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Basilio Pergi
 

 

Giunti alla porta della chiesa, più o meno addobbata, gli sposi trovavano ad attenderli il parroco che li guidava all'altare maggiore nelle apposite poltroncine rispolverate per il fausto caso.

Ultimata la cerimonia, si riformava il corteo ma questa volta aperto dai novelli sposi e la sposa finalmente poteva appoggiarsi con una certa inutile forza al braccio del nerboruto sposo ben felice di sopportare il dolce peso. Seguivano, quasi a suggellare l'unione fra le due famiglie, la madre dello sposo al braccio del padre della sposa, poi la madre della sposa più o meno fintamente lacrimevole al braccio del padre dello sposo, infine le coppie di vari parenti e amici e tutti si dirigevano al luogo fissato per il banchetto, fra due ali di popolo festoso e curioso e fra il lancio di confetti che provo-cava sempre notevole intralcio perché i bimbetti si scatenavano e litigavano per raccoglierli fin tra le gambe degli sposi, dove i confetti erano stati malignamente e festosamente diretti.

Qui si deve precisare che in quel tempo in Tolfa non esistevano ristoranti atti a raccogliere tante persone, per cui il pranzo nuziale si effettuava in qualche magazzino opportunamente ripulito ed attrezzato con tavoli e banchi presi in prestito dalle numerose osterie allora funzionanti ed oggi sostituite da trattorie o bar.

Ovviamente il pranzo doveva essere veramente pantagruelico e abbondante. Iniziava con affettati vari come antipasti; seguiva un abbondante piatto di fettuccine al ragù fatte in casa con uova di giornata ed ogni porzione richiedeva almeno un uovo; poi un abbondante piatto di pollo arrosto con insalata, (una porzione era circa mezzo pollo e l'arrosto poteva anche essere di agnello o di maiale ma sempre nella quantità suddetta); poi giungeva un'ottima scodella di pastina in brodo; poi un piatto di carne in umido; infine la frutta di produzione locale. La torta e la distribuzione di confetti chiudevano, dopo più di due ore, il pranzo. Ovviamente il tutto era annaffiato da abbondantissimo ed ottimo vino di produzione locale, che rendeva i partecipanti oltremodo euforici ed i lazzi agli sposi non mancavano, ma, anche se talvolta pesanti, non erano mai offensivi. A pranzo ultimato, magari sorreggendosi a vicenda, ognuno andava a casa propria e gli sposi, sull'unica carrozza di posta esistente, raggiungevano Civitavecchia o Manziana per recarsi in viaggio di nozze a Roma, meta agognata e mai vista prima di allora, dove trascorrevano tre o quattro giorni, dopo i quali tornavano al paese per riprendere il duro lavoro dei campi e vivere nella loro nuova casa preparata dai genitori accomunati in tale fatica e che avevano seguito precise norme non scritte: lo sposo forniva i mobili e la sposa la casa, oppure lo sposo aveva provveduto al pranzo nuziale e la sposa forniva anche parte dei mobili.Torna su

Nello svolgimento della vita quotidiana a Tolfa la maggiore fatica forse era sostenuta dalle donne. Infatti erano esse che dovevano provvedere a trasportare l'acqua dalle due sole fontane paesane, ubicate in piazza vecchia (piazza Matteotti) ed in piazza dell'Olmo, fino alla casa; esse dovevano ricucire gli indumenti maschili troppo spesso strappati dai rovi di campagna; dovevano fare il bucato portandosi ai lavatoi di Canale o della Lizzera o della Limojola, i soli tre lavatoi pubblici allora esistenti ed inoltre erano addette anche a scegliere il grano per le semine o le ginestre occorrenti per legare le viti.

Un ricordo particolare merita il Pozzo della Neve esitente in Tolfa ed ubicato in prossimità delle « carceri delle vacche », ai piedi di un colle detto « Poggiarello ». Il pozzo della Neve era un vero e proprio pozzo a forma di imbuto, sul cui fondo esisteva una specie di drenaggio appositamente creato per lo smaltimento dell'acqua risultante dallo scioglimento della neve. Il corpo dell'imbuto era rivestito di una parete in legno, leggermente distaccata dalla retrostante parete in terra, che formava una intercapedine atta a mantenere il più possibile la temperatura costante.

Nel periodo invernale questo pozzo veniva aperto e riempito di neve opportunamente pressata e poi ricoperto con paglia e fascine in modo da isolare o quasi la temperatura interna, sul tutto si metteva uno strato di terra battuta.

Nell'estate seguente, tolto il tappo di chiusura formato dalla terra e dalla paglia, si trovava un bello strato di ghiaccio leggermente giallognolo che serviva per il refrigeramento necessario nelle case e nelle gelaterie ma soprattutto per creare la famosa « gratta checca »: ghiaccio grattato con qualche goccia di un qualunque succo di frutta.

 

II  IL MESTIERE DI CAMPAGNOLO

 

I rapporti intercorrenti nei primi decenni del secolo fra tolfetani ed Università Agraria sono quanto mai sintomatici per la comprensione della vita a quell'epoca.

L'attività dell'agricoltura era rigidamente guidata dai lavori richiesti in campagna dalle due maggiori attività dei contadini del paese: la semina di cereali e l'allevamento del bestiame, rimanendo per la maggioranza attività supplementare la coltivazione del piccolo orto familiare e la piccola vigna ampia quel tanto o poco bastevole al consumo famigliare.

La coltura cerealicola, quasi esclusivamente grano duro, data la stragrande maggioranza di terreni eminentemente argillosi della zona, veniva effettuata su campi che di anno in anno l'Università concedeva per un solo biennio a tutti i tolfetani che ne facevano richiesta; tale concessione era fatta annualmente perché ogni tolfetano potesse avere a disposizione un appezzamento a « maesi » (cioè maggese = primo anno di semina) ed un appezzamento a « colti » (cioè un ringrano o semina di cereali sullo stesso terreno per due anni consecutivi).

L'Università, dunque, ogni anno destinava alcune centinaia di ettari a semina, quindi divideva tutta la zona destinata a questo scopo in tante parti quante erano le richieste ricevute e le « parti » (perché l'appezzamento ricevuto in godimento da una persona aveva proprio il nome di « parte ») venivano consegnate al richiedente. Da notare che la destinazione delle parti avveniva per pubblico sorteggio.

L'agricoltore, venuto in possesso della sua parte dopo l'otto maggio, poteva iniziare i lavori di dissodamento ovvero del maggese, che avvenivano o con l'aratro-chiodo se l'agricoltore era anche proprietario di buoi da lavoro, o a mano con il « picchio », specie di zappa a due lame contrapposte, se l'agricoltore non possedeva buoi da lavoro e non voleva pagare le « vicenne » cioè il lavoro fatto da proprietari di buoi da lavoro per conto terzi e che per una giornata di sei ore veniva chiamato appunto « vicenna ».

Il lavoro di « rompitura », che in genere si protraeva per tutta l'estate, era quanto mai faticoso per la consistenza del terreno non ancora intenerito dalle piogge, ma doveva essere eseguito in quel periodo per far prendere il sole e quindi l'azoto alle terre che andavano a coltivarsi. In quel periodo, prima ancora del levarsi del sole, nelle strade tolfetane era tutto un risuonare di richiami ed un calpestio di asini e cavalli caricati del necessario per il lavoro e delle provviste per la vita in campagna che si accingevano a vivere i tolfetani.Torna su

I contadini si recavano nelle varie casette poste in prossimità del luogo di lavoro e che sarebbero state l'abitazione comune dei lavoratori per tutta una lunga settimana, perché era costume normale di quei tempi andare in campagna il lunedì e tornare a casa in paese solo il sabato a notte inoltrata. Tutt'al più uno dei componenti la compagnia tornava in paese il mercoledì sera per « prendere la spesa », cioè prendere i viveri necessari per tutta la compagnia e tornare al lavoro il giovedì mattina. La spesa consisteva quasi sempre ed esclusivamente in pane, lardo ed olio che veniva tenuto entro un apposito corno di bue, ben vuotato all'interno, pulito, chiuso nella parte più grossa e cioè verso l'attacco alla cervice e con un piccolo forellino sulla punta del corno stesso, da dove era possibile far fluire un filo di olio che veniva così distribuito sulla « acquacotta » o sulle verdure fresche che formavano il pasto dei contadini. Con questo sistema si riusciva a consumare meno olio, che peraltro nel corno si conservava meglio che in altri recipienti senza correre il rischio che una rottura del contenitore lo disperdesse; per i più fortunati c'era anche un pezzo di carne conservata o un pezzo di formaggio o una aringa.

Il lavoro era regolato dal sole e dagli usi locali consoli-dati dagli anni: al levar del sole tutti si alzavano dalla « rapazzola » comune e si recavano al vicino fontanile per lavarsi, poi prendevano i loro attrezzi, se ne avevano voglia un pezzo di pane, e si recavano al lavoro. Verso le nove, ma le azioni erano solo governate dal sole perché nessuno portava un orologio, il lavoro veniva interrotto per una breve colazione composta di pane e formaggio o affettati casalinghi e si riprendeva il lavoro fin verso le sei, cioè fino alla calata del sole, ora in cui si smetteva il lavoro e si faceva ritorno alla casetta o alla capanna per preparare la cena, sempre composta dalla nota e famosa « acquacotta » cioè un zuppa di erbe spontanee di stagione che venivano raccolte nei campi. Questa era l'operazione culinaria più complessa perché richiedeva la ricerca delle erbe commestibili, che avveniva durante il lavoro, la loro pulitura e la cottura.

Poi tutti insieme intorno ad un gran fuoco che fungeva anche da sorgente illuminante, tra frizzi e lazzi più o meno pesanti, si consumava il frugale pasto, composto quasi sempre della sola, anche se abbondante, acquacotta per la quale la generosa natura non ha fatto mai mancare erbe commestibili nelle nostre campagne; talvolta però un pezzo di formaggio secco o una fetta di « ventresca salata » (pancetta) completavano il pasto.

Finito il pasto si rimaneva intorno al fuoco ancora per un poco ad ascoltare le vecchie storie di fantasmi, streghe, tesori nascosti e simili, che i più vecchi assicuravano di aver vissuto o di avere udito dai loro nonni. Poi ci si disponeva vestiti e con una coperta sopra nella comune « rapazzola » per cercare riposo in un buon sonno ristoratore.

Una parola a parte meritano le casette comuni di proprietà della Università Agraria ed oggi pressoché scomparse o trasformate: l'Università infatti, conscia dei disagi ai quali i contadini andavano incontro, specie nella stagione invernale, per coltivare la terra a loro concessa che distava dal paese tre o quattro ore di cavallo, aveva provveduto alla costruzione di alcune casette, una per ogni quarto, che potevano ospitare venti o trenta persone. Le casette erano sempre poste in prossimità di un fontanile e quando il quarto andava in semina servivano rispettivamente da ricovero e da provvista idrica per i contadini; quando il quarto era a pascolo servivano per alloggio dei pastori e per l'abbeverata del bestiame che pascolava in quel quarto.

Le casette generalmente erano costituite da un solo vano rettangolare con una piccola finestra, una porta ed un grosso camino a legna al centro di una delle pareti lunghe. Lo spazio delle pareti libere tutt'intorno era occupato da « rapazzole », cioè un piano largo circa m. 1,60/1,70, costituito da piccoli pali in legno posti verticalmente che fungevano da supporto ad altri legni orizzontali poggianti da una parte su fori praticati nella parete della casetta e dall'altra sui pali suddetti. Su tale trama se ne tesseva una più fitta, di ginestre, che formava il piano per dormire come una specie di materasso sul quale il lavoratore si distendeva dopo avervi posto sopra una coperta o un cappotto o una pelle di pecora o di capra.Torna su

Alcuni agricoltori preferivano costruirsi una piccola capanna, sempre circolare e con tetto conico, con struttura in legno e pareti e tetto straminei, dove poter abitare con la loro famiglia, ma ciò avveniva solo se la parte rimaneva eccessivamente distante dalle casette dell'Università. In questo caso l'acqua era reperita nel più vicino fosso di scolo che portava acqua piovana di scolo dei campi; in quei tempi in-fatti qualsiasi acqua corrente in qualsiasi luogo era bevibile senza il minimo dubbio o preconcetto perché tutte le acque reperite non erano ancora inquinate da concimi chimici o di-serbanti. Il diserbo allora veniva effettuato a mano ed era una operazione delicata e faticosa. Al diserbo « monnarella » (per-ché mondava e puliva il grano dalle erbe cattive) provvede-vano giovani donne e ragazzotti che con una lunga, leggera e fina zappa dal manico lungo e con una maestria quanto mai notevole colpivano ed estirpavano solo le erbe cattive ben badando a non colpire le piccole pianticelle di grano. Di per sè il lavoro non era gravoso, ma se consideriamo il periodo nel quale doveva essere eseguito, cioè quando il grano era in erba quindi non aveva ancora indurito il suo stelo, il che avviene a gennaio o a febbraio, si capiranno i disagi di questi lavoratori dovuti più alla inclemenza del tempo che alla durezza del lavoro.

Per le terre concesse a semina l'Università riscuoteva un compenso in denaro o in natura sempre commisurato alla superficie concessa in godimento all'utente. Qui merita una parola di ricordo l'opera svolta dal « perito » che era o agrimensore o perito agrario. I quarti che andavano in semina erano divisi in tante parti, quanti erano i richiedenti, dai guardiani dell'Università. All'atto pratico risultava che ogni parte, sulla quale l'Università doveva riscuotere il compenso, era differente come superficie dall'altra e ciò derivava o dalla conformazione del terreno o dagli utenti stessi che si scambiavano o cedevano le parti. Compito del perito era consegnare agli uffici dell'Università un elenco contenente i nomi degli effettivi agricoltori che avevano effettuato la semina e la precisa superficie da essi coltivata a grano. Per giungere a tale risultato, il perito percorreva la campagna accompagnato dal « canneggiatore » di fiducia, che spesso era il guardiano dei grani, cioè un contadino che godeva la fiducia di tutti ed al quale era demandato il compito di sorvegliare, impedire se possibile e comunque riferire sugli eventuali danni che il bestiame, che pascolava allo stato brado nelle vicinanze dei terreni concessi a semina, poteva fare se si introduceva su questi terreni per pascolare il grano abbondante anziché la scarsa erba messa a sua disposizione.

Il perito ed il « canneggiatore », a cavallo, perché in quei tempi le strade esistenti erano poco più che mulattiere ed i trasporti avvenivano esclusivamente a soma, si recavano, seguendo in tutto le abitudini locali più sopra ricordate, sul posto di lavoro dove occupavano una rapazzola e iniziavano le loro misurazioni muniti solo dello squadro graduato o meno e della catena metrica, a causa della quale la misurazione si definiva « a catena ». Il lavoro era quanto mai semplice per un bravo perito, ma estremamente faticoso e lungo perché si trattava di riuscire a calcolare una parte che aveva spesso una lunghezza di più centinaia di metri e la larghezza di dieci o quindici metri. Ovviamente questo lavoro durava vari giorni e in tale periodo il perito ed il suo canneggiatore dormivano sulla rapazzola e mangiavano l'acquacotta come tutti gli altri, tutt'al più annaffiata invece che della solita acqua pura, da un bicchiere di vino cavato dalla « barlozza » cioè un piccolo barile in legno di cinque o sei litri, che peraltro, quasi sempre, finiva la prima sera perché era costume offrire a tutti i presenti un poco di quella bevanda ristoratrice. A quei tempi infatti la fratellanza era molto più sentita di oggi e tutti si adoperavano perché al « signor perito » non mancasse nulla del quasi nulla che quei buoni lavoratori potevano offrire ma che dividevano sempre, fossero funghi o asparagi di bosco o cicorietta di grano, con il perito come con tutti gli altri, paghi se il perito ricambiava con un bicchiere di vino o una fetta di pancetta o un pezzo di « cacio ».

A questo proposito merita di essere ricordato l'episodio capitato ad un perito che stava eseguendo proprio la misurazione dei grani ed aveva come canneggiatore il famoso « Pellenera » che era anche suo buon amico fidato e stimato. « Pellenera » era il miglior « buttero » che allora esistesse, cavalcante impareggiabile ed ottimo di cuore, sempre pronto ad aiutare in tutti i modi possibili gli altri pastori che a lui si rivolgevano o per allacciare una vaccina particolarmente cattiva o per domare un puledro particolarmente focoso. Nell'episodio in questione, Pellenera si trascinava la catena da misurazione da più ore quando all'improvviso si fermò immobile e si mise a guardare un grosso falco che volteggiava in aria lì presso senza allontanarsi da una grossa quercia. Ai richiami del perito perché riprendesse il lavoro egli non rispose, ma svelto come un gatto selvatico si arrampicò sulla quercia sfidando la presenza del falco e tornò a terra con due uova di falco. Esse servirono la sera per arricchire la solita acquacotta comune, perché egli volle dividere generosamente con gli altri ciò che aveva catturato con il suo solo coraggio personale.

Finite le operazioni di campagna, che duravano non meno di venti o trenta giorni lavorativi, il perito provvedeva allo sviluppo dei calcoli e presentava i risultati alla Università che a sua volta calcolava l'importo del « terratico » da riscuotere dagli interessati. Per tale lavoro il perito, nei primi decenni del secolo, riceveva un compenso di lire cinque o al massimo dieci per ogni rubbio (mq. 18.484) di terra misurato! Questa era la vita degli agricoltori che eseguivano le semine col « picchio », ma ben poco differente era la vita dei « boattieri », cioè di coloro che eseguivano le sementi con l'aiuto di buoi trainanti l'aratro « chiodo ». I boattieri si alzavano prima degli agricoltori, si recavano in un posto da loro stabilito, chiamavano i loro buoi, che avevano passato la notte allo stato brado e che riconoscendo la voce del padrone subito rispondevano e correvano sicuri di trovare un buon pasto prima di essere aggiogati. Dopo la foraggiata, alle otto precise, i buoi venivano aggiogati ed iniziavano il lavoro che durava fino alle 14, ora della sciolta cioè di togliere il giogo ai buoi ed inviarli al pascolo nei pressi. Dopo tale ora il boattiero era libero, per modo di dire, perché doveva rivedere le corregge del giogo, le « frocette » e l'aratro, in modo che tutto fosse in ordine per la giornata successiva. Poi la solita rapazzola e la non meno solita acquacotta.

Ma come accennato più sopra, l'Università, oltre i quarti a semina, ne destinava altri a pascolo per gli utenti. La superficie da destinare a pascolo per gli utenti veniva decisa nel modo seguente: tutti gli utenti proprietari di bestiame denunciavano il numero di bestie di loro proprietà, vaccine, cavalli, asini e muli, e l'Università destinava al pascolo un certo numero di rubbi romani, cioè una certa superficie in base al numero del bestiame denunciato. Le restanti superfici pascolive erano date in fitto annuale e per il solo uso di pascolo, con il metodo dell'asta a « candela vergine », a « moscetti » locali o meno che ne avevano fatto richiesta e si presentavano all'asta.Torna su

I moscetti erano quasi sempre piccoli proprietari di greggi di pecore di poche centinaia di capi e che potremmo definire imprenditori di aziende a conduzione famigliare in quanto impiegavano due o tre estranei alla proprietà ma sempre parenti o affini, oltre s'intende la famiglia del proprietario stesso. Riassumendo, gli utenti dell'Università coltivavano o meglio usufruivano di una certa superficie per le semine e di una certa superficie per il pascolo del loro bestiame. Ovviamente, data la grande estensione della proprietà dell'Università, le richieste non coprivano mai la totalità della superficie e così, accontentati tutti gli agricoltori locali, che potevano fare la semina e tutti i pastori locali che avevano pascolo per il loro bestiame, le rimanenti superfici venivano vendute « a catena » ad un piccolo proprietario di pecore che pagava il corrispettivo stabilito all'asta, dopo che il perito aveva provveduto alla misurazione di quanto preso in affitto. In questo caso l'opera del perito era più complessa tecnicamente, perché si trattava di sviluppare alcune poligonali quasi sempre chiuse, ma l'operazione era molto meno faticosa della suaccennata misura dei grani.

Il moscetto, ottenuta la concessione del pascolo, si costruiva la capanna, il guado per la mungitura, una o due capannette da destinare a magazzino per le « bassette » (pelli), o la lana o il formaggio, poi, sempre in prossimità della capanna, metteva le reti, cioè recingeva con apposite reti di canapa una superficie sufficiente a che la notte le pecore potessero accovacciarsi una addossata all'altra. Ogni due o tre notti, come spiegheremo meglio in seguito, era necessario cambiare posto alle reti per far dormire le pecore in un luogo asciutto. Queste zone dette « stabbiati » o « grascete » erano misurate a parte, perché l'Università ne avrebbe tenuto conto al momento della liquidazione del fitto da parte del moscetto in quanto terreno più fertile.

La vita del pastore (proprietario di vaccine o cavalli) in Tolfa, pur essendo meno disagiata di quella dell'agricoltore, non era meno laboriosa, a seguito delle cattive stagioni ma più spesso a seguito di eccessivo carico di bestiame sui pascoli. In entrambi i casi, infatti, il bestiame non aveva pascolo sufficiente e quindi deperiva e specie nei lunghi inverni particolarmente nevosi, il bestiame richiedeva di essere foraggiato a parte. Allora, come oggi, il pastore era costretto a portare fieno alle bestie che pascolavano allo stato brado. Il pastore accorto, nella primavera provvedeva ad accumulare quanto più fieno possibile in ragione del numero dei capi da nutrire eventualmente, e nel periodo richiesto lo trasportava a destinazione e lo distribuiva alle proprie bestie. Interessantissimo vedere come le bestie di un dato proprietario riconoscevano la voce che le chiamava e correvano sicure di trovare quel cibo che non erano riuscite a procurarsi da sole per mancanza d'erba o perché l'erba era coperta di neve. Nelle annate nevose l'operazione più faticosa era proprio la foraggiata perché i butteri dovevano aprirsi, con la loro cavalcatura, un varco nella neve alta per far sì che le bestie cariche di fieno potessero passarvi. Operazione faticosa e pericolosa perché la neve poteva nascondere piccoli fossi o buche ove il cavallo sarebbe potuto cadere trascinando con sè il cavaliere.

Oggi l'organizzazione dell'Università e gli usi degli agricoltori tolfetani sono enormemente cambiati, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, e così si sono rese pressoché inutili le varie casette con le surricordate rapazzole perché con l'avvento della meccanizzazione e con lo sviluppo delle strade asfaltate o meno, ma sempre percorribili con automezzi, i contadini di Tolfa ma ancora di più i pastori si recano in campagna per fare i loro doveri in automobile, sulla quale possono caricare i loro arnesi o il foraggio necessario al loro bestiame. Dopo una giornata di lavoro, non più effettuato a mano o con la « vetta dei buoi » ma con il più comodo e moderno trattore, possono tornare a sera nella loro abitazione in paese e giustamente riposarsi in un comodo letto dopo una abbondante cena consumata in famiglia. Delle fatiche passate dai nostri contadini all'inizio del secolo resta solo un mesto ricordo ed un po' di nostalgia nei vecchi agricoltori che ricordano ai giovani « ai tempi miei... », ed i giovani ascoltano con sufficienza quasi il padre narri una favola accaduta in lontanissimi tempi in lontanissimi pianeti extraterrestri.

 

UN MESTIERE SCOMPARSO:

IL « MERCANTE DI CAMPAGNA »

 

Sul finire del XIX secolo e l'inizio del XX, in piazza del Pantheon a Roma si potevano incontrare molti personaggi che oggi definiremmo strani: vestito scuro, bastone dal manico ricurvo, cappello nero a larghe falde, pancetta prominente, colore molto abbronzato nelle guance grassocce, ma soprattutto portafoglio ben fornito a più scomparti o, come si diceva allora, a fisarmonica.

Proprio da queste caratteristiche dell'aspetto si riconosceva subito che quel personaggio, che immancabilmente si recava a pranzo alla « Rosetta » era un « mercante di campagna », personaggio tipico della Maremma, da non confondersi né con il « latifondista » né con il « moscetto » ma dei quali era la via di mezzo.

Il mercante di campagna era colui che marcava con il proprio marchio a fuoco un certo numero di bestie. Il nominativo « mercante » non sta infatti per commerciante o trafficante, cioè colui che compra o vende qualsiasi merce, ma sta ad indicare un proprietario di bestiame che fa portare incise a fuoco sugli animali le sue iniziali. Perciò era facile sentire frasi come questa: « ho tremila pecore con il mio merco », oppure « ho quattrocento vacche con il mio merco », od ancora « ho quaranta buoi con il mio merco », e così via. (1) Il Mercante non era un latifondista perché non era proprietario di vasti appezzamenti di terreno superiori al migliaio di rubbi romani (1 rubbio = 18.484 mq.), ma affittava qualche tenuta in Maremma a seconda dei suoi bisogni e per la sola stagione invernale. Ovviamente l'affitto poteva essere, ed a questo tendeva il mercante, pluriennale, per tre o nove anni.

Il Mercante non era un « moscetto », perché il moscetto si limitava ad avere una proprietà di qualche centinaio di pecore e qualche decina di vaccine e cavalli, e si accontentava di trovare il pascolo per i suoi animali nelle terre di proprietà delle Università Agrarie che annualmente affittavano il pascolo invernale, diviso in « quarti » e per quella superficie che non era richiesta dagli utenti della Università stessa, che avevano la precedenza sia a pascolo che a semina. Il Mercante, mediamente e se voleva essere degno di tal nome, era proprietario di un gregge di circa tremila pecore ed una mandria di 400-500 capi vaccini e cavallini, più qualche decina di bestie da soma o da tiro o da cavalcare, indispensabili per la propria attività; ebbene, tutte queste bestie erano marchiate a fuoco con le iniziali del Mercante cioè dell'imprenditore che si era dato, spesso per secolare tradizione di famiglia, a quella attività agro-pastorale.Torna su

La vita del Mercante non era né facile né semplice. Quando stava in Maremma d'inverno egli doveva sorvegliare e dirigere la vita della sua azienda. In ogni attività agro-pastorale più ad indirizzo zootecnico che agricolo, dimensionata come sopra detto ed articolata solo o quasi sull'allevamento ovino, vaccino e cavallino, esisteva un personaggio singolare: il casengo. Compito del casengo era di provvedere innanzi tutto al trasporto dello « scarico » cioè dei prodotti dell'azienda quanto mai deperibili, che possono così riassumersi: formaggi, ricotte, agnelli, « bassette » (pelli di agnelli solamente seccate ma non conciate) e trasporto, al ritorno, della « grascia » cioè dei viveri che per contratto il Mercante doveva passare a tutti i suoi lavoratori, consistenti in olio, lardo, legumi, pasta, farina o pane, sale ecc. e quanto altro richiesto di volta in volta dai pastori che ben di rado si allontanavano dalla « capanna ». Il casengo teneva i rapporti tra il Mercante, che di solito abitava in uno dei casali esistenti, se esistevano, nella tenuta, oppure in una casa d'affitto nel paese più vicino, e i pastori. Il casengo inoltre doveva badare che il carro o i carri fossero sempre in ordine, che i muli fossero ben tenuti e robusti in quanto le strade erano sì e no dei tratturi assolutamente impraticabili per il fango o le salite eccessive e poi perché i viaggi che egli doveva fare non si limitavano solo al breve tratto intercorrente tra la capanna e la casa padronale: ben più importante e più lungo era il percorso per consegnare lo scarico, una volta controllato dal Mercante, ai compratori fissati in precedenza dal Mercante proprio in quelle soste al Pantheon di cui si è detto, e dove si discuteva fra un bicchiere e l'altro di prezzi e tempi di consegna. Al Pantheon si decidevano i prezzi del formaggio fresco che il casengo poi avrebbe pensato a consegnare alla « caciara », cioè lo stabilimento che avrebbe proceduto alla salatura e conservazione del prodotto e spesso anche alla vendita del pecorino salato in forme dette mercantili, cioè del peso medio di 18 kg. l'una, perché questa era la pezzatura richiesta dal mercato, specie degli Stati Uniti che erano all'epoca i migliori acquirenti del nostro « pecorino romano ».

Compito importante del Mercante era selezionare la qualità delle sue pecore e quindi la scelta dei montoni adatti alla riproduzione. Questi erano acquistati in appositi mercati e fiere di bestiame e la massima cura era riposta nella loro scelta. Infatti era dai montoni che si riusciva ad avere una razza più selezionata e perciò le migliori qualità, come la sopravissana e la merinos importate dall'Australia, che raggiungevano prezzi, per allora, astronomici; da essi dipendevano la grossezza dell'agnello e la quantità della. lana, cioè il peso del vello, e quindi il maggior ricavo possibile dall'allevamento della pecora stessa. Un vello di pecora poteva pesare, se di padre merinos, anche una media di tre o tre e mezzo kg., ma se il vello proveniva da padre bastardo raggiungeva sì e no due o due e mezzo kg. La lana era uno dei tre prodotti base delle pecore; gli altri erano l'agnello e massimamente il latte che doveva, per far chiudere il bilancio con qualche guadagno, dare in un anno una decina di kg. di formaggio più la ricotta.

Nel periodo della « sbacchiatura » il casengo doveva consegnare gli agnelli ai loro rivenditori e si sa che l'abbacchio romano è ricercatissimo sul mercato, quindi li doveva consegnare secondo le richieste del tale o tal'altro acquirente sia con « bassetta sotto », cioè con la pelle compresa nel peso dell'agnello, sia con la « bassetta a parte » perché così convenuto tra il Mercante e il compratore. Alcune o tutte le pelli poi potevano essere vendute alle concerie e allora il casengo doveva curare la loro consegna. Nell'azienda lavorava anche il « biscino », che in genere era un ragazzo sui quattordici anni che aveva l'incarico di non far mancare la legna per il fuoco né l'acqua che spesso era distante e si doveva trasportare su carovane di asini dalla sorgente alla capanna. Il biscino era, insomma, colui che doveva fare tutti quei piccoli servizi che sempre erano richiesti in una azienda estremamente fattiva e movimentata come era la vita in una capanna. Egli doveva ancora « girare le reti »: dopo la munta serale le pecore erano chiuse — come si è detto — in un recinto formato da paletti in legno ed una lunga rete di corda a larghe maglie, ove strette l'una all'altra passavano la notte; ecco perché tutti i montoni erano privati delle corna robuste ed attorcigliate, che avrebbero potuto impigliarsi nelle maglie della rete, causando loro il ferimento o addirittura la morte.

Ovviamente, quello spazio al mattino risultava coperto di escrementi sui quali non era bene far riposare ancora le pecore la notte seguente, così il bilancio scioglieva la rete del recinto e la trasportava subito appresso, in modo che il gregge nella notte successiva potesse sdraiarsi su terreno asciutto o per lo meno pulito. Il terreno reso così fertile per gli escrementi lasciati dalle pecore è ancora oggi detto « grasceta » ed era utilizzato per la semina l'anno seguente.

Il centro dell'azienda era la capanna: era costruita con armatura in legno, in genere a forma circolare, con pareti verticali per circa due metri di altezza e coperta da un tetto a cono. Tanto la parete circolare che il tetto a cono erano costituiti da un robusto traliccio in travi di legno completamente ricoperto di materiale stramineo, in genere fasci di ginestra e di paglia, ben chiusi tra di loro in modo che le piogge scivolassero sui vari fasci senza poter penetrare all'interno. L'unica porta era dello stesso materiale ed il fumo usciva da una apposita apertura al centro ed al colmo del tronco di cono che formava il tetto della capanna stessa.

Tutt'intorno, all'interno della capanna, esisteva la solita rapazzola che già abbiamo descritto a proposito delle casette dell'Università Agraria e che era appunto il posto letto dei pastori, i quali vi dormivano divisi l'uno dall'altro da una leggera parete verticale sempre in traliccio stramineo. Sulla rapazzola e tutto intorno erano deposte alcune pelli di pecora che servivano da materasso, ma più ancora da coi¬bente sulla parete esterna della capanna che certo non era calda come la parte interna, grazie al fuoco posto al centro della capanna stessa. Infatti, chi giaceva sulla rapazzola aveva un lato esposto alla fredda parete straminea, appunto riparata solo da pelli di pecora, e l'altro lato del corpo esposto al fuoco sempre acceso perché necessario alla cottura del formaggio.

Nei pressi della capanna era ubicato il « guado », che consisteva in una fila di passaggi obbligati ed un retrostante ampio spazioso recinto. Nel recinto erano spinte le pecore che poi erano obbligate ad uscire dagli stretti passaggi suddetti, dove era appostato il pastore che metteva loro un gancio sul collo e le fermava per il tempo necessario alla mungitura, poi la pecora tornava alla sua rete. Il latte veniva raccolto in appositi recipienti in legno e da questi, una volta riempiti, trasportato alla capanna e versato nella capace caldaia posta sul fuoco centrale e sorretta da un aggeggio, a forma di forca e girevole, detto « somaro » che permetteva il sollevamento e, ruotando, la posa della caldaia sul fuoco. La mungitura si svolgeva due volte al giorno, la mattina e la sera.

Il « caciaro », altro personaggio scomparso ma importantissimo in una capanna, provvedeva alla cottura del latte, alla immissione del caglio (stomaco seccato degli agnelli uccisi), alla estrazione delle forme di formaggio ed alla loro sistemazione nella « cascina », specie di nastro in legno leggero molto fino e pieghevole, che poi veniva stretto con un apposito laccio fissato all'estremo della cascina stessa. Una volta estratta la forma di formaggio era ben pressata per farne uscire l'acqua residua e solo allora poteva costituire un vero formaggio. Quando si era tirata fuori la forma del formaggio il grosso caldaio era rimesso sul fuoco e fatto bollire di nuovo finché sulla superficie compariva la ricotta che veniva presa con una grossa ramina e deposta nelle « fuscelle ». Le fuscelle erano piccoli tronchi di cono fatti di giunchi intrecciati e costruite, dietro un compenso a parte, dai pastori mentre il gregge pasceva libero e all'aperto sotto la loro sorveglianza, ma ancora di più del fedele cane che provvedeva ad avvertirli di ogni e qualsiasi pericolo.

Ricavata la ricotta, il calderone si rimetteva per la terza volta a bollire brevemente e quel residuo di latte, che veniva detto « scotta », serviva da mangiare per i maiali che sempre erano allevati nei pressi delle capanne per due ragioni ugual-mente importanti: per non far andare perduto niente del prezioso latte ovino e perché i maiali, a suo tempo, avrebbero fornito le salsicce, il lardo, la ventresca e tutto il resto che il Mercante doveva fornire come « grascia » ai suoi pastori. La vita del pastore era dura e movimentata: alle prime luci dell'alba iniziava la mungitura e tutti erano impegnati in quel lavoro, il caciaro con la sua caldaia, i pastori a mungere, i biscini a guidare le pecore prima nel « guado » e poi alle « bocche » cioè a quei passaggi obbligati, dove le pecore non andavano volentieri e perciò i biscini erano accompagnati dai cani.Torna su

Il cane del pastore merita una parola a parte: era di taglia grossa, muso corto, collo taurino circondato da un grosso e appuntito collare, pelo bianco e lungo. Esso era il vero padrone del gregge. Quando le pecore erano al pascolo sotto l'occhio attento del pastore, in genere seduto ed intento a costruire le fuscelle per la ricotta, era il cane che badava che nessuna pecora si allontanasse dal branco ed, al minimo cenno del pastore, il cane correva a ricondurre la fuggitiva al suo posto, oppure le impediva di andare sull'« erba netta ». Infatti tutto l'appezzamento destinato al pascolo era « nettato » cioè diviso in molti pezzi, ognuno dei quali a seconda della quantità dell'erba e delle pecore che la dovevano pascere, doveva bastare per un giorno, ed era proprio il cane, dietro indicazione del pastore, che impediva alle pecore di pascolare fuori di quella linea immaginaria che era stata decisa in precedenza dal Mercante con l'aiuto del « vergaro » cioè il capo di tutti i pastori. Ma il cane difendeva il gregge anche dai ladri e dai lupi. In ogni capanna vi erano sempre molti cani che difendevano le pecore al pascolo e le spingevano nel mungitoio. Inoltre nella « monticatura » e « smonticatura » essi badavano a che seguissero il « guidarello » e non restassero arretrate dal grosso del gregge, o peggio non si allontanassero in cerca di pascolo e provocassero un danno, che poi il proprietario avrebbe dovuto risarcire. Un cane ben addestrato aveva un valore altissimo perché giungeva fino a fare le vere e proprie funzioni, certo limitate alla guardia e alla sicurezza, di un pastore.

Era veramente un piacere vedere queste intelligenti bestie nel loro lavoro. Chi è vissuto in campagna a quell'epoca sa per esperienza che era estremamente pericoloso passare in mezzo ad un gregge al pascolo, mentre nessun pericolo si correva transitando anche vicino, ma non troppo, al gregge perché il cane non avrebbe mai permesso che un estraneo all'ambiente della capanna si avvicinasse troppo alle pecore affidate alla sua custodia. Due erano i momenti importanti della vita pastorale che si viveva nella capanna: la sbacchiatura e la tosa. La « sbacchiatura » avveniva, per la gran maggioranza, nei mesi di marzo e aprile perché il vergaro immetteva i montoni nel branco in previsione di far partorire le pecore tutte nello stesso periodo, e ciò per ottenere un prezzo migliore in quanto una partita di maggior volume era più richiesta sul mercato. Ovviamente c'erano delle eccezioni e così in un certo periodo il gregge era diviso in tre parti: pecore lattare, cioè quelle alle quali era stato tolto l'agnello e quindi venivano munte e producevano formaggio, pecore figliate che non venivano munte perché ancora allattavano il figlio non maturo per la mattazione, pecore sode cioè quelle che ancora non avevano figliato e quindi non avevano l'agnello e non producevano latte. Naturalmente la maestria del vergaro stava nel rendere meno gravosa possibile questa divisione, anche perché, come già detto, un buon numero di agnelli portati tutti insieme sul mercato spuntava un prezzo maggiore di una piccola partita ed il Mercante quindi aveva buon gioco a chiedere qualche lira in più al kg. per agnello presentato o preventivamente contrattato. L'agnello delle pecore di qualità vissana o sopravissana, che erano le due qualità imperanti nella Maremma romana, si diceva maturo quando aveva raggiunto i 6-7 kg. di peso e solo allora poteva essere mattato; di peso maggiore sarebbe stato agnellone ed il peso avrebbe portato detrimento alla qualità.

In quei giorni di sbacchiatura la vita nella capanna era molto animata: gli agnelli venivano divisi dalle madri, che seguitavano a chiamarli per un paio di giorni con continui « sbelamenti » (lamenti) ed erano immessi in un apposito recinto formato dalle solite ed onnipresenti reti, ove i pastori provvedevano ad abbatterli, a scuoiarli, a toglier loro le interiora che andavano a formare la deliziosa coratella e gli squisiti budellucci (tutte cose scomparse), ma soprattutto si occupavano di togliere le animelle sempre introvabili e ricercatissime dai rivenditori che le cedevano a caro prezzo ai buongustai.

Così preparato ogni agnello, il casengo portava tutta la partita con le coratelle, le animelle e la pelle, detta bassetta, a destinazione, cioè da colui o coloro che in precedenza l'avevano acquistata. Gli agnelli potevano essere venduti con la pelle o senza a seconda della richiesta da parte delle concerie alle quali il compratore, di solito un grossista rifornitore delle macellerie specializzate, doveva rivolgersi per smaltire tutte le bassette che eventualmente aveva comperato insieme agli agnelli. Quando l'agnello era venduto con la « bassetta sotto », la pelle faceva peso con la carne, altrimenti si combinava un prezzo a parte per la bassetta, ma allora cresceva il prezzo dell'agnello. Certo il prezzo, con o senza la bassetta, era sempre influenzato dall'andamento del mercato delle carni.

La « tosa » era l'altro periodo festaiolo della capanna. Anche in questi giorni la vita nella capanna si animava ed era euforica, tutti erano indaffarati ed allegri. Il Mercante provvedeva a vari inviti, specie fra gli eventuali compratori, e così la fervida attività della capanna era rallegrata, e spesso intralciata, da persone impacciate e curiose che creavano lazzi e motti degli uomini addetti a questo lavoro. Particolarmente preso di mira l'impacciato gruppo delle signore, impedite nei movimenti dalle lunghe vesti e dalle scarpe sempre inadatte a camminare su di un terreno né pulito né piano anzi cosparso di strame e di pietre. Gli uomini che procedevano alla tosatura delle pecore era-no completamente estranei alla capanna ed in genere riuniti in compagnie che passavano da un gregge all'altro, ed il loro lavoro era ricompensato con un tanto a capo. Il vello delle pecore allevate in Maremma variava da un minimo di due kg. per le agnelle ad un massimo di quattro per i grossi montoni. Qualche giorno prima dell'arrivo dei tosatori, si doveva procedere al « salto », che consisteva nel far saltare le pecore entro una fossa, lunga una ventina di metri e piena d'acqua. In genere il salto veniva preparato in qualche fiumiciattolo della tenuta con la creazione di una specie di sbarramento, in maniera che la pecora, che veniva sospinta bruscamente dai pastori in acqua, era costretta a nuotare fino alla sponda opposta, e ciò allo scopo di togliere dalla lana tutte le sporcizie accumulate nell'anno in una vita completamente all'aperto.

Al sopraggiungere dei tosatori le pecore erano « arretate » nello spazio destinato alla tosa e qui, una ad una, venivano liberate dal vello che opportunamente piegato, era immesso in una grossissima balla di iuta appesa per la sua lunghezza a due grossi pali, con una traversa sopra, saldamente infissi nel terreno. La traversa reggeva il sacco aperto ed in posizione verticale ed un biscino era addetto a pigiarvi e sistemarvi i vari velli che gli venivano porti dai pastori. Una curiosità della tosa era data dal pranzo offerto dal Mercante a tutti i presenti che erano molti e comprendevano anche gli eventuali acquirenti con la loro famiglia. Era un pranzo particolare: unico piatto era la « pezzata ».

La pezzata era una zuppa di pane bagnato con sopra verdure e grossi pezzi di « mattarella » e veniva consumato in scodelle fonde di argilla. Nella scodella ogni presente metteva alcune fette di pane sulle quali gli addetti alla cucina (in genere le mogli del vergaro e di altri pastori che vivevano nella capanna) versavano fave, piselli, cicoria, carciofi ecc. con abbondante quantitativo di brodo necessario a bagnare il pane affettato. Sul tutto troneggiavano le « mattarelle », grossi pezzi di pecora cotti separatamente dalle erbe. Ne risultava un piatto veramente delizioso.

Le « mattarelle » sacrificate per questo pranzo erano pecore adulte che per una ragione fisiologica non avevano figli e quindi non producevano latte e sarebbero state dannose al gregge, in quanto avrebbero consumato erba destinata alle altre pecore. Queste pecore, una volta accertato il loro difetto, ed i pastori lo riconoscevano subito, venivano o mattate ed inviate ai rivenditori insieme agli agnelli, o immesse nel gregge dei montoni per evitare che questi, tenuti lontano dalle femmine, cominciassero a lottare fra di loro facendosi del male o magari colpendosi a morte. Terribili erano infatti le lotte fra montoni rivali e non era raro il caso che scontrandosi con violenza e sempre frontalmente, alcuni più deboli si spaccassero la fronte provocandosi la morte. Dopo la tosa la vita del pastore cambiava perché il gregge partiva nei mesi estivi per la « monticatura ».

In quei tempi infatti le greggi, che erano state tosate verso maggio, venivano portate in montagna per due ragioni: perché il pascolo in Maremma era finito o meglio era secco e la pecora non lo gradiva affatto, e per far cambiare loro l'aria, allora non troppo salubre anzi spesso infestata di malaria. Di solito le greggi della Maremma venivano portate sulle montagne tra Norcia, Visso e Cascia e qui stanziavano fino all'ottobre. In questo periodo avveniva la « smonticatura » cioè il gregge tornava in Maremma.

Ovviamente i due percorsi di monticatura e smonticatura avvenivano a piedi e duravano parecchi giorni: quella era la fatica maggiore tanto per il Mercante, sempre alla ricerca di qualche spazio erboso ove far pascere il gregge nelle soste del faticoso viaggio, quanto per i pastori sempre all'erta perché qualche capo non si allontanasse o venisse assalito dai lupi, allora numerosi nella nostra zona, o da ladruncoli sempre presenti lungo le strade « dogane » che percorrevano le greggi.

Le strade « dogane » erano sentieri battuti, larghi oltre venti metri per permettere un facile transito al gregge di pecore abituate a stringersi le une alle altre, e che possiamo rintracciare facilmente nelle mappe dei vecchi catasti. Queste strade andavano da un paese all'altro: ad esempio, da Civitavecchia saliva una dogana che attraverso S. Lucia, bordo dello Spizzicatore, ponte del Bernascone, S. Maria giungeva a Monteromano per poi proseguire ancora. Da Tolfa partiva una dogana che, attraverso il Campo della Fiera, Civitella, Querce d'Orlando, raggiungeva Vetralla, poi Viterbo ed oltre.

Il gregge, diviso in grossi gruppi, procedeva seguendo il « guidarello » cioè un montone che a sua volta seguiva il pastore di testa che lo aveva addestrato apppositamente a seguirlo ovunque come un fedele cane.Torna su

L'ammaestramento del guidarello non era cosa facile né semplice. Quando un pastore si prendeva l'incarico di creare un guidarello lo legava alla vita (mai al collo) con una lunga corda, quindi lasciava che il montone, sentendosi legato, cercasse di fuggire ma subito lo richiamava con un poderoso strattone e quando gli era vicino lo gratificava con un poco di sale o altra gradita leccornia; dopo giorni e giorni di tale allenamento il guidarello era domato o meglio ammaestrato e si era creata una specie di amicizia tra il montone ed il pastore, tanto che questi poteva chiamare il guidarello a suo piacimento ed esso subito si avvicinava, sicuro di ricevere ancora un po' di sale. E' noto, infatti, che gli ovini sono ghiotti di sale, tanto che in prossimità della capanna dei pastori era facile trovare lunghe file di « trocchi », tronchi di alberi spaccati e vuoti all'interno come barche, ove sveniva versato il sale da dare alle pecore in particolari periodi. Il pastore che aveva ammaestrato un guidarello era compensato con una certa somma di denaro e con la lunga fune, sempre preziosa in campagna, che era servita all'ammaestramento del montone stesso. Al collo del guidarello veniva messo un grosso campano che, con i suoi forti e monotoni rintocchi, richiamava tutto il gregge a seguirlo, ed era meraviglioso vedere come un gregge di più centinaia di capi seguisse fedelmente quel « din dan ».

Il gregge, nel suo spostamento, era seguito da uno o più carri trainati da tre muli, con sopra tutta l'attrezzatura necessaria al branco ed ai suoi pastori: reti di recinzione per il gregge, caldaie per l'ebollizione del latte e quindi la cottura del formaggio, fuscelle per la ricotta, secchi per la mungitura ecc. ecc. Era compito del « casengo » e dei « biscini », una volta giunti nel luogo di sosta già predisposto dal Mercante, che precedeva di qualche giorno il gregge, preparare le reti per il gregge stesso, procurare l'acqua per il personale ed accendere il fuoco per i pastori, che spesso erano costretti a passare la notte all'addiaccio vicino alle reti delle loro pecore. Giunti in montagna, la vita del pastore era più calma: le pecore che producevano latte erano poche e quindi la mungitura era più sbrigativa, quasi niente agnelli, ed i pastori potevano riposarsi dalle fatiche e passare il tempo in famiglia, perché la gran massa dei pastori, ed i migliori, che venivano in Maremma erano proprio di quelle parti. Il Mercante accorto sceglieva sempre pastori della stessa zona, se non proprio dello stesso paese, in maniera da avere un gruppo di persone che già si conoscevano e magari erano parenti o comunque molto amici, perché ciò facilitava la sua opera evitando i facili contrasti derivanti da scomodo e tenace campanilismo.

Per i pastori tornati in famiglia in questo periodo niente più capanna, ma vera casa, e per lavoro solo la sorveglianza del gregge che pascolava in zone infestate dai lupi, ed in questo erano bravissimi i cani che non temevano affatto le fiere, anche perché erano prudentemente riuniti in gruppi e difesi da puntuti collari.

Il gregge in montagna produceva due prodotti: le piccole succose caciotte di montagna salate o meno, differentissime nel sapore dalla grossa forma mercantile, in quanto la pecora si nutriva di fine erba di altura e quindi produceva un latte meno grasso di quello prodotto in Maremma; ed il castrato di montagna, cioè l'agnello castrato e portato a peso di 20-30 kg. e poi venduto, dalla carne un po' più rossa, ma molto più saporita di quella dell'agnello. Quando giungevano le prime nevi si doveva fare la « smonticatura », cioè il cammino inverso a quello fatto per venire in montagna. Si riformava il gregge, il pastore con il suo guidarello apriva la marcia, seguito sempre dall'immancabile casengo con i suoi carri e con tutte le masserizie e ci si riportava in Maremma, forse in una tenuta migliore e con più erba. Perché questo era sempre il dilemma del Mercante: dove far pascere l'armento e dove trovare ricovero per i pastori. Infatti se il pastore era contento trattava meglio il gregge, lo mungeva con più cura ed alla fine tutto si risolveva in un maggiore e migliore prodotto! e ciò significava più pane sia per lui che per la famiglia in attesa nei paesi di montagna delle Marche, coperte di neve. Perché è bene sapere che il Mercante era sì quello che apponeva il proprio marchio a fuoco sulle bestie, ma era anche quello che doveva provvedere alla vendita dei prodotti ed al pagamento delle erbe, alle paghe dei pastori e di tutti quegli uomini che in una maniera o nell'altra contribuivano all'ottenimento dei prodotti. Perciò se il vergaro non faceva bene la nettatura delle erbe, il caciaro non faceva bene il formaggio e questo si gonfiava, se i biscini non provvedevano a girare le reti e la lana si sporcava o magari, come si diceva in gergo, « Si bruciava », i prodotti perdevano valore ed il Mercante doveva vendere, per far fronte ai suoi impegni, parte o tutto il gregge che forse sarebbe stato macellato, ed i pastori si sarebbero trovati senza lavoro e sarebbero dovuti tornare al loro paese coperto di neve.Torna su

L'unione pastore-Mercante era una necessità dalla quale non si sfuggiva, dal momento che le leggi del mercato e della economia imponevano un prodotto genuino ed abbondante che si otteneva solo se tale simbiosi era perfetta e le stagioni buone. Ma spesso le stagioni non potevano dirsi buone o perché l'erba era scarsa, o il formaggio non richiesto sul mercato o la lana si « concallava » (cioè si macerava, perché non asciugata bene, e diventava inservibile) o perché vi era stata una forte importazione che aveva fatto calare il prezzo sul mercato delle filande. Ecco perciò che il lavoro di tutti concorreva al benessere generale, quindi in questo mestiere non si poteva essere egoisti o individualisti e la cattiva volontà di uno suonava condanna per tutti. Questo i furbi pastori lo sapevano benissimo e isolavano o allontanavano colui che cercava di sfuggire il suo dovere.Ma, come abbiamo detto all'inizio, l'attività del Mercante non si limitava solo all'allevamento ovino, che abbiamo cercato di descrivere. Egli si occupava anche dell'allevamento del bestiame vaccino e cavallino, per non correre il rischio che, nel caso di annate particolarmente calamitose o per mancanza di mangimi o per il crollo dei prezzi, tutta l'azienda accumulasse solo passivo e fosse costretta a chiudere.

L'allevamento della vaccina e del cavallo, seconda ma non secondaria attività del Mercante, era completamente differente dall'allevamento degli ovini e quindi richiedeva altro personale ed altra attrezzatura. La vaccina non veniva condotta in villeggiatura in montagna, restava tutto l'anno in Maremma ed aveva bisogno di pascolo aperto, cioè di « larghe » e di bosco. Le « larghe » erano spazi liberi senza alberi e con molta erba e servivano per pascolo; anche il bosco o la macchia servivano per pascolo, ma d'inverno e soprattutto per trovare rifugio (non hanno lana le vacche!), nelle lunghe e piovose notti invernali, in quegli « stazzi » cioè spazi vuoti in mezzo ai cespugli del sottobosco, che possono essere definiti « case delle vacche ».

L'allevamento vaccino e cavallino avveniva in Maremma sempre allo stato brado, all'aperto. Le stalle esistevano solo, seppure esistevano, per i cavalli addetti all'azienda, che venivano montati dai « butteri », i cow-boys locali, e qualche volta, ma molto di rado, per i buoi da lavoro, se erano troppo deperiti o malati e necessitavano di particolari cure.

Ogni azienda degna di questo nome aveva infatti alcuni buoi da lavoro, perché doveva produrre un certo quantitativo di cereali: il grano, per il pane di tutti gli addetti all'azienda, e le biade per i cavalli dei butteri, che dovevano essere tenuti sempre nelle migliori condizioni, o come si dice in gergo, « in forza ». Il Mercante quindi, conscio di tutte queste necessità, quando affittava una tenuta a lui congeniale, sceglieva sempre la parte migliore, più riposata, cioè non coltivata a cereali da più anni, possibilmente « grasceta », per spargervi la sementa necessaria ai suoi bisogni. L'attività del Mercante, è bene ricordare, non era agricola ma eminentemente zootecnica, e la coltivazione era solo complementare e limitata ai bisogni dell'azienda; se, tuttavia, la quantità eccedeva era venduta e forniva un ulteriore guadagno, ma se non se ne ricavava che il necessario, ciò bastava.

Tutte le operazioni di maggese e di semina erano eseguite da buoi castrati e domati ai quali venivano messe le « piastre », cioè delle piastre di ferro appositamente forgiate per aderire alle unghie spaccate dei buoi ed essere inchiodate a queste unghie. L'operazione avveniva in una specie di incastrino di legno detto « travaglio », dove il bue era tenuto fermo e quasi sollevato da terra con robuste corde, che stringevano la pericolosa cornuta testa ed il corpo tutto. Una zampa alla volta era sistemata su delle apposite tavole, in modo che il maniscalco, che eseguiva la serratura, non corresse pericolo di prendersi qualche poderoso calcio, o peggio qualche cornata, nell'eseguire un'operazione affatto gradita al bue. Le piastre servivano a contenere il consumo delle unghie nelle bestie da lavoro, costrette a tirare l'aratro o la barrozza (carro a quattro ruote per il trasporto del fieno) su terreni spesso accidentati, coperti di schegge di pietre e spessissimo fangosi.

Il bue da lavoro ogni giorno eseguiva una « vicenna », che è il tempo effettivo di lavoro, circa sei ore, dalle otto alle quattordici. Prima di tare ora il buttero, come il boattiere, dava da mangiare alle sue bestie, poi iniziava il lavoro che non smetteva fino alla « sciolta », cioè alle quattordici, quando portava i buoi all'abbeverata e distribuiva loro altro mangime (fieno o avena per i più deboli), per poi lasciarli liberi fino al giorno successivo. I butteri facevano un richiamo caratteristico, una specie di fischio, al mattino per chiamare i propri animali, che avevano passato la notte allo stato brado e si erano allontanati in cerca di cibo fresco. Il richiamo faceva accorrere le bestie dove sapevano che avrebbero trovato fieno abbondante.

Strumenti del buttero erano il giogo, l'aratro, le frocette, un ferro a forbice, che veniva introdotto nelle narici del bue per poterlo condurre con più facilità, ed il pungolo, un lungo bastone appuntito da una parte, per stimolare le bestie più pigre, e con una piccola paletta in ferro dall'altra parte necessaria per staccare dal vomere la terra, specie in terreni argillosi e molli. Differente era il comportamento del buttero con il bestiame vaccino non da lavoro: questo tipo di bestiame, al quale si richiedeva solo la vitella, viveva in Maremma, allo stato brado, cioè nella più assoluta libertà.

1) La asserita derivazione di « mercante» da « marca» è da verificare e approfondire: nota editoriale.

 

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