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Basilio Pergi
 

 

 

In genere pascolava sul terreno dove poi avrebbero pascolato le pecore (ma se vi era spazio sufficiente i due pascoli erano separati, con grande vantaggio per la regolarità dell'andamento dell'azienda), perché la sua conformazione mascellare gli permette solo di tagliare l'erba più alta, mentre la pecora può pascere anche erba bassissima. La notte, il bue o la vaccina si ritiravano nel bosco in cerca di un punto ben riparato dal vento e possibilmente in qualche « stazzo » o « forteto ». L'intricato groviglio di fini rami di spine e di liane, che spesso ricoprivano i tronchi di alberi nei boschi, era detto « forteto », perché per un uomo era impossibile entrarci o semplicemente sorpassarlo; per riuscirvi doveva usare il « marraccio », cioè la roncola, che con la sua punta a forma di tagliente becco d'uccello era quanto mai adatta prima ad avvicinare e poi a tagliare i rami di rovi e liane. Ebbene, è proprio dentro questi grovigli che le vaccine, molto aiutate dalle corna e dalla durissima pelle, riuscivano a penetrare e a farne una specie di capannetta che le riparasse, bene o male, dalla pioggia, ma soprattutto dai gelidi venti invernali; ed è qui, in genere, che andavano a partorire, quasi a voler nascondere e proteggere la loro creatura appena nata.

Il buttero, al tempo della « sprenatura » (parto) che si cercava di far avvenire in primavera, sapeva bene dove cercare le madri, per aiutarle eventualmente nel parto, e difendere i vitelli appena nati da lupi e volpi che avrebbero approfittato del particolare momento di debolezza della madre, per ricavare un buon pasto con poca fatica. Dopo poche ore dalla nascita, il vitellino, teneramente asciugato con forti colpi di lingua dalla madre, riesce a stare in piedi e a muovere i primi passi.

Trascorso qualche mese dalla nascita, circa sei, si procedeva alla marchiatura ed era anche questa un'occasione di festa nel piccolo mondo dell'azienda. I più indaffarati erano i butteri, che sui loro instancabili cavalli maremmani dovevano restringere tutte le bestie da marchiare in una spaziosa rimessa, cioè in un luogo recintato dove erano costruiti i « rimissini ». Questi sono ancora oggi costituiti da un grosso e robustissimo recinto in legno, diviso in più scomparti, ma che forma un unico complesso. In uno di questi scomparti, in genere il più piccolo, c'è alla fine una specie di imbuto in cui vengono sospinti i capi di bestiame attraverso uno strettissimo passaggio, adatto ad una sola bestia per volta e chiuso ai due lati da cancelli apribili. Questo piccolo spazio è detto, appunto, « incastrino », perché le bestie vi vengono quasi incastrate e non si possono muovere più. Evidentemente quando una bestia è entrata nell'incastrino, risulta facile legarla ed immobilizzarla, per poi procedere alla mercatura o per somministrare le iniezioni che la immunizzano dall'afta epizotica o dal terribile carbonchio.

Ma tutta questa operazione avveniva solo se si trattava di bestia grossa, perché i vitelli erano « mercati » quasi sempre entro il rimissino, ma non entro l'incastrino. Infatti per i bravissimi butteri risultava facile accalappiare con il lazo il vitello ed imprigionarlo, quindi con velocissima maestria atterrarlo e legargli le zampe. A questo punto giungeva il « massaro » cioè il capo dei butteri, che applicava per qualche secondo sulla coscia destra del vitello il marchio di ferro scaldato fino al rosso, in modo da procurare una bruciatura che non forasse la pelle stessa, e così terminava l'operazione.

La « merca » era la più suggestiva delle operazioni che compiva il buttero ed era il culmine al quale aspirava, perché richiedeva occhio e bravura per lanciare il lazo dal cavallo in corsa, forza e destrezza nel prendere il vitello, nonché la massima sveltezza nella legatura delle gambe una volta atterrato; ed era ancora una grande bravura riuscire a prendere la lingua del vitello al momento della marchiatura ed impedire così che la bestia in quell'attimo traumatico, potesse ingoiarla e restarne soffocato.

Ovviamente, anche in questo giorno di festa campestre, il Mercante era presente con alcuni amici e non si creda che ciò fosse per mera vanteria o al solo scopo di ostentazione, ma gli inviti avevano il fine preciso di far conoscere il nome di quella masseria, la omogeneità del suo bestiame, il peso medio a capo, la resa in carne al mercato dei macellai, che alla fine, al momento della vendita, pagavano qualche lira in più per il prodotto di una azienda nota e stimata. Insomma, una festa che aveva il solo scopo di reclamizzare il prodotto per gli eventuali compratori futuri.Torna su

Il Mercante destinava in modo diverso i vitelli nati nella sua azienda a seconda delle loro caratteristiche fisiche. Diventavano tori i vitelli particolarmente favoriti dalla sorte e madri le femmine di bella prestanza senza difetti nell'incornatura e con un buon vaso lattifero utile non per la mungitura ma per la poccia del vitello. I meno fortunati erano prescelti per il lavoro di cui parleremo più diffusamente o, peggio, per il mattatoio se erano deboli o semplicemente in sovrappiù del numero fissato dal Mercante per formare una mandria adatta alle sue possibilità finanziarie. La doma dei buoi da lavoro era un'altra importante attività del buttero. Essa avveniva quando il « giovenco », bue di due anni circa castrato mediamente all'età di un anno compiuto, veniva prescelto in base alla sua struttura ossea, alla sua mole, alla sua docilità, al suo collo possente ed adatto al giogo.

Esso prima di tutto era rinchiuso nel rimissino e vi era lasciato per alcuni giorni in completa solitudine e ciò significava isolarlo dal branco e quindi procurargli un trauma. In tale periodo il giovenco vedeva solo il buttero, che mattina e sera gli portava un po' di cibo e l'acqua. Questa operazione aveva lo scopo di indebolirlo e suscitargli simpatia verso il nuovo padrone, cioè il buttero, che ovviamente aveva cura di toccarlo sul collo e diremmo quasi di farci amicizia.

Il giorno destinato alla prima aggiogatura venivano portati nel recinto due buoi domi e particolarmente mansueti, non con il solito giogo a due posti, ma con la « serta » cioè un lungo giogo a quattro posti. Il giovenco, non senza la fatica e l'impegno di più persone, veniva aggiogato ad uno dei posti centrali, in modo che i due buoi già domi lo avessero in mezzo e gli impedissero di strattonare dall'una o dall'altra parte o magari, come spesso accadeva, di voltarsi per tentare di prendere a cornate il buttero. Questi stava subito dietro l'aratro, cioè alle spalle del giovenco, e cercava di incitarlo a seguire la strada indicata dai buoi laterali, che nel frattempo erano stati messi in moto e trascinavano l'aratro. Finita l'aggiogatura iniziava l'addestramento per il vero e proprio tiro dell'aratro: in questa fase il buttero doveva avere l'accortezza di trattenere leggermente le bestie dome e far tirare di più il giovenco in modo che si abituasse allo sforzo del collo, e seguisse i movimenti dei buoi a lui vicini. Questa operazione era complessa e durava vari giorni, ma alla fine il giovenco era domo ed ubbidiente ad ogni ordine del buttero, come tutti gli altri buoi da lavoro.

Il destino più triste per i vitelli era comunque la mattazione. In base alla superficie di pascolo che il Mercante era riuscito a reperire, egli calcolava la quantità di capi da immettere alla mattazione e così tutte le bestie, non ritenute adatte alla riproduzione e al lavoro, erano destinate al mattatoio. Ciò avveniva a più riprese e i butteri di volta in volta decidevano il numero dei capi da macellare, radunandoli poi per portarli al « carcere », un grosso recinto in muratura che accoglieva (e accoglie ancor oggi) le bestie destinate alla mattazione. In queste carceri erano rinchiuse anche le bestie trovate a pascolare fuori della zona abituale e in un'altra proprietà. Tali bestie erano fuggite dalla « gina », loro territorio abituale, e dalla « razzetta », il branco delle femmine con un maschio che formava razza a sè e portava il marchio di un solo proprietario. Esse erano andate a pascolare altrove provocando un danno, che doveva essere stimato e risarcito dal proprietario della bestia al proprietario del terreno danneggiato, e erano fatte uscire dalle carceri solo ad avvenuta liquidazione di esso. Nelle carceri, dunque, erano portate le bestie destinate al mattatoio, con grande accompagnamento di butteri e di cani, loro fedeli aiutanti, e qui esse dovevano sostare un tempo più o meno lungo in attesa di essere mattate. Il trasporto sul luogo della uccisione era particolarmente straziante perché sembrava che la bestia presentisse il suo destino; chi scrive vi ha assistito nei primi anni di vita e ha motivo di credere che la scena si ripetesse uguale in tutti i paesi della fascia alta della Maremma romana.

In Tolfa il mattatoio era ubicato a circa duecento metri dalle carceri, alla fine di una lunga discesa. Il trasporto della vaccina predestinata, dalle carceri al mattatoio, era uno spettacolo indimenticabile: la bestia, allacciata con due robuste e lunghe corde per le corna, era tirata in avanti da una catena di circa trenta robusti giovanotti. Una catena simile di altri butteri la tratteneva dietro, in modo che la vaccina o il vitellone, visibilmente irritati per tale trattamento, al quale non erano assolutamente abituati, non potessero incornare né gli uomini che li tiravano né quelli che li trattenevano. Dopo qualche tempo di questa specie di tiro alla fune molto singolare, non era raro il caso di bestie che, con la forza della disperazione, sfuggissero alle due colonne di butteri con grande spavento della gente che si trovava sul percorso. Subito altri butteri a cavallo le rincorrevano a cerca-vano di reindirizzarle alle sempre provvidenziali carceri. Altre volte gli animali si « impostavano », cioè si puntavano sulle gambe rifiutandosi energicamente di proseguire, ma alla fine erano costretti a cedere e entravano così legati nel mattatoio, dove erano uccisi.

Ma i butteri si occupavano anche della doma dei cavalli: nel rimissino, più volte ricordato ed elemento indispensabile in ogni tenuta degna di rispetto, esisteva uno spazio più ampio, che era il vero centro del rimissino, nel quale avvenivano tutte le operazioni di merca e di capata (divisione dei capi di bestiame) e nel quale aveva luogo anche la doma dei cavalli. Per questa operazione era necessario che al centro dello spiazzo più grande esistesse lo « staccione », un robustissimo tronco d'albero di almeno trenta cm. di diametro, fortemente infisso al suolo ed al quale venivano legati gli animali da domare. Così avviene l'operazione ancora oggi: il buttero allaccia il cavallo e, dando un giro di laccio allo staccione, fa sì che il puledro, in genere sui tre anni, fra salti, calci, impennate e capriole, si avvicini sempre più allo staccione e giunga con la testa a contatto di esso. A questo punto il buttero con molta attenzione mette al puledro una robusta capezza (cavez¬za), lunga abbastanza perché si possa « dare il giro » al cavallo da domare. « Dare il giro » significa far girare in tondo il cavallo per stancarlo e per abituarlo alla cavezza, che viene un po' allentata, in maniera da dare l'impressione che lo si voglia lasciare libero, e un po' tirata con provvidenziali ed affatto gentili strattoni, per ricordargli che è prigioniero e abituarlo così alla voce dell'uomo, ma soprattutto alla guida della cavezza.Torna su

Questa operazione è ripetuta per più giorni, finché, quando il domatore lo ritiene opportuno, si comincia a posargli sulla groppa prima una leggera coperta, poi la sella per ancora qualche giorno. Quando il buttero crede che il cavallo abbia acquistato l'abitudine alla sella, affiancato da almeno altri due butteri su cavalli ben domi, pian piano sale in groppa e comincia la girandola di salti, sgroppate, impennate, calci ecc., ma il bravo buttero resta in sella e così, ripetendo l'operazione per vari giorni, il cavallo viene domato. In questo periodo il cavallo sotto doma non porta le briglie (redini con il morso), che verranno aggiunte dopo, ma il « capezzone », cioè una apposita cavezza a due corde laterali che permette al buttero di richiamare l'animale o a destra o a sinistra. Alcune volte, a seconda dell'indole del cavallo da domare, un capo del capezzone è tenuto dall'aiutante del buttero per evitare che il cavallo, disarcionato il buttero, possa prendere uno spettacolare fugone e sottrarsi per il momento alla doma.

Riprendendo il discorso sull'allevamento dei bovini, va precisato che tale bestiame non richiedeva, come l'ovino, la monticatura, cioè il trasporto in montagna della mandria, però questa alle volte era costretta a spostarsi da una tenuta all'altra e ciò costituiva un'operazione quanto mai faticosa per i butteri e per i cavalli da loro montati.

Quando il Mercante decideva di spostare la mandria da un pascolo all'altro, era necessario prima radunarla tutta in una rimessa della vecchia tenuta e solo dopo tale raduno, che durava più giorni, ci si incamminava alla volta della nuova destinazione. Apriva la marcia il « maione », in genere un placido toro, che portava al collo un grosso campanaccio assicuratogli dal « sovatte », cioè un collare largo e di dura pelle di bue ben fissato al campano. Per abituarlo al fastidio del suono, il toro era stato messo in precedenza nell'incastrino e gli era stato applicato il sovatte e relativo campano ben chiuso con erba fresca in modo che non suonasse, poi era stato liberato. Esso aveva sentito il leggero peso del campano, ma non il suo suono e ciò gli aveva dato poco fastidio, ma, per liberarsene, aveva strofinato il collo su tutti gli alberi che aveva incontrato, facilitando così la perdita dell'erba che nel frattempo si era seccata. Poi aveva cominciato a sentire il suono ed un po' alla volta il fiero toro si era abituato anche a quell'incomodo. Il « maione » era pronto e poteva guidare il branco che lo seguiva, ormai indifferente allo strano scampanio.

Ma la fatica maggiore per i butteri, che erano costretti a cambiare ogni giorno i cavalli per non « sfessarli », era quella di tenere unito il gruppo in maniera che nessun capo, specie se piccolo, si perdesse o fosse rapito. Queste scene, anche se un po' romanzate, possiamo ancora vederle nei vari films western. In conclusione, l'azienda del Mercante, per essere considerata tale, doveva avere le seguenti dimensioni e caratteristiche: due-tremila capi ovini, quattro-cinquecento capi vaccini e cavallini, che necessitavano di una tenuta di almeno millecinquecento ettari, dei quali il quindici-venti per cento a bosco.

I pastori erano una trentina ed i butteri non meno di dieci, a questi si aggiungeva il personale avventizio che era assunto nei periodi di semina, di mietitura, di « monnarella » (estirpazione delle erbacce dalle zone seminate), di tosa delle pecore, di marchiatura del bestiame ecc. Per le necessità di una tenuta il Mercante doveva avere una precisa attrezzatura: alcuni carri trainati da muli, alcune barrozze trainate da buoi, alcuni aratri-chiodo o, più tardi, alcune « coltrine », a seconda del numero dei buoi addetti al loro traino, selle e briglie in quantità adeguata al personale cavalcante, che raggiungeva le dieci o quindici unità almeno, reti da pecore, caldaie per il formaggio di varie grandezze, secchi per la mungitura ed inoltre una quantità di attrezzi minori come zappe, forcine, cordami, sgabelli da mungitori, se-menti, che non venivano acquistate ma lasciate dalla massa del grano raccolto, dopo essere state accuratamente scelte.

L'avvento della macchina e dell'economia industriale han-no fatto scomparire la figura del « mercante di campagna », come sono anche scomparsi, o quasi, i butteri, i pastori, il caciaro, la capanna e tutto ciò che caratterizzava quel tipo di società contadina.

 

IL FESTINO

 

L'alba tingeva di rosa i grigi tetti coperti da un leggero strato di muschio verdastro delle case tolfetane in quel lontano 28 febbraio 1911, quando l'autore di queste note veniva alla luce, mentre le strade illuminate solo da quel lontano riflesso del bagliore solare risuonavano delle allegre musichette di tutte le « società », che dopo una notte di patetici e semplici balli popolari davano l'addio al Carnevale.

In quel lontano periodo, infatti, era un caro costume paesano salutare la fine del Carnevale con un « festino ». Nostalgie della Tolfa del passato, Tolfa semplice che si accontentava di poco e di poco viveva, ma sempre in serena amicizia cementata da anni di fatiche comuni, di aiuti reciproci e disinteressati, fatti di piccoli favori. Ci si scambiava un asino o un bue perché all'amico si era azzoppato il proprio; ci si prestava una coppia di pane o un pezzo di lardo o di cacio, per preparare la famosa acquacotta, pasto quotidiano di tutti i contadini, che vivevano l'intera settimana in campagna, e quindi, se veniva a mancare qualcosa erano costretti ad ore ed ore di cammino per tornare al paese e rifornirsene.

Ma ciò non avveniva mai, perché sempre ci si divideva il necessario, sicurissimi che la domenica mattina si sarebbe riavuto quanto prestato. Ma torniamo al festino, che era l'unica festa carnascialesca per eccellenza. A Tolfa era uso comune festeggiare l'ultima notte di carnevale con un festino, che veniva preparato nei più minuti particolari. Si cominciava con il costituire la « società » che aveva il solo scopo di preparare il festino e durava solo per il periodo di carnevale. Ovviamente i soci erano un gruppo di amici contornati dalle loro famiglie. Compito primario degli organizzatori era reperire l'orchestra, composta da un mandolino, da una chitarra, da una fisarmonica e forse, se se ne trovava, da un violino. Reperiti i musici, si pensava alla cena che doveva essere, per quei tempi, suntuosa: i « soci » Si dividevano gli oneri, ma, si badi bene, non in moneta liquida, ma in generi di consumo, o meglio in generi commestibili che erano accantonati in proporzione dei componenti la famiglia. Questo perché al festino ed alla cena di mezzanotte, non partecipavano solo i giovani ma la famiglia al completo, che portava già preparato quello che credeva o, meglio, quello che era più congeniale alla sua attività e si aveva così che portava un agnello quello che era dedito alla pastorizia, il pane chi era dedito alle sementi, la verdura chi era dedito alle colture ortive e così via. Cosa che non mancava mai era una certa abbondanza di dolci, preparati dalle ragazze da marito delle varie famiglie dei « soci », forse con la non assurda speranza di prendere per la gola qualche bel giovanotto, che rendeva le notti pressoché insonni, ma che non aveva avuto ancora il coraggio o il pretesto per presentarsi a richiederle con la immancabile serenata.

Sì, perché la serenata, fatta magari con un solo mando-lino ed un piffero e con il canto di stornelli popolareschi di un amico che si vantava di essere un poeta a braccio, era il preludio immancabile e solenne al fidanzamento vero e proprio.Torna su

Quante volte nel silenzio notturno chi scrive ha inteso dolci smandolinate accompagnate dalla voce di un cantante! E in quello stesso momento la Dulcinea era ben nascosta, statene certi, dietro i vetri della finestra con il cuore trepidante nella incertezza di lanciare o meno al suo spasimante un fiore o meglio un fazzolettino ricamato con le proprie mani, che diveniva con quel salto il pegno di un futuro eterno amore.

Questo attendevano le ragazze di Tolfa in quel periodo, ed erano appagate se alla massa domenicale potevano lanciare un furtivo sguardo al bene amato, sotto, sempre, il burbero sguardo della madre, che peraltro il più delle volte fingeva di non vedere perché troppo impegnata nella funzione religiosa, ma, statene certi, all'uscita della messa, nella inevitabile ressa, badava bene che quel tale non si avvicinasse troppo a sua figlia, magari per sfiorarle una mano. Era proprio nei festini che nasceva l'amore, perché là, mentre le madri vantavano il tale arrosto o il tal altro dolce, fatto dalle mani della loro impareggiabile e brava figliola, i giovani avevano modo di far conoscenza e di apprezzarsi.

I festini si svolgevano pressappoco sempre su questo schema: gli amici che costituivano la società destinavano un locale, possibilmente a piano terra, in genere un magazzino di proprietà di uno dei soci, ad accogliere la festa, lo libera-vano, lo pulivano, lo addobbavano con festoni di fiori di carta o con corone e festoni di mirto e di alloro, appositamente preparati dalle ragazze, sorelle dei soci, e quindi lo rendevano più allegro con vari lumi ad olio (in quel tempo a Tolfa non c'era l'elettricità).

Questo lavoro preparatorio durava diversi giorni in quanto impegnava i giovani e le giovanette, sotto l'occhio vigile dei genitori, solo nei momenti liberi, cioè in pratica solo la domenica perché tutta la settimana essi erano fuori in campagna ad attendere ai normali lavori. Finalmente giungeva la notte fatidica e tutto era, statene pur certi, pronto.

Verso le dieci di sera tutti si radunavano nei luoghi stabiliti: per l'occasione e volendo ben figurare, tutti avevano indossato il « vestito buono » ed avevano, all'occhiello i ragazzi e sul seno le ragazze, un fiore in precedenza stabilito, per tutti uguale, e che era il simbolo e il distintivo di quella tale società che aveva organizzato il festino. Questo serviva a distinguere un festino dall'altro, in quanto a Tolfa in quel giorno pressoché tutte le famiglie erano impegnate in qualche società e quindi in qualche festino e pertanto era ovvio che ognuna delle società desiderasse distinguersi dalle altre.

I balli, mazurca, walzer, salterello, quadriglia ecc., iniziavano verso le undici per interrompersi a mezzanotte precisa, in quanto a quell'ora doveva iniziarsi la cena annaffiata da abbondanti libagioni di quel generoso vino tolfetano fatto solo di uva pestata con i piedi nudi. Ovviamente, come per caso, le ragazze, anche con la complicità delle madri più accorte, finivano sempre in prossimità dei loro più o meno dichiarati spasimanti, ma sempre sotto l'occhio vigile delle probabili future suocere e così al povero giovane non rimaneva altro che toccare con il proprio piede il piede della sua bella. Questo naturale richiamo del sesso era detto comunemente « peccato di suola », proprio perché erano solo le suole delle scarpe quelle che riuscivano a toccarsi!

La cena durava circa due ore, dopo di che si riprendeva a ballare anche se i movimenti risultavano un po' più impacciati per il vino bevuto. Era considerato disdicevole, per una ragazza che fosse da marito, « fare tappezzeria » cioè rimanere spesso sprovvista di cavaliere per il ballo; era permesso fare tappezzeria solo alle mature madri di famiglia ed agli indaffarati padri che più spesso rimanevano a discutere, tra un bicchiere e l'altro, dei loro affari con gli amici. All'alba tutto finiva con un corteo per le gelide vie cittadine: gelo che certo non impensieriva i baldi giovanotti e le procaci ragazze partecipanti al festino, perché troppo accaldati dalle danze, dal vino, dalla abbondante mangiata ma più ancora dall'aver avuto, anche se solo di suola, un contatto e un assenso dalla beneamata.

All'uscita della sala del festino si formava un corteo aperto dalla orchestrina che suonava una qualche canzonetta in voga cantata in coro da tutti i partecipanti, e le strade risuonavano delle allegre risate di tutti i festaioli che, fatto il giro del paese e giunti sulla piazza, si dividevano fra grandi ringraziamenti, lazzi, sottintesi e grandi pacche sulle spalle, con promessa solenne di ritrovarsi alla Santa Messa per ricevere le riparatrici ceneri penitenziali, messa che sarebbe iniziata di lì a poco nella collegiata del paese.

Questa era l'atmosfera di Tolfa l'ultimo giorno di Carnevale, nel quale ebbe la ventura di venire alla luce Basilio Pergi.

 

L'Università Agraria

 

L'Università agraria è un istituto tipico e tuttora esistente sui monti della Tolfa. Innanzi tutto è bene precisare che la parola Università sta per universale, totalità degli affiliati, società nella quale tutti hanno gli stessi diritti. Questa società garantisce ai pastori ed agli agricoltori di Tolfa il diritto di pascolo dietro modesto compenso per ogni capo del loro bestiame e garantisce anche l'uso di terre a semina con un lieve terratico. L'Università fornisce gratuita-mente agli iscritti tori e stalloni selezionati per il migliora-mento delle razze equine e bovine locali.

Finora il più antico documento riguardante tale istituzione è stato considerato un fascicoletto pubblicato in Civitavecchia nel 1820 dalla stamperia Camerale ed intitolato: Regolamenti per le due Università di Mosceria ed Agricoltori di Tolf a approvati con chirografo della Santità di nostro Signore Papa Pio VII felicemente regnante. Nella prefazione si legge che la prima istituzione delle due Università di Mosceria e di Agricoltori di Tolfa rimonta a tempi antichissimi, ma mancano memorie scritte e quel poco che se ne sa si deve alla tradizione. Pare, sempre secondo questo documento, che l'Università degli Agricoltori avesse il suo principio nel 1620, ma solo nel 1767 istituzionalizzasse le antiche sue usanze. E' appunto in quest'epoca che fu convocata la prima adunanza degli Agricoltori. L'Università di Mosceria ha una origine meno antica: si attribuisce all'anno 1710, ma fu soltanto nel 1735 che incominciò a registrare i suoi atti. Nel documento si dice inoltre che le due Università si reggevano sulle usanze del luogo, ma senza regolamento. Si ricorda poi la visita, avvenuta tempo prima, di certo can. Selli per dirimere alcune questioni sorte fra i soci. Ma a quanto pare la visita non ebbe risultati stabili, se dopo pochi anni alcuni zelanti componenti la società provvidero ad indirizzare una supplica a papa Pio VII, perché volesse interessarsi al miglioramento della situazione economica e finanziaria « delle due università già vicine al loro totale decadimento per la massa enorme di debiti da cui si trovavano oppresse ». Si ritenne necessario inoltre fare un regolamento e si chiese a Pio VII di emanarne uno, affidando tale compito a Mons. Uditore Delegato Apostolico M. Benvenuti, coadiuvato da una commissione.Torna su

Segue poi la supplica al « Beatissimo Padre » nella quale è detto che per appianare il non tenue dissenso fra le due Università era necessario redigere un regolamento, da farsi tenendo presente il Chirografo di Pio VI in data 28 novembre 1782. Segue il « regolamento » da osservarsi nelle due Università di Mosceria e Agricoltori diviso in due titoli: il titolo primo riguarda la Mosceria ed è composto di quattordici capitoli e ottantasette articoli; il titolo secondo riguarda gli Agricoltori ed è diviso in quattro capitoli e diciassette articoli. Il tutto si conclude con una supplica in latino nella quale è implorata l'approvazione di detto regolamento anche perché è conforme a quanto stabilito nel Chirografo del 28 novembre 1782 ed è firmato da « B. Cristaldi SS. Aud. ». Si può affermare con una certa sicurezza quindi che le due Università siano nate l'una nel 1620 e l'altra nel 1710. Ma chi scrive ha approfondito lo studio sul funzionamento e l'origine dell'Università Agraria attraverso un'attenta lettura di due documenti in suo possesso, mai pubblicati.'

Il primo, inerente alla visita Selli surricordata, è un « Istromento » del 19 dicembre 1782 di Pio VI che, pur non (documenti sono conservati presso l'archivio Pergi) emanando un vero e proprio regolamento, dette le direttive per una migliore amministrazione dei beni in possesso delle due Università e ne precisò gli scopi e l'attività elencando poi le tenute che la Reverenda Camera Apostolica aveva concesso fin dal 19 dicembre 1778 in enfiteusi alla Comunità ed Università di Mosceria della Terra della Tolfa. Nel contesto poi leggiamo che le varie tenute erano già godute dalle due Università che le ottenevano dalla Reverenda Camera Apostolica in uso con contratto novennale rinnovantesi pressoché in continuazione. In particolare questo atto fu stilato perché la garanzia del pagamento degli affitti includeva anche i beni comunali, cosa che fu abolita in quanto, è detto nell'atto, a garantire gli affitti sarebbe stato sufficiente il bestiame che pascolava sulle zone affittate e di proprietà degli utenti. Infatti questo negli ultimi anni aveva avuto un forte incremento, tanto che nell'atto della stipula il bestiame vac¬cino e cavallino raggiungeva la bella cifra di duemilaquattrocento capi grossi.

L'altro documento, redatto il 28 settembre 1784 dal notaio Vittorio Hilary è più importante ai fini delle ricerche sulla nascita delle due Università. Si ritiene opportuno riportare qui una larga parte iniziale: « Essendo conforme a me Notaio per verità si asserisce, che in vigore di pubblico consiglio tenuto dai Signori consiglieri della Terra della Tolfa fatto il Di 1 dicembre 1549 successivamente confermato ed approvato li 4 novembre 1552 e 10 dicembre 1555 venisse al ripartimento dei Quarti del proprio Territorio la comunità della stessa terra non meno per sollievo del Popolo e di essa comunità che a vantaggio dell'Agricoltura, ed in seguito abbia costumato la predetta comunità vendere l'Erbe d'Inverno delli medesimi quarti col ritrarne ora uno ed ora altro prezzo a proporzione delle Stagioni, ed Offerte, che gli si presenta-vano dai Particolari che ambivano prendere tali Erbe Invernali. Essendo ancora che fino dal 1710 la comunità suddetta incominciasse a vendere per il prezzo ordinariamente minore di annui scudi duemila le stesse Erbe a molti particolari Possidenti denominati Mosceria coll'aggiungervi l'Erbe di altri novi quarti, oltre l'antichi, e ciò ad effetto di poter così avere una maggiore risposta per dar riparo alle indigenze accresciutesi sempre più nella detta Comunità e sollevarla dalle medesime, e con questo somigliante sistema vantaggiasse si il pubblico che il privato interesse. Sia pur vero che ritrovandosi detto Corpus di Possidenti della Mosceria in possesso di Tali Erbe in vigore dell'ultimo Istromento di affitto per nove anni stipolatogli il di 13 Agosto 1774 il quale affitto va a terminare l'ultimo del cadente Mese di Febbraio colla pretenzione peraltro di Essa Mosceria, che possa essere ricominciato l'Affitto per un altro novennio sul motivo che la comunità suddetta non gli abbia fatto legalmente la Disdetta convenuta nel suddetto Stipolato Istromento di afflitto ».

Sembra doversi dedurre quindi, da quanto riportato, che già nel 1549 il territorio della « comunità » si divideva in quarti « non meno per sollievo del Popolo e di essa comunità che a vantaggio dell'Agricoltura » e che la stessa « comunità » vendeva le « erbe di inverno » a coloro che gliene facessero richiesta. Si deduce ancora che dal 1710 la « comunità » cominciò ad affittare quarti a pascolo agli allevatori riuniti in associazione della Mosceria e che tali affitti erano per nove anni.

Possiamo riassumere il resto del documento in questo modo: certo Sante Lattanzi (non tolfetano) nel 1783, poiché stavano scadendo i nove anni stabiliti per contratto, chiese in affitto i quarti ancora in possesso della Mosceria, offrendo duemila scudi. I moscettieri forti delle loro consuetudini locali, si rivolsero a Pio VI perché intervenisse e consigliasse la stipola di una enfiteusi perpetua in modo da evitare che il godimento dei pascoli potesse passare in altre mani. Pio VI con rescritto del 1 settembre 1784 approvava fa concessione in enfiteusi perpetua. L'atto stesso di stipula dell'enfiteusi delle terre alla Mosceria è stipulato il 1° settembre 1784.Torna su

Per concludere, sulla base di tale documento, si potrebbe ragionevolmente avanzare un'ipotesi che certo va verificata attraverso il confronto con i documenti ufficiali dell'allora Stato Pontificio: l'attuale Università Agraria di Tolfa potrebbe esistere sotto forma di una qualsivoglia forma associativa di persone dedite alla stessa attività, almeno dal 1549, quando il Consiglio della Tolfa addiviene alla divisione in quarti del territorio della « comunità », per concederli in godimento agli abitanti stessi. In merito alla formazione della proprietà della attuale Università, deve osservarsi che essa ebbe il suo pri¬mo corpo di terre dalla enfiteusi perpetua, concessa alla stessa, dalla Reverenda Camera Apostolica; enfiteusi che con il passare degli anni si tramutò in possesso pieno.

In seguito poi l'Università ampliò le sue proprietà con acquisti singoli da privati, ma soprattutto con terre pervenutegli dalla liquidazione degli « Usi civici » in quanto i grandi proprietari di terre, gravate appunto da usi civici, hanno preferito, nella prima metà di questo secolo, liquidare questa anacronistica forma di servitù (diritto di legnatico, di pascolo estivo ecc.) cedendo ai cittadini tutti e per essi alla Università, una superficie di terreno pari al valore delle servitù che gravavano sul complesso delle tenute di loro proprietà.

La liquidazione della servitù di Uso Civico fu demandata per la sua definizione ad un organismo detto appunto « Commissariato per la liquidazione degli Usi Civici ». All'inizio del XX secolo, l'organizzazione riuniva « le due Università di Mosceria ed Agricoltori di Tolfa » e aveva già preso il nome di « Università Agraria di Tolfa ». Era composta da tutti i cittadini tolfetani dediti alla agricoltura, in essi compresi quelli dediti solo alla zootecnia. Oggi fanno parte della Università agraria tutti indistintamente i cittadini di Tolfa maggiorenni, che eleggono gli amministratori con libere elezioni. L'Università Agraria, con i suoi attuali 7.000 ettari in proprietà sui circa 12.000 che compongono la superficie territoriale del Comune, condiziona le attività agricole dei tolfetani, anche perché, se si escludono le due maggiori proprietà private di Rota e Casalone, ben poco rimane del vecchio latifondo che si è polverizzato in minuscoli appezzamenti nelle vicinanze del paese coltivati, per la maggior parte, ad orto e vigna.

 

b) L'Ospedale di S. Giovanni

In piazza Matteotti, fino agli inizi del XX secolo, erano ubicati gli edifici di una chiesa e di un ospedale, entrambi dedicati a S. Giovanni.

Per dare uno sguardo ai precedenti di tale istituzione è necessario risalire nel tempo, e precisamente alla storia della Venerabile Confraternita del Santissimo Nome di Dio, istituita con decreto del 25 ottobre 1582 2 dal Padre « Tommaso Zobbio da Brescia professore di sacra teologia, vicario di tutto l'Ordine dei Predicatori ».

In tale documento è detto « . . . i fedeli della Terra di Tolfa Vecchia della diocesi di Sutri e Nepi, (chiedono) sia creata e ordinata la Confraternita del Santissimo Nome di Dio nella Chiesa di Santo Giovanni . . . » e più oltre « . . .perciò noi spinti dai voti e dalle pie richieste concediamo la facoltà di fondare, erigere ed istituire la Confraternita del Santissimo Nome di Dio e l'altare e la cappella (.. .) e se è già stata costruita l'approviamo e confermiamo ».

Da ciò si deduce che in Tolfa vecchia esisteva, presumibilmente, precedentemente a quella data (1582), una Confraternita che con quella bolla fu solo approvata e legalizzata. Deve ancora sottolinearsi che l'approvazione di quella confraternita avvenne su proposta del Rev. Padre maestro Vincenzo de Cellis, anche lui dell'ordine dei predicatori e certamente, dal nome De Cellis, di Tolfa.

Ma il compito che la Confraternita si era assunto all'atto di fondazione, cioè la sola esaltazione del Nome di Dio, evidentemente non era, almeno nelle intenzioni, il solo scopo sociale, o quanto meno l'attività della Confraternita con l'andare del tempo, si era ampliata o comunque evoluta. Ciò è dimostrato dal verbale della Congregazione (riunione) dei 2 Pergamena manoscritta e sottoscritta con belle miniature ai margini e scatola del bollo; lievemente rovinata in corrispondenza di alcune piegature; dimensioni: cm. 60x40, compreso il bordo miniato; è conservata tra le carte della famiglia Pergi, « confratri »3 tenuta il 25 novembre 1636 (cioè solo cinquanta anni dopo il riconoscimento ufficiale della Confraternita), nel quale possiamo leggere: « Avanti il molto Rev. sig. Don Yacomo Zamponi vescovo foraneo della Tolfa è stata raddunata la Congregazione dei fratelli della Ven. Compagnia del Santissimo Nome di Dio dalli sigg. Alfio Bonizi priore. . . », seguono i nomi del V. Priore, del Camerlengo, del Segretario, e di tutti i partecipanti. Nel testo del resoconto della seduta leggiamo ancora: « . . . s'intende che sarebbe cosa facile che i confratelli che sogliono attendere al servizio degl'infermi verrebbero volentieri a servire questo nostro Hospitale semprechè alli medesimi fussero fatte condizioni di poterci stare et ponendo che questo Hospitale habbia entrate assai sufficienti per poterceli introdurre, e considerando che con simile occasione si verrebbero ad augumentare il servizio di Dio a beneficio dei poveri infermi.». Evidentemente la assistenza nell'Ospedale avveniva in forma volontaristica, ma esso era istituito e funzionante e godeva già di alcune rendite.

Dal contesto della delibera si rileva pure il pensiero dell'espositore, il quale fa osservare che la sola abnegazione non basta a compensare gli infermieri e quindi a chi più si impegna nella cura degli infermi è necessario provvedere almeno riconoscendogli un compenso a rimborso del tempo occupato in tale benefica opera.

La delibera prosegue con argomenti di ordinaria amministrazione fra cui la decisione di eseguire alcuni lavori di riadattamento dello stesso ospedale.

Il concetto di compensare gli infermieri venne ribadito e precisato nella « raddunata » del 1° gennaio 1639 nel verbale della quale, dopo il solito preambolo e l'elenco dei partecipanti, leggiamo « ... nella medesima congregazione è stato anche resoluto di fare il prato dell'Acqua Bianca a Menino (3 Registro dí 85 fogli legati in cinque quinterni, contenente le delibere delle congregazioni dal 25 settembre 1637 al 16 febbraio 1678; conservato tra le carte della famiglia Pergi) spitaliero per scudi tre l'anno che se le diano per esercimento di salario et sue fatiche che fa per l'hospitale (. . .) ».

In conclusione, sulla base dei documenti citati e di altri verbali di sedute, che per brevità non riportiamo, si può affermare che:

1) L'ospedale esisteva prima del 1636 e vi affluivano anche i malati delle cave di allume, come è precisato in alcune delibere.

2) Sino a quella data l'assistenza ai malati era prestata gratuitamente dai confratelli.

3) Almeno dal 1639 si riconosce un compenso a chi assisteva gli infermi, anche se in forma ibrida, concedendo ad essi un terreno a basso fitto.

La sua gestione continuò ad essere imperniata solo sulla fiducia e sulla carità cristiana, finché nella deliberazione del 12 maggio 1675 venne discusso e approvato un regolamento, unico e generale per tutte le confraternite che nel frattempo andavano moltiplicandosi, emanato dal Vescovo di Sutri e Nepi Card. Giulio Spinola per regolamentare la vita di queste iniziative che, con l'andare del tempo, avrebbero potuto travisare i nobilissimi intenti per i quali e con i quali erano nate.Torna su

E' interessante scorrere il regolamento per notare che « ... non si elegghino per Priori o altri Officiali padre e figlio, né doi fratelli né zii e nipoti e chi è stato eletto una volta, non si elegga di nuovo (...) e però ogni 15 giorni prima sia finito il tempo dell'Officiali vecchi (quelli che avevano retto la confraternita nell'anno immediatamente trascorso) il Consiglio della Compagnia si congreghi insieme e faccia elezione de nuovi Scindicatori (sindaci revisori dei conti) per voti segreti, quali non siano parenti almeno in primo o secondo grado alli Priori o Camerlenghi, e vedano fra questo tempo (15 giorni) i conti per l'amministrazione dell'entrata e dell'uscita (. . .) et ordiniamo che chi sarà chiamato debitore dalli Scindicatori sborsi subito in mano al nuovo Camerlengo quello che deve...».

Ed ancora, all'art. 7 « . . . quando si averanno da fare affitti, si facciano ad estinzione di candela, e poste prima le solite cedole (avvisi, bandi) (. . .) si daranno a quelli che più offeriranno . . . ».

Dopo altre regole, riguardanti l'amministrazione dei beni della confraternita, si passa ad una lunga esposizione dei doveri che hanno gli ospedalieri in un contesto apposito, intitolato appunto « De gl'Hospitali », ove fra l'altro viene pre¬cisato: « Se bene intorno alla cura degl'Hospitali (. . .) si sono dati boni ordini, si stima bene di più avvertire l'Hospitaliere che quelli che si ammettono devono essere ricevuti gra¬tis, senza ricevere cosa alcuna, ancorché spontaneamente offerta (. . .) l'ospitaliere prima di ricevere forastieri deve informarsi da dove vengono e non ricevere uomini con giovanetti o uomini con donne se non dopo accertato che sieno padre e figlio o marito e moglie, non si ammettano armati e nel dubbio si avvertano gli amministratori (. . . ) le rendite destinate all'Ospedale non si possono spendere in modo diverso, anche se vi fosse residuo (di bilancio) (. . .) le donne saranno curate dalle donne, gli uomini dagli uomini . . . gli officiali (. . .) guardino se (gli infermieri) sono puntuali nel somministrare ad essi (malati) tutto ciò che bisogna secondo l'ordine dei medici. . . ».

Quanto sopra ci porta a concludere che la vita delle Confraternite e degli Ospedali, fino a quel tempo limitata e governata in maniera empirica, aveva avuto una notevole espansione tanto che, da parte delle autorità, si era sentita la necessità di emanare qualche editto che ne regolasse la vita amministrativa ed assistenziale.

Nonostante tutto, la vita della Ven. Confraternita del Santissimo Nome di Dio e quella dell'Ospedale da lei fondato continuarono in maniera più o meno tranquilla finché non vennero bruscamente interrotte dalle note vicende della Repubblica Romana del 1798-1799. Vediamone le conseguenze.

Il libro delle Congregazioni si ferma sotto la data del 5 febbraio 1798, cioè appena 10 giorni prima che il Gen. Berthier proclamasse in Roma l'avvento della Repubblica Romana.

In quella data si svolse una noiosissima assemblea, presieduta dal Rev. Domenico Buttaoni in rappresentanza del Vescovo De Simoni, ove si discussero cose di ordinaria amministrazione, quasi non ci si avvedesse della bufera scatenata in tutta Europa dalla Rivoluzione Francese, come se questa non potesse assolutamente nemmeno sfiorare la pacifica Tolfa!

La congregazione seguente fu tenuta solo il 29 dicembre 1799 a ben 22 mesi dalla precedente, il che dimostra la impossibilità dei confratelli di riunirsi più spesso come era loro abitudine, almeno per l'elezione annuale degli amministratori.

In quella data lo stesso Mons. Buttaoni radunò la Congregazione, alla quale intervennero, cosa insolita, solo tredici confratelli, e nella quale possiamo fra l'altro leggere: « . . . il sig. Can. Pasquini, eletto Camerlengo (per l'anno 1800) considerando la molteplicità delle incombenze particolarmente per la provvisione di tutto l'occorrente tanto per la chiesa che per l'Ospedale per la depredazione generale fatta dai francesi, dice di non poter egli solo attendere a tutte le incombenze del camerlengato onde fa istanza che si elegga altro soggetto che lo assista e lo aiuti particolarmente nella provvista delle cose occorrenti ».

Su proposta di Filippo Aloisi, si affiancò quindi al Camerlengo il sig. Sante Zoppini. Più avanti la stessa delibera così prosegue: « . . . fu susseguentemente proposto che atteso il guasto accaduto nella Chiesa servita per quartiere alle truppe repubblicane dell'estinto governo ed anche la depredazione già sopra accennata di tutti i mobili, suppellettili; biancheria e vasi sacri, è necessario di ristaurare ed imbiancare la suddetta Chiesa e di provvedere il calice tanto per la chiesa di questo Ospedale quanto per la chiesa della Rocca, la pisside per il viatico, vasetto per l'olio santo, tovaglie e tutte le altre biancherie e suppellettili per il servizio della chiesa ed infermi. Onde le SS.LL. risolvino, Insorse il sig. Filippo Bonizzi e fu di sentimento di dare le opportune facoltà ai suddetti sig. Can. Camerlengo e Sante Zoppini di fare tutte le spese necessarie e di restaurarsi, come sopra, ottenendone il dovuto permesso dai legittimi superiori. Date le palle e raccolte furono trovate tutte bianche ».

Le votazioni avvenivano infatti su ogni singola proposta e sempre a scrutinio segreto a mezzo di palle bianche, favorevoli, e nere, se contrarie. Dopo le suddette votazioni, la Congregazione venne chiusa con la solita formula. Ma tutto fu ripristinato e l'Ospedale riprese la sua attività benefica, animato e sostenuto solo dalla estrema buona volontà che animava i Confratelli della Ven. Confraternita del SS. Nome di Dio. Con il mutare dei tempi, tuttavia le difficoltà aumentarono come si rileva dal contenuto della Congregazione del 19 gennaio 1834 nella quale leggiamo che essendo stato affisso il bando di concorso per l'assunzione di un infermiere « ... persona abile al disimpegno di Ospitaliere si è ricevuta una sola offerta . . . » che venne accettata con il compenso annuo di scudi trenta. A questo punto gli amministratori dovettero prendere atto di come l'entusiasmo di agire solo per spirito di carità fosse andato scemando con l'accrescersi delle reali difficoltà che ogni individuo incontrava in tempi sempre più difficili, e quindi di come divenisse necessario garantire una mercede fissa e sufficiente agli infermieri ed agli altri addetti all'Ospedale, mercede peraltro, almeno in questo caso, ritenuta insufficiente dai concorrenti visto che al bando aveva risposto una sola persona.

Ed infatti, in questa stessa congregazione, per la prima volta si parlò di regolamentare l'organizzazione dell'Ospedale che venne chiamato « S. Giovanni », ovviamente dal nome della chiesa dell'Ospedale dedicata a S. Giovanni e nominata anche nella bolla di conferma della Confraternita del Santissimo Nome di Dio del 1582. In quel regolamento vennero stabiliti il numero, le competenze ed i compensi del personale in organico, il tutto chiaramente esposto in 5 articoli intitolati: Preside (= presidente), Priore (= direttore), Cappellano, Medico, Spedalieri o infermieri. L'ultimo articolo è suddiviso in ben sedici paragrafi che specificano le incombenze della categoria.

Infine venne nominato anche un sagrestano con il compito della pulizia e della custodia della chiesa di S. Giovanni. Ma nonostante il continuo affinamento della organizzazione ed il moltiplicarsi dei controlli nella amministrazione della Confraternita e dell'Ospedale, che nel frattempo andava ampliandosi e prendendo sempre più l'aspetto di un ente pubblico con finalità di assistenza sociale, le cose non andavano sempre lisce e qualche scandalo turbava i tranquilli sonni degli scrupolosi amministratori.

Nella Congregazione del 17 novembre 1837, dopo i soliti preamboli e l'elenco dei partecipanti, venne annotato che l'eremita della Rocca, sig. Luigi Fatica, aveva prestato 25 scudi a tal Giov. Andrea Urbani nonché « due rubbia di grano concio » (circa cinque quintali) a tal Michele Fronti come risulta da dichiarazioni sottoscritte dagli interessati stessi. Ricordiamo che la Confraternita, e quindi l'Ospedale, viveva di proprie rendite e di elemosine e che fra quest'ultime c'era anche quella ottenuta dall'Eremita della Rocca.Torna su

Certamente questa fu la delibera più delicata che abbiano dovuto prendere i confratelli riuniti. Essa, dopo aver ricordato che, quando Luigi Fatica fu deputato (nominato) Eremita della Rocca, era così misero che l'Ospedale gli aveva dovuto dare un vestito decente, così prosegue: « . . . questo Ven. Ospedale sempre ha avuto il diritto di patronato sulla Chiesa della Rocca ed annesso romitorio, a di cui carico è stata sempre e la manutenzione della chiesa e locale medesimo non solo per quel che riguarda i restauri ma ancora i suoi arredi, come risulta dai registri della Confraternita, (congregazione del 29 dicembre 1799 e del 28 dicembre 1806) nonché il provvedimento dei mezzi di sussistenza tanto nello stato di salute quanto in caso di infermità del medesimo eremita, ed a cui (confraternita) per ciò appartiene il diritto di nominare (l'eremita) sempre esercitato come risulta dai registri della congregazione (congregazione del 30 settembre 1795 e del 28 dicembre 1796) . . . ». Pertanto, quanto sopra riportato e il seguito della delibera stessa si possono così riassumere:

— L'eremita della Rocca dipendeva dalla Confraternita del SS. Nome di Dio o di S. Giovanni come più brevemente era chiamata;

— Compiti dell'eremita erano la sorveglianza e la manutenzione della Chiesa della Rocca, alle quali avrebbe dovuto provvedere con le questue domenicali e con la « cerca » del grano e del vino che doveva fare nelle opportune stagioni;

— Questo eremita da parecchi anni, sembra 14, buono o cattivo che fosse il raccolto, versava all'amministrazione dell'Ospedale solo due rubbia di grano (circa 5 quintali).

Pertanto si cominciò a dubitare della lealtà e dell'onestà dell'eremita, anche perché lungo tutto questo tempo non aveva speso un soldo per la manutenzione della chiesa, né per rinnovare gli arredi, cosa sempre fatta dai precedenti eremiti.

Esposto quanto sopra e dopo lunga discussione la Congregazione così decise:

1) L'eremita dovrà presentare un rendiconto mensile di qualunque elemosina ricaverà;

2) Il Priore lascerà all'eremita il sufficiente per vivere e il restante lo verserà all'ospedale;

3) Gli scudi 25 saranno restituiti dal sig. Urbani al Priore dell'Ospedale che li impiegherà per la Chiesa della Rocca, così pure i due rubbia di grano e qualsiasi altra somma che fosse eventualmente recuperata;

4) Si darà all'eremita copia delle regole stabilite dal Concilio Romano per tutti gli eremiti, regole integralmente trascritte nel verbale.

Infine venne precisato che la congregazione aveva stabilito quanto sopra:

— Per togliere dubbi ai fedeli che si rivolgevano con elemosine alla Madonna della Rocca

— Perché era scandaloso che gli eremiti negoziassero i denari delle elemosine.

La congregazione desiderava anche troncare le chiacchiere sull'eremita che già nel 1832 aveva prestato scudi 8 a un certo Fortunato Martini e essa decise infine di dare lettura di quanto stabilito all'eremita in presenza del Segretario, del Vicario, ed Arciprete e del Priore dell'Ospedale. Dopo aver ricordato alcuni lavori eseguiti nella Chiesa della Rocca e nel romitorio la congregazione venne chiusa con la solita formula.

Nonostante le poche difficoltà surriportate e le molte taciute, ma anche con moltissime soddisfazioni, l'ormai chiamato definitivamente Ospedale di S. Giovanni, si avviava a festeggiare il compimento del suo terzo secolo di vita con l'impegno di ampliare e migliorare le strutture medico sanitarie ed adeguarle alle nuove scoperte mediche e farmaceutiche.

Nel 1853 venne così richiesta dalla confraternita l'assistenza delle suore di S. Giuseppe e la loro fondatrice Suor Emilia De Vialar inviò a Tolfa come ospedaliere tre monache appositamente istruite fra cui una farmacista. Il 23 ottobre 1853 mons. Gaetano Brinciotti Vescovo di Leuca e suffraganeo della diocesi di Civitavecchia, approvò il concordato stipulato tra il can. Don Domenico Mignanti in rappresentanza della Congregazione dell'Ospedale da una parte e il can. don Giovanni Cruciani, superiore ecclesiastico della Casa di Roma delle Suore di S. Giuseppe, dall'altra. Quest'ultimo era stato a ciò delegato dalla Superiora della Casa Suor Celeste Peyre.

Il concordato, alla realizzazione del quale a suo tempo aveva partecipato anche il card. Luigi Lambruschini, allora vescovo della diocesi di Civitavecchia, non aveva presentato particolari difficoltà, soprattutto per la buona volontà e l'abnegazione che animava le parti contraenti, preoccupate solo della efficienza e della funzionalità dell'Ospedale.

Nella convenzione, dopo aver sottolineato che l'Ordine delle Suore di S. Giuseppe (dette dell'Apparizione) aveva come scopo istituzionale l'assistenza ai malati ospedalizzati e non, e l'educazione delle fanciulle, e che in quel campo si era distinto anche nelle sue missioni all'estero, si precisavano i compiti che le suore si assumevano e gli obblighi ai quali si sottoponeva l'amministrazione dell'Ospedale e per esso la Confraternita di S. Giovanni.

Crediamo opportuno qui riportare alcune delle frasi più significative di quel concordato: « ... esse (le suore) si presteranno in pari tempo alle due opere di carità, che formano lo scopo del loro istituto: cioè l'insegnamento gratuito delle fanciulle di ogni condizione e la cura degli infermi nell'Ospedale e la visita di quelli nei domicilii . . . ». Qui si deve precisare che tanto la permanenza in Ospedale degli infermi che le cure prestate a domicilio, per gli abitanti di Tolfa, erano assolutamente gratuite e totalmente sostenute dalla Confraternita che vi provvedeva con le proprie rendite derivanti da proprietà lasciatele a tale scopo e da questue dei propri « cercatori » (confratelli che si dedicavano alla questua nei giorni festivi).

Poco appresso è detto: « . . . le suore nel rapporto del servizio andranno interamente soggette alla Deputazione (organo direttivo dell'Ospedale) (. . .) e riceveranno le rendite per le mani del rappresentante la deputazione: ne terranno un conto separato per esibirlo onde possa la deputazione conoscere... ». E' risaputo che la storia si ripete, e così come la Ven. Confraternita, nata solo per l'esaltazione del Nome di Dio, finì per patrocinare un ben organizzato Ospedale, anche le Suore, nella loro più che centenaria permanenza in Tolfa, ampliarono le loro opere e da semplici ospedaliere, divennero maestre di vita spirituale. Lasciato l'Ospedale, aprirono una loro casa e vi impiantarono le scuole elementari; poi istituirono un asilo infantile e infine una scuola di taglio e cucito ecc. Tutt'ora, dopo ben 125 anni di permanenza in Tolfa, sono presenti nel paese.

L'Ospedale nel secondo decennio di questo secolo fu trasferito in un nuovo imponente edificio in posizione panoramica e la vecchia sede fu trasformata in casa d'abitazione. Ma il nuovo ospedale non fu mai attivo, perché con il miglioramento dei trasporti la comunità tolfetana finì per fare capo al più grande e meglio attrezzato Ospedale di Civitavecchia.Torna su

 

GLOSSARIO

acquacotta = zuppa di verdure miste.

aratro-chiodo = antico aratro di legno con punta di ferro che terminava con una biforcazione per allargare la terra.

arretare = circondare con le reti o corde intrecciate.

bagherine = donne corrieri dal paese alla città per servizi.

barlozza = piccolo barile di legno di cinque o sei litri.

barlozza = carro a trazione animale a quattro ruote, impiegato nella campagna romana per il trasporto di merci.

bassette = pelli di pecore non conciate.

biscino = uomo di fatica in una fattoria dell'Italia centrale.

boattiere = nel Lazio piccolo proprietario di buoi che lavora anche terreni altrui dietro compenso in denaro.

bocche = stretto passaggio.

buttero = guardiano a cavallo di mandrie.

caciara = caciaia, locale per stagionare il cacio. caciaro = caciaio, colui che fa il cacio.

caglio = sostanza acida adoperata per provocare la coagulazione del latte, preparata col quarto stomaco dei ruminanti lattanti.

canneggiatore = aiutante in rilievi topografici eseguiti con la canna, asta generalmente di tre metri per la misurazione dei terreni.

capata = divisione, in questo caso, di capi di bestiame.

capezza = per cavezza, fune che serve a legare per il capo una bestia.

capezzone = per cavezzone; grossa cavezza munita anteriormente di seghetto che si mette alla testa dei cavalli da domare.

carcere delle vacche = recinto vicino al mattatoio.

cascina = in toscano, cerchio di faggio dove si preme il latte rappreso per fare il cacio, cascino.

casengo = corriere in una fattoria.

cista = grande recipiente cilindrico generalmente di castagno o olmo.

concallare = macerarsi, detto della lana.

coltrina = aratro con punta di acciaio quadrangolare appuntita.

correggia = striscia di cuoio, cinghia.

erba netta = erba non calpestata, per cui si diceva « nettare un terreno » il dividerlo in parti dove far ruotare il pascolo degli ovini.

forteto = boscaglia malagevole.

frocette = l'arnese di ferro che si appende al naso dei buoi.

fuscella = corto ramoscello secco, per estensione piccolo recipiente fatto di giunchi intrecciati.

gina = territorio abituale delle mandrie bovine tenute all'aperto, in campagna.

giovenco = giovane e robusto bovino, castrato.

grasceta = luogo abbondante di foraggio per il pascolo.

grascia = grasso, specialmente di maiale.

guidarello = montone con campanaccio che guida il branco.

incastrino = recinto di legno stretto per marcare le bestie.

impostare = testardo immobilizzarsi degli animali.

larghe = piccoli spazi aperti in un bosco.

magrone = giovane suino, per lo più castrato, destinato all'ingrossamento.

maione = toro castrato, addestrato a guidare il branco con un campano.

marraccio = roncola, strumento agricolo, costituito da una lama ricurva, fissata ad una impugnatura breve.

massaro = nell'Italia meridionale, il fattore che presiede la amministrazione dei poderi o che dirige una azienda di pastori.

mattarella = pecora adulta sterile.

merca = la marcatura degli animali in Maremma. merco = marchio, sulla merce o sul bestiame.

monnarella = diserbatura, liberazione di un terreno dalle erbe nocive.

monticatura = monticazione, il trasferimento in alpeggio del bestiame.

moscetto = piccolo proprietario di bestiame, in genere ovino.

pezzata = zuppa di pane bagnato con verdure e pezzi di pecora.

piastre = lastre di ferro appositamente forgiate, che si applicavano alle unghie dei buoi.

picchio = zappa a due lame contrapposte.

poccia = termine popolare toscano per mammella.

quarto = suddivisione del terreno dell'Università Agraria.

rapazzola = lettuccio o giaciglio povero.

razzetta = il più piccolo branco di buoi, che dà origine alla mandria.

rimissino = vasto e articolato recinto per le mandrie.

rompitura = termine meno comune per rottura, in questo caso del terreno.

rubbio = unità di superficie equivalente a mq. 18,480, ancora usata nella campagna romana. Il rubbio è anche un'antica unità di misura di capacità usata specialmente nell'Italia Centrale con valori variabili da città a città (a Roma 294, 46 1.).

sbacchiatura = separazione forzata fra pecora e agnello.

sbegolamento = lamento degli animali.

scarico = prodotti deperibili, per uso traslato del termine.

sciolta = togliere il giogo ai buoi.

scotta = termine regionale, che indica il residuo sieroso che rimane nella caldaia dopo fatto il formaggio o la ricotta.

serta = lungo giogo a quattro posti.

sfessare = termine regionale per spossare.

smonticatura = smonticazione, emigrazione del bestiame transumante dai pascoli di montagna al piano.

soma = carico di trasporto che si pone sul dorso di asini o muli, per estensione la quantità di prodotti trasportati.

somaro = gancio a forma di forca e girevole.

sovatte = per sogatto, termine arcaico, regionale che indica la striscia di cuoio per cinghie o finimenti.

sprenatura = spremitura, compressione di organi per provocare la fuoriuscita dei contenuti.

stabbiato = per stabbio, spazio recintato dove si tengono gli animali per concimare il terreno.

staccione = grosso palo a cui vengono legati i cavalli da domare.

stacco = giorno degli acquisti per un matrimonio.

stazzo = spazio recintato all'aperto, per estensione spazio chiuso naturale.

stramineo = aggettivo da strame, strato di erbe secche.

terratico = antica denominazione dell'imposta generale sulla terra o di particolari tributi caratteristici di singole regioni.

travaglio = strumento usato per tener fermo un animale durante la ferratura.

trocchio = tronco cavo riempito di sale per le pecore.

vaccina = vacca.

vaccina da corpo = vacca da carne.

vergaro = per vergaio, in Maremma il capo di tutto il per-sonale di custodia del gregge.

vetta dei buoi = termine regionale meridionale che indica il paio di buoi aggiogati.

vicenna = giornata di lavoro di sei ore fatta per conto terzi da un proprietario di buoi.

 

Glossario . » 103

Tavole: I. Basilio Pergi nel suo studio in Tolfa; II. Una caratteristica « posa » del Pergi; III. Il Pergi in una operazione di scavo (a) e mentre illustra alcune scoperte archeologiche (b); IV.' Panorama di Tolfa in una vecchia fotografia Alinari; V. La struttura urbana di Tolfa; VI. Momenti della « merca »; VII. Vecchie immagini di vita tolfetana; VIII. Riproduzione parziale del decreto istitutivo nel 1582 della Confraternita tolfetana che ha dato origine all'Ospedale di S. Giovanni (Arch. Pergi).

 

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