena proprietà non di una famiglia o gruppo di famiglie, ma dell'intera
comunità dei paesani.
Questa forma associativa è definita
Università Agraria ed è tuttora esistente in varie regioni d'Italia,
dove rappresenta ormai rare vestigia di un'epoca passata in cui ebbe una
funzione ben più importante. Le varie Università Agrarie, che si
denominavano in modi diversi, si fanno infatti risalire alle forme
antiche di proprietà collettiva, di cui costituiscono il residuo
storico. Si sono sviluppate anche in altri paesi (es. Allmenden in
Svizzera e mir russo). Questo godimento di terre aperto a tutti gli
abitanti esisteva già nel periodo romano, si sviluppò ancor più
all'epoca delle dominazioni barbariche e fu più o meno ridimensionato
sotto l'azione dissolvente del feudalesimo. Il sorgere dei comuni influì
profondamente su queste forme di proprietà e di gestione, alcune delle
quali si confusero nel nuovo ente pubblico, perdendo ogni autonomia,
mentre altre si conservarono più o meno indipendenti, coi loro scopi
economico-agrari, accanto al comune. Con la diffusione dei principi del
liberalismo economico si vide nel principio collettivistico che ispirava
tali istituti un impedimento alla libertà delle terre e così si cercò di
eliminarli, assorbendoli nei comuni.
Le Università Agrarie oggi sono
rimaste in pochissimi luoghi, e in particolare quelle delle provincie
pontificie vennero trasformate dallo Stato italiano in enti morali con
un'apposita legge (3 agosto 1894).
Questo istituto ha dato adito a forme
di lavoro originali, per cui ad esempio ogni anno i proprietari di
bestiame e i contadini fanno domanda all'Università per chiedere
l'appezzamento di terreno loro necessario che viene concesso ad un fitto
nominale; quindi ogni anno si procede ad una nuova suddivisione dei
pascoli con relative misurazioni e confini. L'origine e la formazione di
tale istituto a Tolfa costituiscono l'argomento di una delle appendici
del presente volume, a cui rimandiamo, anche se i documenti sulla
materia sono poveri e scarni, e l'Autore non ha potuto completare il
lavoro come pensava, a causa della morte quasi improvvisa. Ma ci è
sembrato necessario includerla nel volume, perché essa costituisce lo
sfondo delle trattazioni precedenti, dove è ben messo in evidenza come
tutti i costumi e le abitudini degli agricoltori e dei pastori risentano
dell'influenza ed in un certo senso dell'onnipresenza dell'Università.
L'altro punto saliente, che ci sembra
opportuno evidenziare nella lettura del libro, è la dimensione
comunitaria della vita del paese. Questa risalta sia dagli infiniti
particolari, presenti nei racconti, di solidarietà e aiuti reciproci,
sia soprattutto dalla caratteristica istituzione di opere di interesse
pubblico, come la creazione dell'Ospedale e la costruzione delle chiese.
Esse non nascono mai per impulso di un privato ma sono sempre il
prodotto di una volontà comune. Da qui il proliferare di confraternite e
associazioni con scopi sociali, come per esempio l'arciconfraternita del
Gonfalone, che aveva il compito di ricercare e seppellire coloro che
erano morti in campagna lontani dal paese e che si reggeva su un
generoso volontariato. Ancora più importante era la confraternita del
SS. Nome di Dio nata per assistere i malati, soprattutto gli operai
delle miniere, che si trasformò in un vero e proprio Ospedale,
l'amministrazione e attività del quale però erano in mano alla comunità
dei soci, che senza aiuti esterni si basavano solo su offerte spontanee
di lavoro o di denaro. L'oscuro e umile lavoro di questi uomini, che
senza fini di lucro occupavano parte del loro tempo libero per aiutare i
loro concittadini nei momenti di bisogno, è scarsamente reperibile in
documenti ufficiali o atti pubblici, ma l'Autore, tolfetano anche lui e
saldamente inserito nel tessuto urbano, era in possesso per tradizione
famigliare di alcuni verbali delle varie sedute della confraternita che
egli decifrò appassionatamente, traendone alcune notizie qui riportate
nell'appendice che parla dell'Ospedale di S. Giovanni, ma soprattutto la
consapevolezza di questo spirito comunitario che permeava la vita del
paese.
E' indicativo di tale modo di vivere
il fatto che la costruzione dei pochi importanti monumenti non è opera
del mecenatismo di singoli, ma di impegni del comune e di sottoscrizioni
popolari. Quando infatti il paese conobbe l'insperata prosperità
derivatale dalla scoperta delle miniere di allume, non utilizzò la
maggiore ricchezza a vantaggio esclusivo dei singoli, ma si preoccupò di
impiegare parte del denaro in strutture pubbliche, come ad esempio
l'ampliamento della chiesa parrocchiale e la costruzione della chiesa di
Cibona con annesso convento. Il comune impiego delle risorse infatti
nasceva da una comune pietà popolare derivante da un naturale senso
religioso, che li portava a creare strutture che fossero nello stesso
tempo testimonianza del loro affetto sincero verso gli uomini e verso
Dio.
Questa dimensione comunitaria è stata
vissuta dagli abitanti sia nei periodi, rari, di ricchezza, sia in
quelli più numerosi e protrattisi nel tempo di economia povera.
Ricchezza e miseria, floridità e
decadenza si alternano in maniera continua nella vita di Tolfa fino ad
incarnarsi nella fisionomia stessa del paese. Infatti la caratteristica della sua storia è il susseguirsi di
periodi in cui si è svolta anche attività mineraria e a volte
industriale a periodi in cui ha predominato più decisamente l'attività
agro-pastorale. Tutto questo rende molto difficile una indagine storica
sul paese e sul suo territorio, perché a momenti ricchi di fonti scritte
e di realizzazioni monumentali e architettoniche si alternano epoche che
sembrano del tutto prive di avvenimenti. Forse proprio per questo
abbondano solo notizie su situazioni limitate nel tempo e particolari.
Questo alternarsi di situazioni
economiche appare evidente a chi si inoltra per le strade del paese e
osserva la sorprendente diversità delle varie testimonianze
urbanistico-architettoniche. Infatti, intorno ad una possente rocca
medioevale si estende una distesa di modeste costruzioni, servita da un
intricato dedalo di viuzze in cui spiccano pochi palazzi, in genere a
destinazione pubblica. D'altra parte al centro di questo dedalo si può
vedere una parrocchia così imponente da sembrare una cattedrale e,
superata un'armonica piazzetta a conchiglia, una lunga via contornata da
palazzi signorili ampi e maestosi ormai del tutto degradati, ma esempio
di una passata floridezza, che non è fuori luogo qui ricordare,
rievocando, sia pur sommariamente, le vicende storiche della Tolfa a
maggior comprensione degli appunti lasciati da Basilio Pergi.
Tolfa è ora un piccolo paese di circa
cinquemila abitanti, situato proprio al centro di un atollo vulcanico
detto appunto Monti della Tolfa. Geologicamente tale massiccio risale
all'era terziaria, ed è quindi più antico dei vicini monti Cimini e
Sabatini, anch'essi vulcanici ma del Quaternario. Esso è in
disfacimento, e difficilmente si potrebbero trovare tracce riconoscibili
degli antichi vulcani nelle modeste ma aspre colline della zona, ma
ancora oggi una località è definita « le spiagge » perché sembra
delimitasse un antico lago craterico completamente svuotato da una falla
apertasi sul suo lato nord-occidentale. Il territorio è composto in gran
parte di trachiti e lipariti che, analizzate al potassio 40, sono state
datate a più di 2.400.000 anni. Esso è ricco di acque termali calde e
fredde, nonché di minerali svariati, oggi non abbondanti, fattore primo
per il quale la zona è stata fin dalle più remote età intensamente
abitata. Anticamente la regione era del tutto coperta di boschi molto
ricchi di selvaggina come cervi, cinghiali, caprioli, e attraversata da
numerosi anche se modesti corsi d'acqua, di cui il principale è il
Mignone. Ma lo sfruttamento intensivo e il disboscamento hanno
trasformato questo stato di cose, ed i fiumi, un tempo di corso regolare
e spesso navigabili, sono diventati torrentizi, compreso il Mignone, la
cui portata d'acqua oggi passa da volumi minimi a piene improvvise e
violentissime.
Il paese attuale di Tolfa si sviluppò
intorno al IX-X secolo, dunque subito dopo l'epoca delle invasioni
longobarde, tanto che si pensa che il nome, di cui non si può dare
etimologia certa, sia mutuato da quella lingua.
Nella zona però sono state rinvenute
tracce di stanziamenti dall'epoca preistorica al periodo romano.
Particolarmente ricche appaiono le testimonianze dell'età del bronzo e
del periodo etrusco. Ritrovamenti di tombe ad incinerazione dell'età del
bronzo finale si sono avuti a Poggio alla Pozza, a Coste del Marano, a
Poggio Ombricolo, per citare solo i siti più importanti e meglio
scavati, e dappertutto si sono rinvenuti ricchi corredi bronzei, specie
quelli del ripostiglio delle Coste del Marano, e abbondanti corredi
tombali. Nel successivo periodo etrusco nell'economia predomina
l'industria estrattiva, soprattutto del ferro, e forse una prima
lavorazione negli stessi luoghi, come dimostra il ritrovamento di un
forno fusorio a Pian de Santi. Gli Etruschi incrementarono l'economia
della zona e lasciarono testimonianze di un periodo di benessere
diffuso. Fra le necropoli più importanti di quest'epoca, che va dal VII
al III secolo a.C., sono state scavate quelle delle Pantanelle, Ferrone,
Capannone, Pian de Santi, Pian Conserva, Colle di Mezzo, nelle quali
sono stati trovati ricchi corredi formati da vasi greci di importazione
e vasi di imitazione greca ma di raffinata fattura locale. Quasi tutte
le tombe sono state reinterrate per mancanza di manutenzione e
unicamente esperti conoscitori del territorio o archeologi possono
riconoscerle fra la folta vegetazione che le ha ricoperte.
Solo una piccola parte dei materiali
rinvenuti costituisce il locale museo di Tolfa, fra l'altro di recente
formazione. Ovviamente le necropoli presuppongono altrettanti
stanziamenti di cui però si sa poco. Dei luoghi religiosi esiste una
testimonianza molto significativa: il tempio periptero a tre celle di
Grasceta dei Cavallari che si fa risalire al VI secolo a.C.
Numerose vie solcavano la zona, ma la
più importante era quella che dal porto di Pyrgi, vicino all'attuale S.
Severa, attraverso la Tolfaccia, giungeva a Tolfa e proseguiva poi,
scavalcando il Mignone al guado del passo di Viterbo, verso S. Giovenale
e oltre. Scorie di minerale sono state trovate a Pyrgi nell'area del
tempio della dea Ilizia distrutto da Dionigi di Siracusa nel 384 a.C.
L'affermarsi della potenza romana
cambiò completamente la fisionomia della zona, perché Roma, in possesso
di ben altre risorse, incrementò soprattutto l'agricoltura o meglio
l'attività agro-pastorale. Troviamo così le grandi ville rustiche in
località Pian de' Santi, Torcimina, Tolfaccia, nelle quali sono stati
rinvenuti mosaici policromi, grandi horrea, impianti idrici e numerose
suppellettili fit¬tili. Quando Virgilio nell'Eneide (X, 182-184) parla
delle forze raccolte da Enea contro Turno, la zona lungo il Mignone
figura come disseminata di villaggi in grado di man-dare un numeroso
contingente. Tutto il territorio gravitava comunque sulla via Aurelia e
sui commerci marittimi, prima per lo smaltimento dei prodotti minerari e
poi per la vendita degli alberi richiesti per le costruzioni delle navi
e dei prodotti dell'allevamento zootecnico e dell'agricoltura. Già
quando Livio enumera i vari apporti delle città a Roma nel momento della
massima pressione della seconda guerra punica, da questa zona giungono
solo forti quantitativi di legname e di cereali.
Come per la maggior parte
dell'Italia, anche per questa zona un fitto velo avvolge la storia dei
secoli successivi di cui restano ben poche tracce. Il primo coagularsi
di insediamenti altomedioevali nel territorio montano fu forse in parte
la conseguenza delle disastrose invasioni dei pirati saraceni del IX e X
secolo, che dopo aver devastato e pressoché spopolato le coste si
spingevano con audaci puntate nell'interno. In tutto il territorio sono
ancora visibili imponenti ruderi di castelli fra i quali formano
quadrilatero i quattro castelli di Tolfa, Rota, S. Angelo e Monte
Monasterio, le cui storie si intrecciano spesso. Complementari con
questo sistema di difesa furono le torri di avvistamento, costruite in
luoghi elevati, che disponevano del massimo raggio visivo proprio per
poter dare tempestivamente l'allarme e permettere agli abitanti di
ritirarsi nei castelli.
All'XI secolo risalgono le prime
fonti scritte che nominano il paese di Tolfa: gli Annali di Corneto
riportano che i Tolfetani erano alleati dei Viterbesi e dei Cornetani
contro i prefetti Di Vico, e poco più oltre la notizia che il conte
Ugolino di casa Nicolodi aveva occupato la Tolfa vecchia, togliendola ai
figli del conte Guido di Santa Fiora che l'aveva ricevuta in feudo dalla
città di Corneto. Il comune di Corneto, oggi Tarquinia, in quell'epoca
esercitava la signoria sul territorio dei Monti della Tolfa; infatti,
sempre negli « Annali di Corneto », troviamo varie notizie relative
anche ai secoli XIII e XIV, che parlano di atti di vassallaggio fatti
dai signori di Tolfa Vecchia nei confronti di Corneto, tanto che questa
città nel 1299 interviene direttamente quale giudice nella contesa fra i
vari discendenti del conte Ugolino, che si disputavano i castelli di
Tolfa Vecchia, Monte Monasterio, S. Arcangelo, Civitella, Rota. E'
logico pensare che in prossimità di ognuno di tali castelli ci fosse un
piccolo abitato, ma ormai ne resta unico esempio il castello di Rota che
si erge ancora quasi intatto in posizione elevata circondato da poche
case di contadini. Invece un più consistente nucleo abitativo circondava
il castello di Tolfa Vecchia, i cui abitanti fornivano armati nelle
varie contese locali.
Poche notizie si hanno di quei secoli
oscuri e ancora più scarsi sono i resti monumentali; ma tutto parla di
continue lotte intestine, in cui la proprietà dei castelli passò spesso
di mano. L'impresa più documentata, forse perché più importante, è la
completa distruzione del paese di Tolfa Nuova, sito a pochi chilometri
dal castello di Tolfa in una località detta ancora oggi Tolfaccia. Nulla
sappiamo sull'origine di questo paese e neppure sulla sua consistenza,
se non quello che si può presumere dal suo stesso nome, e cioè che sia
sorto per impulso degli stessi abitanti di Tolfa, cacciati o fuggiti dal
loro paese. Nel 1435 era signore di Tolfa Nuova, fra le altre città, il
prefetto Di Vico e contro di lui mossero il Patriarca Vitelleschi
alleato con l'Orsini e il conte Dolce di Anguillara, le armate dei quali
distrussero completamente il paese che, non si sa perché, non fu più
ricostruito.
Il paese di Tolfa Vecchia, che,
ripeto, era l'abitato più consistente e meglio difeso, perché stretto
intorno ad una rocca in pratica imprendibile per l'altezza e l'asperità
della collina su cui sorgeva, sarebbe divenuto, col passare dei secoli,
l'unico nucleo urbano della zona, perché, con l'affermarsi sempre più
deciso del potere centralizzatore dei papi, finirono o quasi le varie
lotte fra castellani, ed anche ovviamente la funzione dei castelli, che
da allora cominciarono a rovinare, mentre i pochi contadini che li
circondavano preferirono andare a vivere a Tolfa.
Sul finire del 1400 gli unici signori
della zona, i castellani appunto, erano i fratelli Pietro e Ludovico
Frangipane, i quali non vivevano neppure sempre nel castello ormai in
gran parte in rovina, ma si limitavano alla riscossione dei vari
tributi. Di questo periodo non abbiamo però quasi nessun documento, e
probabilmente non sapremmo neppure che il nome dei castellani di allora
era Frangipane, se non fosse accaduto un fatto che cambiò ancora una
volta il volto della zona. Questo fatto fu la scoperta del minerale di
allume in grande quantità compiuta da Giovanni di Castro, che nel 1463
ottenne da papa Pio II la concessione venticinquennale per lo
sfruttamento delle miniere con la facoltà di fabbricare l'edificio
dell'allume.
Numerose sono le fonti di questo
avvenimento e dei successivi, perché l'Europa dipendeva interamente dal
mondo musulmano per l'approvvigionamento di tale minerale,
indispensabile per la tintura delle stoffe e la concia delle pelli,
attività in rapida espansione nell'Italia rinascimentale. L'interesse
per questa zona divenne perciò dominante per la politica pontificia e
già nel 1466 si era arrivati ad una rottura fra il papa Paolo II e i
castellani Frangipane per il possesso del territorio tolfetano. Il papa
spedì un esercito con artiglieria per assediare il paese che fu preso e
incendiato, ma gli assalitori non riuscirono ad impadronirsi della
Rocca, dove si erano asserragliati i Frangipane che chiamarono in aiuto
Orso Orsini che era loro parente. Alla notizia del sopraggiungere
dell'Orsini gli assalitori fuggirono e per intercessione di Napoleonio
Orsini, capitano generale del papa, si giunse ad un compromesso, in base
al quale Paolo II comprò il territorio tolfetano per la somma di 17.300
ducati da camera. Con tale somma i Frangipane acquistarono un contado
nel Regno di Napoli e il territorio di Tolfa fu amministrato da allora
dalla Reverenda Camera Apostolica. Finiti i venticinque anni di
concessione di Giovanni di Castro, le miniere furono affittate da
Agostino Chigi, nobile senese, che ottenne anche la concessione della
Rocca di Tolfa, cioè lo sfruttamento agro-pastorale della zona, con la
facoltà di tenervi un proprio castellano. Nel 1502 tale castellano fu
Nicola Segardi senese, il quale trasportò diversi pezzi di artiglieria
del castello con le armi del Signore della Rocca della Tolfa nelle
fortezze di Portercole e Talamone facenti parte allora del dominio
senese.
Le cave di allume con
l'amministrazione Chigi si svilupparono al di là di ogni rosea speranza,
e il papa stabilì che il ricavato servisse a finanziare la guerra contro
i Turchi, come risulta, tra l'altro, da un atto notarile nell'Archivio
Vaticano, datato 1513, inerente al rinnovo dell'appalto Chigi da parte
di Leone X, che porta come titolo « Appaltum Allumierum Sanctae
Crociatae ». Subito intorno ai luoghi di scavo, in località La Bianca,
nacque un villaggio che raccoglieva le case per gli operai, le stalle
per i numerosi animali da lavoro, i magazzini per gli attrezzi, i forni
per la cottura del minerale e le altre attrezzature richieste dalla
lavorazione dell'allume. In un secondo tempo, le miniere furono
ingrandite a seguito di nuovi ritrovamenti, ed il centro di lavorazione,
nonché le abitazioni, furono un po' spostate e formarono il nucleo
dell'attuale paese di Allumiere. Nelle prime concessioni di affitto
delle miniere sembra non fossero compresi i latifondi, ma
successivamente la Reverenda Camera Apostolica acquistò e unì
all'affitto le vaste tenute adiacenti, e così l'appaltatore delle
miniere esercitava anche un'estesa attività agro-pastorale. Infatti, il
rapporto fra il datore di lavoro e gli operai delle miniere si svolgeva
in modo per noi insolito: l'appaltatore per contratto era tenuto a
corrispondere ai suoi dipendenti, oltre al pagamento in denaro, una
certa quantità di derrate alimentari, che ovviamente traeva dalla
attività agricola, e a tale scopo erano destinati i prodotti raccolti e
conservati in un apposito magazzino.
Tutti questi cambiamenti
influenzarono profondamente il paese di Tolfa, in quanto lo sfruttamento
delle miniere provocò una forte immigrazione di tecnici e funzionari che
si stabilirono con le loro famiglie nel nucleo urbano, contribuendo al
nascere della attuale via Annibal Caro, detta anche via delle Botteghe,
dove furono costruiti alcuni palazzotti di architettura abbastanza
accurata, che sono tuttora visibili seppure degradati. L'arrivo in Tolfa
di ricchi appaltatori accompagnati da numeroso seguito, sconvolse la
tranquilla vita contadina, e tutte le strade parvero animarsi di feste,
balli, gare di poeti a braccio. Tutto questo ci è testimoniato dai
sonetti di A. Caro, segretario al seguito del cardinale Farnese che a
lungo soggiornò nel paese.
L'improvviso aumento della
popolazione e la sua maggiore ricchezza sono testimoniati dalla
contemporanea costruzione di nuove chiese. La prima fu una cappella
ottagonale costruita a spese dello stesso Chigi un po' fuori del paese
di Tolfa, nel luogo dove si diceva fosse apparsa una immagine miracolosa
della Madonna su un albero di sughero, e che perciò è detta « Madonna
della Sughera ». Per lunghi secoli i tolfetani considerarono miracolosa
questa immagine, come si deduce dalle numerose suppliche inviatele in
occasione di vari lutti, per esempio le disastrose pestilenze del 1527 e
del 1580. Ma la chiesa aveva anche un'altra funzione: i padri
agostiniani che vi officiavano, e per i quali fu costruito l'annesso
convento, avevano la cura degli operai che abitavano intorno alle cave
di allume; infatti una cappella di questa chiesa, quella di S. Antonio,
fu parrocchia di Allumiere fino al 1752.
Ma neppure il sito del paese di
Allumiere restò un gruppo di povere case: già sul finire del Cinquecento
papa Gregorio XIII vi aveva fatto costruire l'imponente Palazzo
Camerale, e a pochi passi gli appaltatori fecero edificare una chiesa e
un ospedale per gli operai. A quell'epoca il paese prese il nome di
Allumiere e abbandonò quello vecchio di Monte Roncone, ma restò parte
del territorio di Tolfa.
Le nuove ricchezze affluite al paese
permisero l'ampliamento della chiesa parrocchiale di S. Egidio abate. La
primitiva costruzione fra il 1550 e il 1585 fu totalmente rimaneggiata,
tanto che non si può dare la sua pianta precisa. Il nuovo edificio fu
costruito ad una sola navata con una cappella per lato, ma dopo poco
tempo alla cappella di destra fu addossata un'altra cappella dedicata al
SS. Salvatore, della quale furono patroni gli agricoltori e da dove, per
una scala interna, si scendeva nell'oratorio del SS. Crocefisso,
officiato dalla compagnia della Misericordia e umiltà (detta anche
confraternita del Crocefisso o del Gonfalone), che aveva come scopo il
recupero e la sepoltura dei paesani che morivano nelle campagne lontano
dal paese. In quei medesimi anni venne costruito il bel campanile ancora
in piedi, sormontato da una slanciata cuspide oggi crollata, forse opera
di mastro Bartolomeo da Viterbo. La chiesa fu poi ulteriormente
ingrandita e poté essere consacrata solo all'inizio del XVIII secolo.
La terza e più importante costruzione
religiosa di quest'epoca è la chiesa di Cibona, situata fuori del paese,
lungo una delle strade delle miniere, e purtroppo oggi molto degradata.
Essa è composta di una sola navata di ordine corinzio con tre cappelle
per lato, opera dell'architetto Domenico Castelli. La facciata fu fatta
con opera a cortina e pilastri di travertino da fra' Sigismondo da
Fiesole. Annesso alla chiesa fu costruito il convento che ospitava i
padri eremiti del Senario che dovevano occuparsi di essa. Il Mignanti,
che riferisce su questa chiesa con ricchezza di particolari in un
opuscolo pubblicato a Roma nel 1861, presenta un piccolo quadro d'epoca
col riferire tutte le cause, le controversie, le emozioni che
accompagnarono tale costruzione e che occuparono non poco la piccola
comunità. Egli dice, fra l'altro, che l'impulso alla costruzione venne
dalla fama dell'affresco raffigurante una Madonna, di una piccola
cappella lì vicino, che si diceva avesse sanguinato per una sassata
lanciatagli contro. La chiesa si poté inaugurare solo nel 1648 con la
traslazione dell'affresco miracoloso ed una fastosa cerimonia a cui
parteciparono tutto il popolo e le autorità. Per inciso, si può
ricordare che agli eremiti del Senario si deve attribuire anche la
primitiva utilizzazione del Monte delle Grazie, dove si ritiravano per
stare in completo isolamento e dove sorse poi la chiesetta, oggi molto
nota. Nei secoli seguenti le miniere di
allume continuarono a prosperare e a dare la loro impronta alla zona,
passando nelle mani di diversi appaltatori. Intorno al 1650 un certo
Boschi trovò presenza di minerale ferroso nelle colline calcaree a
sud-ovest delle miniere di allume, e una società ottenne molti anni dopo
il permesso di scavare qualsiasi minerale escluso l'allume. Questa
società cominciò con l'estrarre il ferro alle falde della collina detta
“La Roccaccia” e in altra cava detta `Le Ferriere', in prossimità della
quale fu costruito l'edificio di lavorazione del minerale. Ma la fusione
del ferro non dette i risultati sperati e perciò, abbandonata la cava, i
soci stabilirono la lavorazione del minerale di piombo nel frattempo
scoperto. In queste miniere il minerale più abbondante era costituito da
galena o solfuro di piombo, da solfuro di zinco, da solfuro di antimonio
cristallizzato e da abbondante pirite di rame. Per la fusione del piombo
fu costruito un edificio detto ancora oggi `edificio del piombo. Ma le
impurità dei minerali, unitamente ai metodi di lavorazione di quel
tempo, non permisero mai di ricavare un utile che compensasse le spese e
così dopo vari tentativi le miniere furono chiuse.
Per tre secoli a partire dalla
scoperta dell'allume la vita si svolse in modo prospero e tranquillo e
il paese assunse un carattere quasi cittadino, dotato di tutti i servizi
compreso un ospedale, e con una certa stratificazione sociale, che
opponeva i contadini e gli allevatori a tecnici e ingegneri delle
miniere, impiegati del Comune, amministratori civili e religiosi.
Ma in seguito alla rivoluzione
francese e alle campagne napoleoniche in Italia anche lo Stato
Pontificio fu scosso, e venne proclamata la Repubblica Romana. Questi
avvenimenti ebbero tragiche ripercussioni sulla vita del paese di Tolfa
che ne fu completamente sconvolta, e di essi restano numerose
testimonianze raccolte da Ottorino Morra, che si servì anche degli ampi
appunti lasciati dal Bartoli. Nella frettolosa riorganizzazione di tutto
il territorio pontificio, fatta dai nuovi amministratori e dagli alleati
francesi, fu attuata una nuova divisione in cantoni senza tener conto
dei legami tradizionali fra le varie città. Tolfa e la sua frazione di
Allumiere furono poste nel sesto cantone insieme a Corneto e Montalto.
Nei primi tempi non ci fu alcun cambiamento evidente nello stato delle
cose, se non l'arrivo e la sistemazione nei vari conventi dei religiosi
espulsi perché si erano rifiutati di giurare fedeltà alla repubblica. Ma
ben presto i francesi giunsero nel paese e insediarono nuovi
amministratori comunali.
Non sappiamo come í paesani accolsero
le novità, ma certo non furono contenti delle nuove tasse stabilite in
grave misura dai francesi che avevano bisogno di fondi per le guerre che
stavano combattendo. Ben presto il Comune non riuscì a far fronte ai
nuovi oneri e dovette rivolgersi alle varie organizzazioni locali fra
cui il Capitolo della Collegiata e l'Università di Mosceria, cioè
l'associazione di allevatori che controllava il territorio da pascolo.
Anche l'appaltatore delle miniere di allume, che in quel periodo era
Carlo Giorgi, dovette consegnare tutto l'allume giacente nei magazzini,
e poco dopo, il 14 giugno 1798, le miniere stesse vennero vendute ad una
compagnia di soci romani e genovesi per la somma di 600.000 scudi
romani; i nuovi proprietari si impossessarono anche del con-vento di
Cibona e dei boschi di Sbroccati e Cerreto Grande nonostante il Comune
dimostrasse che tali zone non appartenevano alla miniere. A seguito di
tale stato di cose l'economia e la situazione sociale del paese vennero
gravemente turbate: ne è prova la soppressione del convento di Cibona e
la sospensione delle riunioni del Capitolo della Collegiata di S. Egidio
e delle altre confraternite che operavano nel paese. Così, non appena le
truppe napoletane invasero l'ex-Stato Pontificio, e le truppe francesi,
che avevano un forte concentramento a Civitavecchia, si trovarono in
pericolo, l'insurrezione popolare esplose. Presto i napoletani furono
battuti, ma ormai Civitavecchia e Tolfa erano in rivolta, non con gruppi
isolati ma con la partecipazione di tutta la municipalità.
Alla fine del gennaio 1799 il governo
centrale di Roma decise di domare con le armi i rivoltosi, ed inviò a
Cívitavecchia alcune truppe al comando del generale Merlin. La città fu
assediata ed i tolfetani cercarono di aiutarla riuscendo ad introdurre
vettovaglie e compiendo azioni di disturbo per impedire che giungessero
rifornimenti agli assedianti. Dopo più di due mesi di duro assedio, il 6
marzo 1799 Civitavecchia capitolò, ma i francesi non vollero che Tolfa
fosse compresa nella capitolazione. Il paese si preparò quindi ad una
nuova lotta, e sulla gradinata della Chiesa di S. Giovanni, oggi
distrutta, il popolo adunato in assemblea decise per la resistenza ad
oltranza.
Seguirono giorni confusi di cui si
hanno testimonianze ovviamente discordanti: da parte francese nella
relazione del generale Merlin è detto che gli insorti si comportarono
come briganti rubando le vettovaglie delle miniere e pretendendo
bestiame dai proprietari. Inoltre egli accusa gli insorti di aver
fucilato un suo « ambasciatore ». Ma testimonianze tolfetane, riportate
dal Bartoli, dicono che il fucilato era una spia e non un « ambasciatore
». Comunque il generale doveva ad ogni costo domare il focolaio della
rivolta, e così il 14 marzo 1799 inviò 1500 uomini divisi in tre colonne
che assalirono il paese da tre strade: una colonna seguiva la via
Civitavecchia-Tolfa; una seconda la S. Severa-Tolfa e la terza la strada
Farnesiana-Allumiere-Tolfa. Prima di sera due colonne si riunirono ad
Allumiere che fu completamente devastata, dopo una prima resistenza
sulla strada della Farnesiana in località « Trincee »; poi le due
colonne si acquartierarono presso la Sughera e precisamente nel convento
della stessa chiesa, forse per attendere la colonna proveniente da S.
Severa, che però non giunse anche per le difficoltà incontrate
nell'attraversare i folti boschi allora esistenti in quella zona.
Durante la notte i tolfetani fecero fuggire nelle campagne i vecchi, le
donne e i bambini, mentre i combattenti più decisi si rifugiarono entro
le vecchie mura del castello Frangipane, che aveva l'ingresso della
prima cinta muraria presso l'attuale Chiesa del Crocefisso. Il giorno
dopo le truppe iniziarono l'occupazione e la distruzione sistematica del
paese, contrastati passo per passo e casa per casa dai tolfetani. Questi
però dovettero cedere al numero e alle migliori armi degli attaccanti
che riuscirono a debellarli solo incendiando ogni abitazione, come
precisa la relazione dello stesso generale Merlin ai suoi superiori, una
parte della quale è oggi incisa in una lapide murata nell'alto della
Rocca. Gli ultimi irriducibili, asserragliati entro le mura del
castello, si arresero dopo il proclama del generale Merlin che
prometteva salva la vita a chi avesse consegnato le armi, ma furono
rinchiusi nella chiesa della Sughera, e immediatamente dopo ne furono
fucilati 144. Dopo ciò le truppe francesi si allontanarono con alcuni
prigionieri che furono rinchiusi a Castel S. Angelo in Roma. Dopo pochi
mesi, alla fine di settembre, la Repubblica Romana cadde per l'attacco
congiunto delle truppe napoletane e inglesi.
Le distruzioni subite dal paese in
tali circostanze furono tali che esso non se ne risollevò mai del tutto.
Il saccheggio e la spoliazione furono sistematici, anche perché è da
supporre che durante la furiosa battaglia del 14 il paese fosse evacuato
in tutta fretta, quindi senza la possibilità per nessuno di salvare
qualcosa di più dello stretto necessario. In quell'occasione furono
spogliate anche le chiese dei loro arredi, vasi sacri, candelabri,
statue come quella di S. Egidio in argento dorato, quadri come quello
della Madonna della Sughera ecc., nonché furono depredate tutte le case
in cui il fuoco aveva risparmiato qualcosa, e non furono solo rubati
armi e generi alimentari, ma anche indumenti personali e tutto
l'asportabile.
La rappresaglia francese .per la
strenua resistenza tolfetana giunse a provocare la distruzione anche dei
mulini, ubicati lungo i fiumi in quanto azionati da forza idrica.
Così furono distrutti i mulini di
Rota sul Mignone, delle Molette sui Due Fossi, e della Farnesiana sul
Molledra, tanto che i tolfetani, non appena rientrati e posti nella
necessità di molire il grano, erano costretti a recarsi nel lontano
mulino di Monterano ubicato sul Mignone all'altezza dell'attuale
castello diruto di Monterano Vecchio. Ebbene, il complesso edilizio di
Monterano, castello del feudo Altieri, fu distrutto nel 1802 perché
alcuni tolfetani furono obbligati dai francesi a molire del grano
occorrente alle truppe francesi per la loro panificazione. I
Monteranesi, saputo questo, si rifiutarono di molire il grano che fece
ritorno a Tolfa non macinato. Allora per ritorsione i francesi, con buon
nerbo di soldati, si recarono a Monterano e lo incendiarono distruggendo
il mulino, il castello, la chiesa e quanto altro formava l'abitato di
Monterano, del quale si possono ancor oggi vedere le rovine.
Con la caduta della Repubblica Romana
del '99 Tolfa riprese a vivere, seppure in mezzo alle distruzioni. La
vita andava riprendendo molto lentamente, anche perché le miniere erano
pressocché smantellate a seguito della vendita di esse alla società
romano-genovese poi revocata, e Tolfa, che aveva vissuto un salto di
qualità da un'economia prettamente agricola ad un'economia
agricolo-industriale proprio per la presenza delle miniere di allume,
dovette subire un ristagno che si aggravò con il passare degli anni,
perché al minore introito delle miniere si aggiunse la necessità di
riformare il patrimonio zootecnico falcidiato dagli avvenimenti narrati.
Pochi anni dopo, inoltre, lo Stato
Romano fu forzatamente aggregato all'Impero napoleonico. Furono cinque
anni, dal 1809 al 1814, di grandi difficoltà per il paese sottoposto a
pesanti tasse e dichiaratamente ostile al nuovo regime, tanto che non
solo gli ecclesiastici ma anche i dirigenti civili rifiutarono il
giuramento di fedeltà.
Caduta la prima Repubblica Romana e
ripristinato il Governo Pontificio, per risolvere i rapporti
estremamente complicati venutisi a creare con la Società che aveva
acquistato le miniere durante la rivoluzione, si giunse ad una soluzione
di compromesso, con la quale la stessa Società ottenne dalla Reverenda
Camera Apostolica l'affitto delle miniere per un periodo di trentasei
anni e per un canone annuo di trentaseimila scudi e di quattrocento
rubbie di grano. Peraltro, questo accordo fu rescisso nel 1824 e le
miniere con gli annessi latifondi furono gestiti in proprio dalla
Reverenda Camera Apostolica che ne affidò l'amministrazione al Marchese
Calabrini.
In questo periodo si ricostruirono
gli edifici industriali, si costruirono case per i lavoratori, si cercò
insomma di riattivare tanto le cave di allume di rocca, che durante i
torbidi si erano pressoché riempite di macerie, quanto di ripristinare
la fabbricazione e il commercio dell'allume.
Tutti gli sforzi fatti furono però
vanificati dalla scoperta dell'allume artificiale che privò di ogni
valore commerciale il puro minerale di rocca non più competitivo sui
mercati mondiali.
I Pontefici che si susseguirono fino
al 1870 tentarono in vari modi di mantenere l'attività industriale delle
miniere senza però riuscire a frenarne la decadenza tanto che l'ultimo
direttore, il barone Klitshe de la Grange, basava la sua attività più
sullo sfruttamento dei latifondi che su quello delle miniere. Con
l'avvento dell'unità d'Italia, quest'ultimo direttore ricevette come
liquidazione una superficie di cento ettari di territorio limitrofo alla
Chiesa di Cibona e parte dell'omonimo convento.
Nel corso dell'Ottocento si tentò
pure di riaprire le miniere di ferro e di piombo. Per la lavorazione di
tali minerali si costruì anche una fornace presso il fosso S. Lucia
sotto Cibona, ancor oggi nota come « Delfizio ».
Questa attività, abbastanza proficua,
finì bruscamente nel 1876. Proseguì invece, seppure con alterne vicende,
l'estrazione dell'argilla plastica, del caolino e della marna iniziata
nel 1856. Si tentò in quel periodo anche la lavorazione del carbon
fossile e dei solfuri di rame, zinco, antimonio e mercurio, ma la scarsa
quantità dei minerali non permise nessun avvio industriale. Durante tutto il secolo i cittadini
di Tolfa parteciparono molto poco alle vicende della vita nazionale ed
al travagliato periodo risorgimentale come risulta dai documenti
dell'Archivio Comunale; tuttavia nel 1870, nel plebiscito per l'adesione
al Regno d'Italia, votarono compatti per il sì.
Intanto, intorno al 1850, la
parrocchia di Tolfa era passata alla diocesi di Civitavecchia, dopo
essere stata per quasi quattro secoli, e precisamente a partire dal
1469, parte della diocesi di Sutri, mentre ancor prima era appartenuta
alla diocesi di Corneto. Divenne vescovo allora un giovane prelato di
Allumiere, Teodolfo Mertel, primo di una serie di valenti vescovi locali
e perciò vicini alle esigenze della popolazione. Fu deciso anche di
costruire un seminario in Tolfa, in località « Prato della Misericordia
» presso la chiesa omonima, oggi dissacrata, subito fuori dell'abitato.
L'edificio del seminario non servì
mai all'uso per cui era stato costruito, ma fu caserma per le truppe
francesi che appoggiavano il papa durante gli ultimi anni del governo
pontificio, e, dopo il 1870, fu sede del Comune e della scuola pubblica.
Oggi, dopo la costruzione di appositi edifici per le scuole elementari e
medie, ospita gli uffici comunali ed un piccolo museo. Lo Stato italiano diede in appalto le
miniere di allume ad una società francese, e tutto il complesso
industriale per la lavorazione del minerale fu trasferito a
Civitavecchia. Questo fatto rappresentò, per la zona dei Monti della
Tolfa, la chiusura di un'epoca: dal 1463 le vicende della miniera
avevano caratterizzato la vita del paese dandogli una fisionomia
piccolo-industriale, mentre a partire dal 1870 l'agricoltura e la
pastorizia rimasero le uniche risorse.
D'altronde nel corso del secolo tutto
il territorio era tornato ad una fisionomia prettamente agro-pastorale;
si precisarono in questo periodo alcune forme associative di contadini e
di pastori, tanto che nel 1810 venne promulgato il primo regolamento
unificatore delle due Università di Agricoltori e di Boattieri di cui
Basilio Pergi parla più diffusamente in una delle appendici.
E' da notare che nel 1826 era stato
distaccato dal territorio comunale di Tolfa il comune di Allumiere, che
andò sviluppando anch'esso una economia del tutto simile a quella di
Tolfa, e cioè una economia contadina senza più tracce dell'antica
attività operaia. Ben modeste furono da allora in poi le innovazioni del
tessuto urbano: la costruzione di due fontane pubbliche (una opera
dell'ing. Klische de la Grange) che resero più agevole alle donne
l'approvvigionamento dell'acqua, per il quale fino a quel momento erano
dovute andare alle tre fontane di Canale, della Lizzera e della
Limojola, abbastanza lontane.
La decadenza dell'economia si
rifletté nella fine di vecchie e gloriose istituzioni: la prima a cadere
fu quella del convento di Cibona, poi s'impoverì e se ne andò la
famiglia agostiniana della Sughera, il cui giardino venne utilizzato per
la costruzione dell'attuale cimitero; si è riusciti a salvare la chiesa
dall'usura del tempo, ma il monastero è ormai in stato di grave degrado
ed ospita una officina meccanica. Si estinse agli inizi del ventesimo
secolo la Congregazione del SS. Nome di Dio; i locali dell'Ospedale e
della Chiesa di S. Giovanni furono trasformati in appartamenti, e
dell'edificio originale resta ormai solo la facciata sulla piazza
vecchia. Anche la comunità dei Cappuccini ha lasciato il paese ma la
chiesa è ancora in funzione, mentre il monastero serve ad ospitare il
gruppo archeologico G.A.R.
L'economia e la cultura contadina
sono perdurate in Tolfa fino alla seconda guerra mondiale. Dopo di ciò
vi è stato il progressivo abbandono delle campagne, e gli abitanti di
Tolfa, richiamati dal più vantaggioso guadagno, sono diventati
lavoratori pendolari con le vicine città di Civitavecchia e Roma, pur
mantenendo una ridotta attività agricola limitata alle sole giornate
festive. Oggi Tolfa non può più dirsi una comunità agricola perché vive
di introiti derivanti, per la maggior parte, da attività svolte al di
fuori del paese, e solo in minima parte da introiti della pastorizia,
più che della vera e propria agricoltura, e di un po' di turismo estivo
che potrebbe essere ancora molto più sviluppato.
In questo ultimo periodo la massiccia
influenza dei mezzi di comunicazione di massa e l'abbreviarsi delle
distanze grazie alla abbondanza dei mezzi di trasporto hanno infranto
l'unità socio-culturale di quel mondo contadino che ormai si può
ricostruire solo in base ai ricordi. Per il naturale incremento
demografico degli ultimi decenni il paese si è notevolmente sviluppato
allargandosi dalle pendici del monte della Rocca per tutta la via della
Lizzera e poi della Sughera, attuali Via Roma e Viale Ita¬lia, mentre
sono sorte zone residenziali di ville in località la Pacifica e Cibona.
Ciò ha cambiato notevolmente la fisionomia del paese ma non ha ancora
deturpato il suo nucleo storico.
GIOVANNA PERGI
GIORNO PER GIORNO
FRA OTTOCENTO E NOVECENTO
Negli anni a cavallo dei sec. XIX e
XX Tolfa viveva esclusivamente di agricoltura e pastorizia e pressochè
tutta la popolazione dipendeva da queste attività che trovavano il loro
naturale sbocco nel mercato di Civitavecchia per i prodotti agricoli e
nella famosa fiera di Viterbo per quelli zootecnici.
Si deve pure tenere presente che nel
periodo in esame Tolfa non era fornita di elettricità e quindi la vita
era regolata dal sorgere del sole e dal suo calare, nonché dai lavori
agricoli richiesti in ogni stagione o particolare periodo.
Con tali premesse ambientali è ovvio
come la vita quotidiana fosse imperniata e dipendente dall'andamento
stagionale, dall'abbondanza o meno dei raccolti ed infine
dall'avvedutezza delle brave madri di famiglia che lasciavano, pur
aiutandoli nei periodi di punta (semina, mietitura, vendemmia ecc.)
tutta la direzione della piccola azienda famigliare agli uomini, tenendo
per loro l'andamento economico della famiglia. In altre parole il marito
badava a produrre i beni vendibili, la moglie badava a spendere il meno
possibile di quanto introitato dal marito, intervenendo però nelle
vendite, nella scelta dell'acquirente e soprattutto cercando di spuntare
il prezzo più alto possibile dal prodotto ottenuto con tanta fatica di
tutti i componenti la famiglia, nessuno escluso, e quindi era la donna
dopo lungo conciliabolo con gli altri membri a decidere se comperare o
meno un paio di scarpe o un vestito; se allevare uno o due magroni in
quanto le scorte di semola erano più o meno abbondanti ecc. Ed era
ancora la moglie a decidere quanto e quale prodotto lasciare per il fabbisogno famigliare e quale e
quanto prodotto destinare alla vendita. Se vi era una figlia da marito
necessitava preparare in tempo il corredo e la moglie provvedeva alla
bisogna con piccoli risparmi che le permettevano nel giro di quindici o
venti anni di accumulare un anno, alcuni lenzuoli e l'altro alcuni
asciugamani e via dicendo, mentre per la spesa e soprattutto per il
pranzo nuziale il padre allevava appositamente un vitello che veniva
sacrificato in quella occasione.
Per meglio chiarire quanto su detto,
è bene ricordare che pressoché tutti i tolfetani erano proprietari in
assoluto o in forma associativa di alcune vaccine da corpo che
producevano carne da macello e ottimi buoi da lavoro, di alcuni cavalli
da sella ricercatissimi alla già ricordata fiera di Viterbo che si
svolgeva due volte l'anno, in primavera e in autunno.
Essi possedevano inoltre una vigna
che produceva l'ottimo e decantato vino della Tolfa, e ortaggi di vario
tipo oltre a legumi e conserve che venivano conservati per il lungo
inverno o, a tempo debito e stagione permettendo, venduti per comprare
quanto non era possibile produrre in proprio.
Il prodotto maggiore erano i cereali
ed il vero introito che decideva se l'inverno sarebbe stato più o meno
duro era dato dal grano, che veniva venduto tramite intermediari locali,
ai grandi molini dopo avere lasciato la scorta necessaria alla semina
della nuova stagione ed al fabbisogno famigliare. In sintesi, l'economia tolfetana era
basata come sempre in passato, sul consumo di prodotti propri e
sull'introito dei prodotti venduti nei vicini mercati. Con una economia siffatta tutta la
famiglia era chiamata a concorrere all'ottenimento del maggior profitto
possibile con la minore spesa e perciò la vita paesana doveva cominciare
ben prima del levar del sole e terminare ben dopo il tramonto.
Il
massimo avvenimento della zona era la fiera di Viterbo, ove i tolfetani
si recavano due volte l'anno per vendere il loro bestiame e per approvvigionarsi
di lane, panni e quanto necessario per il vestiario e per il corredo matrimoniale.
Infatti Viterbo, a quei tempi, era ritenuta molto più economica e vantaggiosa
della vicina Civitavecchia, raggiungibile tuttavia più facilmente o con
la diligenza o con i famosi carretti, che tre volte la settimana, trainati
da tre muli, partivano da Tolfa con i prodotti del suolo, in particolare
con ortaggi e frutta, accompagnati dalle « bagherine ».
In
genere le bagherine erano le mogli degli ortolani di Tolfa che portavano
i loro prodotti sistemati in « ciste » al mercato di Civitavecchia, per
essere sicure di spuntare un buon prezzo ma soprattutto per vendere la
deperibile merce rappresentata da ortaggi e frutta. Questo traffico veniva
attuato in maniera immutata da secoli: il produttore di ortaggi e frutta,
nei giorni stabiliti preparava le some, cioè due grosse e profonde ceste
fatte con fruste di castagno, riempendole con insalata, sedani, pomodori,
fagiolini, ciliege, fichi, pesche ecc. a seconda della stagione e le portava
ai carrettieri trasportandole a dorso di asino dal suo orto, di solito
non troppo vicino al paese e raggiungibile da strade atte solo ai muli
e agli asini. Ricordiamo che le strade sterrate allora esistenti, ma solo
quelle principali e in parte, furono selciate con grossi ciotoli e sovrastante
manto di pietrisco, una specie di basolato mal fatto, solo durante la
guerra 1915-18, da prigionieri che alloggiavano nel convento della Sughera
e che venivano utilizzati o dai privati, dietro compenso, nei lavori dei
campi o per opere pubbliche come il miglioramento delle strade di campagna.
Comunque
le some raggiungevano il paese ed al loro arrivo erano caricate direttamente
sul carro del carrettiere prescelto. Circa alla mezzanotte era fissata
la partenza ed il carro, tra i richiami dei ritardatari, lo scalpiccio
dei muli e lo schioccare delle fruste, partiva alla volta di Civitavecchia
ove giungeva dopo circa quattro ore, e quindi alle primissime luci dell'alba,
al mercato. Qui le bagherine
vendevano il loro prodotto e quelli affidati loro e quindi si recavano
in giro per la città ad eseguire tutte le piccole commissioni delle quali
erano state incaricate,
e questo
perché le bagherine non solo erano le venditrici dei prodotti propri e
di quelli affidati loro, ma erano anche coloro che tenevano i contatti
tra i paesani, sempre troppo occupati nei lavori dei campi, e gli uffici
statali; inoltre esse provvedevano a sbrigare tutte le pratiche con gli
uffici non presenti in Tolfa ed infine curavano l'acquisto di quanto richiesto
loro: in altre parole, la bagherina era il tramite fra il paese e la più
fornita città.
Sul
mezzogiorno, una per carro, le preziose bagherine ripartivano da Civitavecchia
per giungere dopo quattro o cinque ore a Tolfa, ove il carrettiere provvedeva
a curare le sue bestie ed il carro fino a notte mentre le bagherine davano
conto delle ordinazioni ricevute e del loro esito.
La
vita tolfetana non era sempre così dura e faticosa, ogni tanto vi erano
giornate di festa come quella del patrono S. Egidio Abate festeggiato
il primo settembre, o di S. Antonio Abate, festeggiato il 17 gennaio,
o di S. Michele Arcangelo festeggiato il 29 settembre. Poi vi erano le
cresime, che venivano impartite con grande pompa dal Vescovo nella Collegiata
di S. Egidio ove convenivano tutti i cresimandi accompagnati dai rispettivi
padrini e madrine, con grande sfoggio di vestiti nuovi e pranzi pantagruelici,
o i matrimoni, festa per eccellenza che merita una parola a parte.
I
due giovani, dopo un più o meno lungo periodo di fidanzamento, iniziatosi
con le famose serenate sotto il balcone dell'amata e seguito da incontri
in casa sotto il vigile sguardo materno, iniziavano i preparativi matrimoniali
con il giorno dello « stacco ». In tale giorno i fidanzati, accompagnati
dalle rispettive madri, si recavano a Civitavecchia o a Viterbo, tramite
la diligenza giornaliera per Civitavecchia e bisettimanale per Manziana
dove passa la ferrovia Roma-Viterbo e qui provvedevano all'acquisto del
vestito per gli sposi, agli ultimi capi di corredo, perché al grosso del
corredo stesso le madri prudenti avevano già provveduto fin dai primi
anni di vita della figlia, ed agli ori che per lo più si riducevano alla
sola fede della sposa ed a qualche ninnolo come orecchini, anellini, collanine
ecc., ma solo per le persone più abbienti.
A
tali spese si suppliva, oltre che con le economie accumulate dalla accortissima
madre, con la vendita di una o più vaccine del branco paterno, perché,
ripetiamo, una delle più cospicue ricchezze del paese era data proprio
dalla consistenza della mandria di bestiame, allevata in forma associativa
sui terreni dell'Università Agraria di Tolfa.
Dunque
in Tolfa si provvedeva alle spese extra con la vendita di qualche capo
di bestiame del branco paterno che poi alla morte del proprietario avrebbe
formato, equamente diviso, il gruppo base, che si diceva la « razzetta
» cioè la piccola razza o qualità del branco di ciascuno dei figli maschi.
Infatti alla figlia andava la dote e ai maschi il capitale terriero, urbano
o mobile come il bestiame.
Finalmente
si giungeva al giorno del fatidico sì.
In
questo giorno lo sposo, con il vestito nuovo e accompagnato dai genitori
e dagli amici invitati, si recava a prendere la sposa, cioè andava sotto
la casa della sposa ed aspettava finché questa con l'immancabile vestito
bianco e il lungo velo scendeva insieme con i genitori e il folto gruppo
dei suoi invitati: qui si formava il corteo nuziale.
Apriva
il corteo la sposa a braccetto del padre, poi venivano lo sposo a braccetto
della propria madre, poi, sempre a coppie, tutti i parenti badando bene
che ogni famigliare dello sposo fosse accoppiato con un famigliare della
sposa e ciò quasi a sottolineare il vincolo che si veniva a creare fra
le due famiglie con il matrimonio dei due giovani. Seguivano poi, sempre
in coppie di un maschio e di una femmina, tutti gli invitati non famigliari
fra i quali le amiche della sposa che non mancavano di lanciare sguardi
assassini ed infuocati al probabile spasimante che, guarda caso, la madre
aveva provveduto a far loro capitare come occasionale accompagnatore.
Il
corteo si snodava sotto gli sguardi e i commenti di tutto il paese, che
così partecipava alla gioia degli sposi magari con qualche commento maligno
o con qualche punta di invidia da parte di chi avrebbe voluto essere al
posto dei felici protagonisti.
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