In
genere pascolava sul terreno dove poi avrebbero pascolato le pecore (ma
se vi era spazio sufficiente i due pascoli erano separati, con grande
vantaggio per la regolarità dell'andamento dell'azienda), perché la sua
conformazione mascellare gli permette solo di tagliare l'erba più alta,
mentre la pecora può pascere anche erba bassissima. La notte, il bue o
la vaccina si ritiravano nel bosco in cerca di un punto ben riparato dal
vento e possibilmente in qualche « stazzo » o « forteto ». L'intricato
groviglio di fini rami di spine e di liane, che spesso ricoprivano i tronchi
di alberi nei boschi, era detto « forteto », perché per un uomo era impossibile
entrarci o semplicemente sorpassarlo; per riuscirvi doveva usare il «
marraccio », cioè la roncola, che con la sua punta a forma di tagliente
becco d'uccello era quanto mai adatta prima ad avvicinare e poi a tagliare
i rami di rovi e liane. Ebbene, è proprio dentro questi grovigli che le
vaccine, molto aiutate dalle corna e dalla durissima pelle, riuscivano
a penetrare e a farne una specie di capannetta che le riparasse, bene
o male, dalla pioggia, ma soprattutto dai gelidi venti invernali; ed è
qui, in genere, che andavano a partorire, quasi a voler nascondere e proteggere
la loro creatura appena nata.
Il buttero, al tempo della «
sprenatura » (parto) che si cercava di far avvenire in primavera, sapeva
bene dove cercare le madri, per aiutarle eventualmente nel parto, e
difendere i vitelli appena nati da lupi e volpi che avrebbero
approfittato del particolare momento di debolezza della madre, per
ricavare un buon pasto con poca fatica. Dopo poche ore dalla nascita, il
vitellino, teneramente asciugato con forti colpi di lingua dalla madre,
riesce a stare in piedi e a muovere i primi passi.
Trascorso qualche mese dalla nascita,
circa sei, si procedeva alla marchiatura ed era anche questa
un'occasione di festa nel piccolo mondo dell'azienda. I più indaffarati
erano i butteri, che sui loro instancabili cavalli maremmani dovevano
restringere tutte le bestie da marchiare in una spaziosa rimessa, cioè
in un luogo recintato dove erano costruiti i « rimissini ». Questi sono
ancora oggi costituiti da un grosso e robustissimo recinto in legno,
diviso in più scomparti, ma che forma un unico complesso. In uno di
questi scomparti, in genere il più piccolo, c'è alla fine una specie di
imbuto in cui vengono sospinti i capi di bestiame attraverso uno
strettissimo passaggio, adatto ad una sola bestia per volta e chiuso ai
due lati da cancelli apribili. Questo piccolo spazio è detto, appunto, «
incastrino », perché le bestie vi vengono quasi incastrate e non si
possono muovere più. Evidentemente quando una bestia è entrata
nell'incastrino, risulta facile legarla ed immobilizzarla, per poi
procedere alla mercatura o per somministrare le iniezioni che la
immunizzano dall'afta epizotica o dal terribile carbonchio.
Ma tutta questa operazione avveniva
solo se si trattava di bestia grossa, perché i vitelli erano « mercati »
quasi sempre entro il rimissino, ma non entro l'incastrino. Infatti per
i bravissimi butteri risultava facile accalappiare con il lazo il
vitello ed imprigionarlo, quindi con velocissima maestria atterrarlo e
legargli le zampe. A questo punto giungeva il « massaro » cioè il capo
dei butteri, che applicava per qualche secondo sulla coscia destra del
vitello il marchio di ferro scaldato fino al rosso, in modo da
procurare una bruciatura che non forasse la pelle stessa, e così
terminava l'operazione.
La « merca » era la più suggestiva
delle operazioni che compiva il buttero ed era il culmine al quale
aspirava, perché richiedeva occhio e bravura per lanciare il lazo dal
cavallo in corsa, forza e destrezza nel prendere il vitello, nonché la
massima sveltezza nella legatura delle gambe una volta atterrato; ed era
ancora una grande bravura riuscire a prendere la lingua del vitello al
momento della marchiatura ed impedire così che la bestia in quell'attimo
traumatico, potesse ingoiarla e restarne soffocato.
Ovviamente, anche in questo giorno di
festa campestre, il Mercante era presente con alcuni amici e non si
creda che ciò fosse per mera vanteria o al solo scopo di ostentazione,
ma gli inviti avevano il fine preciso di far conoscere il nome di quella
masseria, la omogeneità del suo bestiame, il peso medio a capo, la resa
in carne al mercato dei macellai, che alla fine, al momento della
vendita, pagavano qualche lira in più per il prodotto di una azienda
nota e stimata. Insomma, una festa che aveva il solo scopo di
reclamizzare il prodotto per gli eventuali compratori futuri.
Il Mercante destinava in modo diverso
i vitelli nati nella sua azienda a seconda delle loro caratteristiche
fisiche. Diventavano tori i vitelli particolarmente favoriti dalla sorte
e madri le femmine di bella prestanza senza difetti nell'incornatura e
con un buon vaso lattifero utile non per la mungitura ma per la poccia
del vitello. I meno fortunati erano prescelti per il lavoro di cui
parleremo più diffusamente o, peggio, per il mattatoio se erano deboli o
semplicemente in sovrappiù del numero fissato dal Mercante per formare
una mandria adatta alle sue possibilità finanziarie. La doma dei buoi da lavoro era
un'altra importante attività del buttero. Essa avveniva quando il «
giovenco », bue di due anni circa castrato mediamente all'età di un anno
compiuto, veniva prescelto in base alla sua struttura ossea, alla sua
mole, alla sua docilità, al suo collo possente ed adatto al giogo.
Esso prima di tutto era rinchiuso nel
rimissino e vi era lasciato per alcuni giorni in completa solitudine e
ciò significava isolarlo dal branco e quindi procurargli un trauma. In
tale periodo il giovenco vedeva solo il buttero, che mattina e sera gli
portava un po' di cibo e l'acqua. Questa operazione aveva lo scopo di
indebolirlo e suscitargli simpatia verso il nuovo padrone, cioè il
buttero, che ovviamente aveva cura di toccarlo sul collo e diremmo quasi
di farci amicizia.
Il giorno destinato alla prima
aggiogatura venivano portati nel recinto due buoi domi e particolarmente
mansueti, non con il solito giogo a due posti, ma con la « serta » cioè
un lungo giogo a quattro posti. Il giovenco, non senza la fatica e
l'impegno di più persone, veniva aggiogato ad uno dei posti centrali, in
modo che i due buoi già domi lo avessero in mezzo e gli impedissero di
strattonare dall'una o dall'altra parte o magari, come spesso accadeva,
di voltarsi per tentare di prendere a cornate il buttero. Questi stava
subito dietro l'aratro, cioè alle spalle del giovenco, e cercava di
incitarlo a seguire la strada indicata dai buoi laterali, che nel
frattempo erano stati messi in moto e trascinavano l'aratro. Finita l'aggiogatura iniziava
l'addestramento per il vero e proprio tiro dell'aratro: in questa fase
il buttero doveva avere l'accortezza di trattenere leggermente le bestie
dome e far tirare di più il giovenco in modo che si abituasse allo
sforzo del collo, e seguisse i movimenti dei buoi a lui vicini. Questa operazione era complessa e
durava vari giorni, ma alla fine il giovenco era domo ed ubbidiente ad
ogni ordine del buttero, come tutti gli altri buoi da lavoro.
Il destino più triste per i vitelli
era comunque la mattazione. In base alla superficie di pascolo che il
Mercante era riuscito a reperire, egli calcolava la quantità di capi da
immettere alla mattazione e così tutte le bestie, non ritenute adatte
alla riproduzione e al lavoro, erano destinate al mattatoio. Ciò
avveniva a più riprese e i butteri di volta in volta decidevano il
numero dei capi da macellare, radunandoli poi per portarli al « carcere
», un grosso recinto in muratura che accoglieva (e accoglie ancor oggi)
le bestie destinate alla mattazione. In queste carceri erano rinchiuse
anche le bestie trovate a pascolare fuori della zona abituale e in
un'altra proprietà. Tali bestie erano fuggite dalla « gina », loro
territorio abituale, e dalla « razzetta », il branco delle femmine con
un maschio che formava razza a sè e portava il marchio di un solo
proprietario. Esse erano andate a pascolare altrove provocando un danno,
che doveva essere stimato e risarcito dal proprietario della bestia al
proprietario del terreno danneggiato, e erano fatte uscire dalle carceri
solo ad avvenuta liquidazione di esso. Nelle carceri, dunque, erano portate
le bestie destinate al mattatoio, con grande accompagnamento di butteri
e di cani, loro fedeli aiutanti, e qui esse dovevano sostare un tempo
più o meno lungo in attesa di essere mattate. Il trasporto sul luogo
della uccisione era particolarmente straziante perché sembrava che la
bestia presentisse il suo destino; chi scrive vi ha assistito nei primi
anni di vita e ha motivo di credere che la scena si ripetesse uguale in
tutti i paesi della fascia alta della Maremma romana.
In Tolfa il mattatoio era ubicato a
circa duecento metri dalle carceri, alla fine di una lunga discesa. Il
trasporto della vaccina predestinata, dalle carceri al mattatoio, era
uno spettacolo indimenticabile: la bestia, allacciata con due robuste e
lunghe corde per le corna, era tirata in avanti da una catena di circa
trenta robusti giovanotti. Una catena simile di altri butteri la
tratteneva dietro, in modo che la vaccina o il vitellone, visibilmente
irritati per tale trattamento, al quale non erano assolutamente
abituati, non potessero incornare né gli uomini che li tiravano né
quelli che li trattenevano. Dopo qualche tempo di questa specie
di tiro alla fune molto singolare, non era raro il caso di bestie che,
con la forza della disperazione, sfuggissero alle due colonne di butteri
con grande spavento della gente che si trovava sul percorso. Subito
altri butteri a cavallo le rincorrevano a cerca-vano di reindirizzarle
alle sempre provvidenziali carceri. Altre volte gli animali si «
impostavano », cioè si puntavano sulle gambe rifiutandosi energicamente
di proseguire, ma alla fine erano costretti a cedere e entravano così
legati nel mattatoio, dove erano uccisi.
Ma i butteri si occupavano anche
della doma dei cavalli: nel rimissino, più volte ricordato ed
elemento indispensabile in ogni tenuta degna di rispetto, esisteva uno
spazio più ampio, che era il vero centro del rimissino, nel quale
avvenivano tutte le operazioni di merca e di capata (divisione dei capi
di bestiame) e nel quale aveva luogo anche la doma dei cavalli. Per questa operazione era necessario
che al centro dello spiazzo più grande esistesse lo « staccione », un
robustissimo tronco d'albero di almeno trenta cm. di diametro,
fortemente infisso al suolo ed al quale venivano legati gli animali da
domare. Così avviene l'operazione ancora oggi: il buttero allaccia il
cavallo e, dando un giro di laccio allo staccione, fa sì che il puledro,
in genere sui tre anni, fra salti, calci, impennate e capriole, si
avvicini sempre più allo staccione e giunga con la testa a contatto di
esso. A questo punto il buttero con molta attenzione mette al puledro
una robusta capezza (cavez¬za), lunga abbastanza perché si possa « dare
il giro » al cavallo da domare. « Dare il giro » significa far girare in
tondo il cavallo per stancarlo e per abituarlo alla cavezza, che viene
un po' allentata, in maniera da dare l'impressione che lo si voglia
lasciare libero, e un po' tirata con provvidenziali ed affatto gentili
strattoni, per ricordargli che è prigioniero e abituarlo così alla voce
dell'uomo, ma soprattutto alla guida della cavezza.
Questa operazione è ripetuta per più
giorni, finché, quando il domatore lo ritiene opportuno, si comincia a
posargli sulla groppa prima una leggera coperta, poi la sella per ancora
qualche giorno. Quando il buttero crede che il cavallo abbia acquistato
l'abitudine alla sella, affiancato da almeno altri due butteri su
cavalli ben domi, pian piano sale in groppa e comincia la girandola di
salti, sgroppate, impennate, calci ecc., ma il bravo buttero resta in
sella e così, ripetendo l'operazione per vari giorni, il cavallo viene
domato. In questo periodo il cavallo sotto
doma non porta le briglie (redini con il morso), che verranno aggiunte
dopo, ma il « capezzone », cioè una apposita cavezza a due corde
laterali che permette al buttero di richiamare l'animale o a destra o a
sinistra. Alcune volte, a seconda dell'indole del cavallo da domare, un
capo del capezzone è tenuto dall'aiutante del buttero per evitare che il
cavallo, disarcionato il buttero, possa prendere uno spettacolare fugone
e sottrarsi per il momento alla doma.
Riprendendo il discorso
sull'allevamento dei bovini, va precisato che tale bestiame non
richiedeva, come l'ovino, la monticatura, cioè il trasporto in montagna
della mandria, però questa alle volte era costretta a spostarsi da una
tenuta all'altra e ciò costituiva un'operazione quanto mai faticosa per
i butteri e per i cavalli da loro montati.
Quando il Mercante decideva di
spostare la mandria da un pascolo all'altro, era necessario prima
radunarla tutta in una rimessa della vecchia tenuta e solo dopo tale
raduno, che durava più giorni, ci si incamminava alla volta della nuova
destinazione. Apriva la marcia il « maione », in genere un placido toro,
che portava al collo un grosso campanaccio assicuratogli dal « sovatte
», cioè un collare largo e di dura pelle di bue ben fissato al campano.
Per abituarlo al fastidio del suono, il toro era stato messo in
precedenza nell'incastrino e gli era stato applicato il sovatte e
relativo campano ben chiuso con erba fresca in modo che non suonasse,
poi era stato liberato. Esso aveva sentito il leggero peso del campano,
ma non il suo suono e ciò gli aveva dato poco fastidio, ma, per
liberarsene, aveva strofinato il collo su tutti gli alberi che aveva
incontrato, facilitando così la perdita dell'erba che nel frattempo si
era seccata. Poi aveva cominciato a sentire il suono ed un po' alla
volta il fiero toro si era abituato anche a quell'incomodo. Il « maione
» era pronto e poteva guidare il branco che lo seguiva, ormai
indifferente allo strano scampanio.
Ma la fatica maggiore per i butteri,
che erano costretti a cambiare ogni giorno i cavalli per non « sfessarli
», era quella di tenere unito il gruppo in maniera che nessun capo,
specie se piccolo, si perdesse o fosse rapito. Queste scene, anche se un
po' romanzate, possiamo ancora vederle nei vari films western. In conclusione, l'azienda del
Mercante, per essere considerata tale, doveva avere le seguenti
dimensioni e caratteristiche: due-tremila capi ovini,
quattro-cinquecento capi vaccini e cavallini, che necessitavano di una
tenuta di almeno millecinquecento ettari, dei quali il quindici-venti
per cento a bosco.
I pastori erano una trentina ed i
butteri non meno di dieci, a questi si aggiungeva il personale
avventizio che era assunto nei periodi di semina, di mietitura, di «
monnarella » (estirpazione delle erbacce dalle zone seminate), di tosa
delle pecore, di marchiatura del bestiame ecc. Per le necessità di una tenuta il
Mercante doveva avere una precisa attrezzatura: alcuni carri trainati da
muli, alcune barrozze trainate da buoi, alcuni aratri-chiodo o, più
tardi, alcune « coltrine », a seconda del numero dei buoi addetti al
loro traino, selle e briglie in quantità adeguata al personale
cavalcante, che raggiungeva le dieci o quindici unità almeno, reti da
pecore, caldaie per il formaggio di varie grandezze, secchi per la
mungitura ed inoltre una quantità di attrezzi minori come zappe,
forcine, cordami, sgabelli da mungitori, se-menti, che non venivano
acquistate ma lasciate dalla massa del grano raccolto, dopo essere state
accuratamente scelte.
L'avvento della macchina e
dell'economia industriale han-no fatto scomparire la figura del «
mercante di campagna », come sono anche scomparsi, o quasi, i butteri, i
pastori, il caciaro, la capanna e tutto ciò che caratterizzava quel tipo
di società contadina.
IL FESTINO
L'alba tingeva di rosa i grigi tetti
coperti da un leggero strato di muschio verdastro delle case tolfetane
in quel lontano 28 febbraio 1911, quando l'autore di queste note veniva
alla luce, mentre le strade illuminate solo da quel lontano riflesso del
bagliore solare risuonavano delle allegre musichette di tutte le «
società », che dopo una notte di patetici e semplici balli popolari
davano l'addio al Carnevale.
In quel lontano periodo, infatti, era
un caro costume paesano salutare la fine del Carnevale con un « festino
». Nostalgie della Tolfa del passato, Tolfa semplice che si accontentava
di poco e di poco viveva, ma sempre in serena amicizia cementata da anni
di fatiche comuni, di aiuti reciproci e disinteressati, fatti di piccoli
favori. Ci si scambiava un asino o un bue perché all'amico si era
azzoppato il proprio; ci si prestava una coppia di pane o un pezzo di
lardo o di cacio, per preparare la famosa acquacotta, pasto quotidiano
di tutti i contadini, che vivevano l'intera settimana in campagna, e
quindi, se veniva a mancare qualcosa erano costretti ad ore ed ore di
cammino per tornare al paese e rifornirsene.
Ma ciò non avveniva mai, perché
sempre ci si divideva il necessario, sicurissimi che la domenica mattina
si sarebbe riavuto quanto prestato. Ma torniamo al festino, che era
l'unica festa carnascialesca per eccellenza. A Tolfa era uso comune festeggiare
l'ultima notte di carnevale con un festino, che veniva preparato nei più
minuti particolari. Si cominciava con il costituire la « società » che
aveva il solo scopo di preparare il festino e durava solo per il periodo
di carnevale. Ovviamente i soci erano un gruppo di amici contornati
dalle loro famiglie. Compito primario degli organizzatori era reperire
l'orchestra, composta da un mandolino, da una chitarra, da una
fisarmonica e forse, se se ne trovava, da un violino. Reperiti i musici, si pensava alla
cena che doveva essere, per quei tempi, suntuosa: i « soci » Si
dividevano gli oneri, ma, si badi bene, non in moneta liquida, ma in
generi di consumo, o meglio in generi commestibili che erano accantonati
in proporzione dei componenti la famiglia. Questo perché al festino ed
alla cena di mezzanotte, non partecipavano solo i giovani ma la famiglia
al completo, che portava già preparato quello che credeva o, meglio,
quello che era più congeniale alla sua attività e si aveva così che
portava un agnello quello che era dedito alla pastorizia, il pane chi
era dedito alle sementi, la verdura chi era dedito alle colture ortive e
così via. Cosa che non mancava mai era una certa abbondanza di dolci,
preparati dalle ragazze da marito delle varie famiglie dei « soci »,
forse con la non assurda speranza di prendere per la gola qualche bel
giovanotto, che rendeva le notti pressoché insonni, ma che non aveva
avuto ancora il coraggio o il pretesto per presentarsi a richiederle con
la immancabile serenata.
Sì, perché la serenata, fatta magari
con un solo mando-lino ed un piffero e con il canto di stornelli
popolareschi di un amico che si vantava di essere un poeta a braccio,
era il preludio immancabile e solenne al fidanzamento vero e proprio.
Quante volte nel silenzio notturno
chi scrive ha inteso dolci smandolinate accompagnate dalla voce di un
cantante! E in quello stesso momento la Dulcinea era ben nascosta,
statene certi, dietro i vetri della finestra con il cuore trepidante
nella incertezza di lanciare o meno al suo spasimante un fiore o meglio
un fazzolettino ricamato con le proprie mani, che diveniva con quel
salto il pegno di un futuro eterno amore.
Questo attendevano le ragazze di
Tolfa in quel periodo, ed erano appagate se alla massa domenicale
potevano lanciare un furtivo sguardo al bene amato, sotto, sempre, il
burbero sguardo della madre, che peraltro il più delle volte fingeva di
non vedere perché troppo impegnata nella funzione religiosa, ma, statene
certi, all'uscita della messa, nella inevitabile ressa, badava bene che
quel tale non si avvicinasse troppo a sua figlia, magari per sfiorarle
una mano. Era proprio nei festini che nasceva
l'amore, perché là, mentre le madri vantavano il tale arrosto o il tal
altro dolce, fatto dalle mani della loro impareggiabile e brava
figliola, i giovani avevano modo di far conoscenza e di apprezzarsi.
I festini si svolgevano pressappoco
sempre su questo schema: gli amici che costituivano la società
destinavano un locale, possibilmente a piano terra, in genere un
magazzino di proprietà di uno dei soci, ad accogliere la festa, lo
libera-vano, lo pulivano, lo addobbavano con festoni di fiori di carta o
con corone e festoni di mirto e di alloro, appositamente preparati dalle
ragazze, sorelle dei soci, e quindi lo rendevano più allegro con vari
lumi ad olio (in quel tempo a Tolfa non c'era l'elettricità).
Questo lavoro preparatorio durava
diversi giorni in quanto impegnava i giovani e le giovanette, sotto
l'occhio vigile dei genitori, solo nei momenti liberi, cioè in pratica
solo la domenica perché tutta la settimana essi erano fuori in campagna
ad attendere ai normali lavori. Finalmente giungeva la notte fatidica
e tutto era, statene pur certi, pronto.
Verso le dieci di sera tutti si
radunavano nei luoghi stabiliti: per l'occasione e volendo ben figurare,
tutti avevano indossato il « vestito buono » ed avevano, all'occhiello i
ragazzi e sul seno le ragazze, un fiore in precedenza stabilito, per
tutti uguale, e che era il simbolo e il distintivo di quella tale
società che aveva organizzato il festino. Questo serviva a distinguere
un festino dall'altro, in quanto a Tolfa in quel giorno pressoché tutte
le famiglie erano impegnate in qualche società e quindi in qualche
festino e pertanto era ovvio che ognuna delle società desiderasse
distinguersi dalle altre.
I balli, mazurca, walzer, salterello,
quadriglia ecc., iniziavano verso le undici per interrompersi a
mezzanotte precisa, in quanto a quell'ora doveva iniziarsi la cena
annaffiata da abbondanti libagioni di quel generoso vino tolfetano fatto
solo di uva pestata con i piedi nudi. Ovviamente, come per caso, le
ragazze, anche con la complicità delle madri più accorte, finivano
sempre in prossimità dei loro più o meno dichiarati spasimanti, ma
sempre sotto l'occhio vigile delle probabili future suocere e così al
povero giovane non rimaneva altro che toccare con il proprio piede il
piede della sua bella. Questo naturale richiamo del sesso era detto
comunemente « peccato di suola », proprio perché erano solo le suole
delle scarpe quelle che riuscivano a toccarsi!
La cena durava circa due ore, dopo di
che si riprendeva a ballare anche se i movimenti risultavano un po' più
impacciati per il vino bevuto. Era considerato disdicevole, per una
ragazza che fosse da marito, « fare tappezzeria » cioè rimanere spesso
sprovvista di cavaliere per il ballo; era permesso fare tappezzeria solo
alle mature madri di famiglia ed agli indaffarati padri che più spesso
rimanevano a discutere, tra un bicchiere e l'altro, dei loro affari con
gli amici. All'alba tutto finiva con un corteo
per le gelide vie cittadine: gelo che certo non impensieriva i baldi
giovanotti e le procaci ragazze partecipanti al festino, perché troppo
accaldati dalle danze, dal vino, dalla abbondante mangiata ma più ancora
dall'aver avuto, anche se solo di suola, un contatto e un assenso dalla
beneamata.
All'uscita della sala del festino si
formava un corteo aperto dalla orchestrina che suonava una qualche
canzonetta in voga cantata in coro da tutti i partecipanti, e le strade
risuonavano delle allegre risate di tutti i festaioli che, fatto il giro
del paese e giunti sulla piazza, si dividevano fra grandi
ringraziamenti, lazzi, sottintesi e grandi pacche sulle spalle, con
promessa solenne di ritrovarsi alla Santa Messa per ricevere le
riparatrici ceneri penitenziali, messa che sarebbe iniziata di lì a poco
nella collegiata del paese.
Questa era
l'atmosfera di Tolfa l'ultimo giorno di Carnevale, nel quale ebbe la
ventura di venire alla luce Basilio Pergi.
L'Università Agraria
L'Università agraria è un istituto
tipico e tuttora esistente sui monti della Tolfa. Innanzi tutto è bene precisare che la
parola Università sta per universale, totalità degli affiliati, società
nella quale tutti hanno gli stessi diritti. Questa società garantisce ai pastori
ed agli agricoltori di Tolfa il diritto di pascolo dietro modesto
compenso per ogni capo del loro bestiame e garantisce anche l'uso di
terre a semina con un lieve terratico. L'Università fornisce
gratuita-mente agli iscritti tori e stalloni selezionati per il
migliora-mento delle razze equine e bovine locali.
Finora il più antico documento
riguardante tale istituzione è stato considerato un fascicoletto
pubblicato in Civitavecchia nel 1820 dalla stamperia Camerale ed
intitolato: Regolamenti per le due Università di Mosceria ed Agricoltori
di Tolf a approvati con chirografo della Santità di nostro Signore Papa
Pio VII felicemente regnante. Nella prefazione si legge che la
prima istituzione delle due Università di Mosceria e di Agricoltori di
Tolfa rimonta a tempi antichissimi, ma mancano memorie scritte e quel
poco che se ne sa si deve alla tradizione. Pare, sempre secondo questo
documento, che l'Università degli Agricoltori avesse il suo principio
nel 1620, ma solo nel 1767 istituzionalizzasse le antiche sue usanze. E'
appunto in quest'epoca che fu convocata la prima adunanza degli
Agricoltori. L'Università di Mosceria ha una
origine meno antica: si attribuisce all'anno 1710, ma fu soltanto nel
1735 che incominciò a registrare i suoi atti. Nel documento si dice inoltre che le
due Università si reggevano sulle usanze del luogo, ma senza
regolamento. Si ricorda poi la visita, avvenuta tempo prima, di certo
can. Selli per dirimere alcune questioni sorte fra i soci. Ma a quanto
pare la visita non ebbe risultati stabili, se dopo pochi anni alcuni
zelanti componenti la società provvidero ad indirizzare una supplica a
papa Pio VII, perché volesse interessarsi al miglioramento della
situazione economica e finanziaria « delle due università già vicine al
loro totale decadimento per la massa enorme di debiti da cui si
trovavano oppresse ». Si ritenne necessario inoltre fare un regolamento
e si chiese a Pio VII di emanarne uno, affidando tale compito a Mons.
Uditore Delegato Apostolico M. Benvenuti, coadiuvato da una commissione.
Segue poi la supplica al « Beatissimo
Padre » nella quale è detto che per appianare il non tenue dissenso fra
le due Università era necessario redigere un regolamento, da farsi
tenendo presente il Chirografo di Pio VI in data 28 novembre 1782. Segue
il « regolamento » da osservarsi nelle due Università di Mosceria e
Agricoltori diviso in due titoli: il titolo primo riguarda la Mosceria
ed è composto di quattordici capitoli e ottantasette articoli; il titolo
secondo riguarda gli Agricoltori ed è diviso in quattro capitoli e
diciassette articoli. Il tutto si conclude con una supplica
in latino nella quale è implorata l'approvazione di detto regolamento
anche perché è conforme a quanto stabilito nel Chirografo del 28
novembre 1782 ed è firmato da « B. Cristaldi SS. Aud. ». Si può affermare con una certa
sicurezza quindi che le due Università siano nate l'una nel 1620 e
l'altra nel 1710. Ma chi scrive ha approfondito lo studio sul
funzionamento e l'origine dell'Università Agraria attraverso un'attenta
lettura di due documenti in suo possesso, mai pubblicati.'
Il primo, inerente alla visita Selli
surricordata, è un « Istromento » del 19 dicembre 1782 di Pio VI che,
pur non (documenti sono conservati presso l'archivio Pergi) emanando un
vero e proprio regolamento, dette le direttive per una migliore
amministrazione dei beni in possesso delle due Università e ne precisò
gli scopi e l'attività elencando poi le tenute che la Reverenda Camera
Apostolica aveva concesso fin dal 19 dicembre 1778 in enfiteusi alla
Comunità ed Università di Mosceria della Terra della Tolfa. Nel contesto
poi leggiamo che le varie tenute erano già godute dalle due Università
che le ottenevano dalla Reverenda Camera Apostolica in uso con contratto
novennale rinnovantesi pressoché in continuazione. In particolare questo
atto fu stilato perché la garanzia del pagamento degli affitti includeva
anche i beni comunali, cosa che fu abolita in quanto, è detto nell'atto,
a garantire gli affitti sarebbe stato sufficiente il bestiame che
pascolava sulle zone affittate e di proprietà degli utenti. Infatti
questo negli ultimi anni aveva avuto un forte incremento, tanto che
nell'atto della stipula il bestiame vac¬cino e cavallino raggiungeva la
bella cifra di duemilaquattrocento capi grossi.
L'altro documento, redatto il 28
settembre 1784 dal notaio Vittorio Hilary è più importante ai fini delle
ricerche sulla nascita delle due Università. Si ritiene opportuno
riportare qui una larga parte iniziale: « Essendo conforme a me Notaio
per verità si asserisce, che in vigore di pubblico consiglio tenuto dai
Signori consiglieri della Terra della Tolfa fatto il Di 1 dicembre 1549
successivamente confermato ed approvato li 4 novembre 1552 e 10 dicembre
1555 venisse al ripartimento dei Quarti del proprio Territorio la
comunità della stessa terra non meno per sollievo del Popolo e di essa
comunità che a vantaggio dell'Agricoltura, ed in seguito abbia costumato
la predetta comunità vendere l'Erbe d'Inverno delli medesimi quarti col
ritrarne ora uno ed ora altro prezzo a proporzione delle Stagioni, ed
Offerte, che gli si presenta-vano dai Particolari che ambivano prendere
tali Erbe Invernali. Essendo ancora che fino dal 1710 la comunità
suddetta incominciasse a vendere per il prezzo ordinariamente minore di
annui scudi duemila le stesse Erbe a molti particolari Possidenti
denominati Mosceria coll'aggiungervi l'Erbe di altri novi quarti, oltre
l'antichi, e ciò ad effetto di poter così avere una maggiore risposta
per dar riparo alle indigenze accresciutesi sempre più nella detta
Comunità e sollevarla dalle medesime, e con questo somigliante sistema
vantaggiasse si il pubblico che il privato interesse. Sia pur vero che
ritrovandosi detto Corpus di Possidenti della Mosceria in possesso di
Tali Erbe in vigore dell'ultimo Istromento di affitto per nove anni
stipolatogli il di 13 Agosto 1774 il quale affitto va a terminare
l'ultimo del cadente Mese di Febbraio colla pretenzione peraltro di Essa
Mosceria, che possa essere ricominciato l'Affitto per un altro novennio
sul motivo che la comunità suddetta non gli abbia fatto legalmente la
Disdetta convenuta nel suddetto Stipolato Istromento di afflitto ».
Sembra doversi dedurre quindi, da
quanto riportato, che già nel 1549 il territorio della « comunità » si
divideva in quarti « non meno per sollievo del Popolo e di essa comunità
che a vantaggio dell'Agricoltura » e che la stessa « comunità » vendeva
le « erbe di inverno » a coloro che gliene facessero richiesta. Si
deduce ancora che dal 1710 la « comunità » cominciò ad affittare quarti
a pascolo agli allevatori riuniti in associazione della Mosceria e che
tali affitti erano per nove anni.
Possiamo riassumere il resto del
documento in questo modo: certo Sante Lattanzi (non tolfetano) nel 1783,
poiché stavano scadendo i nove anni stabiliti per contratto, chiese in
affitto i quarti ancora in possesso della Mosceria, offrendo duemila
scudi. I moscettieri forti delle loro consuetudini locali, si rivolsero
a Pio VI perché intervenisse e consigliasse la stipola di una enfiteusi
perpetua in modo da evitare che il godimento dei pascoli potesse passare
in altre mani. Pio VI con rescritto del 1 settembre 1784 approvava fa
concessione in enfiteusi perpetua. L'atto stesso di stipula
dell'enfiteusi delle terre alla Mosceria è stipulato il 1° settembre
1784.
Per concludere, sulla base di tale
documento, si potrebbe ragionevolmente avanzare un'ipotesi che certo va
verificata attraverso il confronto con i documenti ufficiali dell'allora
Stato Pontificio: l'attuale Università Agraria di Tolfa potrebbe
esistere sotto forma di una qualsivoglia forma associativa di persone
dedite alla stessa attività, almeno dal 1549, quando il Consiglio della
Tolfa addiviene alla divisione in quarti del territorio della « comunità
», per concederli in godimento agli abitanti stessi. In merito alla
formazione della proprietà della attuale Università, deve osservarsi che
essa ebbe il suo pri¬mo corpo di terre dalla enfiteusi perpetua,
concessa alla stessa, dalla Reverenda Camera Apostolica; enfiteusi che
con il passare degli anni si tramutò in possesso pieno.
In seguito poi l'Università ampliò le
sue proprietà con acquisti singoli da privati, ma soprattutto con terre
pervenutegli dalla liquidazione degli « Usi civici » in quanto i grandi
proprietari di terre, gravate appunto da usi civici, hanno preferito,
nella prima metà di questo secolo, liquidare questa anacronistica forma
di servitù (diritto di legnatico, di pascolo estivo ecc.) cedendo ai
cittadini tutti e per essi alla Università, una superficie di terreno
pari al valore delle servitù che gravavano sul complesso delle tenute di
loro proprietà.
La liquidazione della servitù di Uso
Civico fu demandata per la sua definizione ad un organismo detto appunto
« Commissariato per la liquidazione degli Usi Civici ». All'inizio del XX secolo,
l'organizzazione riuniva « le due Università di Mosceria ed Agricoltori
di Tolfa » e aveva già preso il nome di « Università Agraria di Tolfa ».
Era composta da tutti i cittadini tolfetani dediti alla agricoltura, in
essi compresi quelli dediti solo alla zootecnia. Oggi fanno parte della Università
agraria tutti indistintamente i cittadini di Tolfa maggiorenni, che
eleggono gli amministratori con libere elezioni. L'Università Agraria, con i suoi
attuali 7.000 ettari in proprietà sui circa 12.000 che compongono la
superficie territoriale del Comune, condiziona le attività agricole dei
tolfetani, anche perché, se si escludono le due maggiori proprietà
private di Rota e Casalone, ben poco rimane del vecchio latifondo che si
è polverizzato in minuscoli appezzamenti nelle vicinanze del paese
coltivati, per la maggior parte, ad orto e vigna.
b) L'Ospedale di S. Giovanni
In piazza Matteotti, fino agli inizi
del XX secolo, erano ubicati gli edifici di una chiesa e di un ospedale,
entrambi dedicati a S. Giovanni.
Per dare uno sguardo ai precedenti di
tale istituzione è necessario risalire nel tempo, e precisamente alla
storia della Venerabile Confraternita del Santissimo Nome di Dio,
istituita con decreto del 25 ottobre 1582 2 dal Padre « Tommaso Zobbio
da Brescia professore di sacra teologia, vicario di tutto l'Ordine dei
Predicatori ».
In tale documento è detto « . . . i
fedeli della Terra di Tolfa Vecchia della diocesi di Sutri e Nepi,
(chiedono) sia creata e ordinata la Confraternita del Santissimo Nome di
Dio nella Chiesa di Santo Giovanni . . . » e più oltre « . . .perciò noi
spinti dai voti e dalle pie richieste concediamo la facoltà di fondare,
erigere ed istituire la Confraternita del Santissimo Nome di Dio e
l'altare e la cappella (.. .) e se è già stata costruita l'approviamo e
confermiamo ».
Da ciò si deduce che in Tolfa vecchia
esisteva, presumibilmente, precedentemente a quella data (1582), una
Confraternita che con quella bolla fu solo approvata e legalizzata. Deve
ancora sottolinearsi che l'approvazione di quella confraternita avvenne
su proposta del Rev. Padre maestro Vincenzo de Cellis, anche lui
dell'ordine dei predicatori e certamente, dal nome De Cellis, di Tolfa.
Ma il compito che la Confraternita si
era assunto all'atto di fondazione, cioè la sola esaltazione del Nome di
Dio, evidentemente non era, almeno nelle intenzioni, il solo scopo
sociale, o quanto meno l'attività della Confraternita con l'andare del
tempo, si era ampliata o comunque evoluta. Ciò è dimostrato dal verbale
della Congregazione (riunione) dei 2 Pergamena manoscritta e
sottoscritta con belle miniature ai margini e scatola del bollo;
lievemente rovinata in corrispondenza di alcune piegature; dimensioni:
cm. 60x40, compreso il bordo miniato; è conservata tra le carte della
famiglia Pergi, « confratri »3 tenuta il 25 novembre 1636 (cioè solo
cinquanta anni dopo il riconoscimento ufficiale della Confraternita),
nel quale possiamo leggere: « Avanti il molto Rev. sig. Don Yacomo
Zamponi vescovo foraneo della Tolfa è stata raddunata la Congregazione
dei fratelli della Ven. Compagnia del Santissimo Nome di Dio dalli sigg.
Alfio Bonizi priore. . . », seguono i nomi del V. Priore, del
Camerlengo, del Segretario, e di tutti i partecipanti. Nel testo del
resoconto della seduta leggiamo ancora: « . . . s'intende che sarebbe
cosa facile che i confratelli che sogliono attendere al servizio
degl'infermi verrebbero volentieri a servire questo nostro Hospitale
semprechè alli medesimi fussero fatte condizioni di poterci stare et
ponendo che questo Hospitale habbia entrate assai sufficienti per
poterceli introdurre, e considerando che con simile occasione si
verrebbero ad augumentare il servizio di Dio a beneficio dei poveri
infermi.». Evidentemente la assistenza nell'Ospedale avveniva in forma
volontaristica, ma esso era istituito e funzionante e godeva già di
alcune rendite.
Dal contesto della delibera si rileva
pure il pensiero dell'espositore, il quale fa osservare che la sola
abnegazione non basta a compensare gli infermieri e quindi a chi più si
impegna nella cura degli infermi è necessario provvedere almeno
riconoscendogli un compenso a rimborso del tempo occupato in tale
benefica opera.
La delibera prosegue con argomenti di
ordinaria amministrazione fra cui la decisione di eseguire alcuni lavori
di riadattamento dello stesso ospedale.
Il concetto di compensare gli
infermieri venne ribadito e precisato nella « raddunata » del 1° gennaio
1639 nel verbale della quale, dopo il solito preambolo e l'elenco dei
partecipanti, leggiamo « ... nella medesima congregazione è stato anche
resoluto di fare il prato dell'Acqua Bianca a Menino (3 Registro dí 85
fogli legati in cinque quinterni, contenente le delibere delle
congregazioni dal 25 settembre 1637 al 16 febbraio 1678; conservato tra
le carte della famiglia Pergi) spitaliero per scudi tre l'anno che se le
diano per esercimento di salario et sue fatiche che fa per l'hospitale
(. . .) ».
In conclusione, sulla base dei
documenti citati e di altri verbali di sedute, che per brevità non
riportiamo, si può affermare che:
1) L'ospedale esisteva prima del
1636 e vi affluivano anche i malati delle cave di allume, come è
precisato in alcune delibere.
2) Sino a quella data
l'assistenza ai malati era prestata gratuitamente dai confratelli.
3) Almeno dal 1639 si riconosce
un compenso a chi assisteva gli infermi, anche se in forma ibrida,
concedendo ad essi un terreno a basso fitto.
La sua gestione continuò ad essere
imperniata solo sulla fiducia e sulla carità cristiana, finché nella
deliberazione del 12 maggio 1675 venne discusso e approvato un
regolamento, unico e generale per tutte le confraternite che nel
frattempo andavano moltiplicandosi, emanato dal Vescovo di Sutri e Nepi
Card. Giulio Spinola per regolamentare la vita di queste iniziative che,
con l'andare del tempo, avrebbero potuto travisare i nobilissimi intenti
per i quali e con i quali erano nate.
E' interessante scorrere il
regolamento per notare che « ... non si elegghino per Priori o altri
Officiali padre e figlio, né doi fratelli né zii e nipoti e chi è stato
eletto una volta, non si elegga di nuovo (...) e però ogni 15 giorni
prima sia finito il tempo dell'Officiali vecchi (quelli che avevano
retto la confraternita nell'anno immediatamente trascorso) il Consiglio
della Compagnia si congreghi insieme e faccia elezione de nuovi
Scindicatori (sindaci revisori dei conti) per voti segreti, quali non
siano parenti almeno in primo o secondo grado alli Priori o Camerlenghi,
e vedano fra questo tempo (15 giorni) i conti per l'amministrazione
dell'entrata e dell'uscita (. . .) et ordiniamo che chi sarà chiamato
debitore dalli Scindicatori sborsi subito in mano al nuovo Camerlengo
quello che deve...».
Ed ancora, all'art. 7 « . . . quando
si averanno da fare affitti, si facciano ad estinzione di candela, e
poste prima le solite cedole (avvisi, bandi) (. . .) si daranno a quelli
che più offeriranno . . . ».
Dopo altre regole, riguardanti
l'amministrazione dei beni della confraternita, si passa ad una lunga
esposizione dei doveri che hanno gli ospedalieri in un contesto
apposito, intitolato appunto « De gl'Hospitali », ove fra l'altro viene
pre¬cisato: « Se bene intorno alla cura degl'Hospitali (. . .) si sono
dati boni ordini, si stima bene di più avvertire l'Hospitaliere che
quelli che si ammettono devono essere ricevuti gra¬tis, senza ricevere
cosa alcuna, ancorché spontaneamente offerta (. . .) l'ospitaliere prima
di ricevere forastieri deve informarsi da dove vengono e non ricevere
uomini con giovanetti o uomini con donne se non dopo accertato che sieno
padre e figlio o marito e moglie, non si ammettano armati e nel dubbio
si avvertano gli amministratori (. . . ) le rendite destinate
all'Ospedale non si possono spendere in modo diverso, anche se vi fosse
residuo (di bilancio) (. . .) le donne saranno curate dalle donne, gli
uomini dagli uomini . . . gli officiali (. . .) guardino se (gli
infermieri) sono puntuali nel somministrare ad essi (malati) tutto ciò
che bisogna secondo l'ordine dei medici. . . ».
Quanto sopra ci porta a concludere
che la vita delle Confraternite e degli Ospedali, fino a quel tempo
limitata e governata in maniera empirica, aveva avuto una notevole
espansione tanto che, da parte delle autorità, si era sentita la
necessità di emanare qualche editto che ne regolasse la vita
amministrativa ed assistenziale.
Nonostante tutto, la vita della Ven.
Confraternita del Santissimo Nome di Dio e quella dell'Ospedale da lei
fondato continuarono in maniera più o meno tranquilla finché non vennero
bruscamente interrotte dalle note vicende della Repubblica Romana del
1798-1799. Vediamone le conseguenze.
Il libro delle Congregazioni si ferma
sotto la data del 5 febbraio 1798, cioè appena 10 giorni prima che il
Gen. Berthier proclamasse in Roma l'avvento della Repubblica Romana.
In quella data si svolse una
noiosissima assemblea, presieduta dal Rev. Domenico Buttaoni in
rappresentanza del Vescovo De Simoni, ove si discussero cose di
ordinaria amministrazione, quasi non ci si avvedesse della bufera
scatenata in tutta Europa dalla Rivoluzione Francese, come se questa non
potesse assolutamente nemmeno sfiorare la pacifica Tolfa!
La congregazione seguente fu tenuta
solo il 29 dicembre 1799 a ben 22 mesi dalla precedente, il che dimostra
la impossibilità dei confratelli di riunirsi più spesso come era loro
abitudine, almeno per l'elezione annuale degli amministratori.
In quella data lo stesso Mons.
Buttaoni radunò la Congregazione, alla quale intervennero, cosa
insolita, solo tredici confratelli, e nella quale possiamo fra l'altro
leggere: « . . . il sig. Can. Pasquini, eletto Camerlengo (per l'anno
1800) considerando la molteplicità delle incombenze particolarmente per
la provvisione di tutto l'occorrente tanto per la chiesa che per
l'Ospedale per la depredazione generale fatta dai francesi, dice di non
poter egli solo attendere a tutte le incombenze del camerlengato onde fa
istanza che si elegga altro soggetto che lo assista e lo aiuti
particolarmente nella provvista delle cose occorrenti ».
Su proposta di Filippo Aloisi, si
affiancò quindi al Camerlengo il sig. Sante Zoppini. Più avanti la
stessa delibera così prosegue: « . . . fu susseguentemente proposto che
atteso il guasto accaduto nella Chiesa servita per quartiere alle truppe
repubblicane dell'estinto governo ed anche la depredazione già sopra
accennata di tutti i mobili, suppellettili; biancheria e vasi sacri, è
necessario di ristaurare ed imbiancare la suddetta Chiesa e di
provvedere il calice tanto per la chiesa di questo Ospedale quanto per
la chiesa della Rocca, la pisside per il viatico, vasetto per l'olio
santo, tovaglie e tutte le altre biancherie e suppellettili per il
servizio della chiesa ed infermi. Onde le SS.LL. risolvino, Insorse il
sig. Filippo Bonizzi e fu di sentimento di dare le opportune facoltà ai
suddetti sig. Can. Camerlengo e Sante Zoppini di fare tutte le spese
necessarie e di restaurarsi, come sopra, ottenendone il dovuto permesso
dai legittimi superiori. Date le palle e raccolte furono trovate tutte
bianche ».
Le votazioni avvenivano infatti su
ogni singola proposta e sempre a scrutinio segreto a mezzo di palle
bianche, favorevoli, e nere, se contrarie. Dopo le suddette votazioni,
la Congregazione venne chiusa con la solita formula. Ma tutto fu ripristinato e l'Ospedale
riprese la sua attività benefica, animato e sostenuto solo dalla estrema
buona volontà che animava i Confratelli della Ven. Confraternita del SS.
Nome di Dio. Con il mutare dei tempi, tuttavia le
difficoltà aumentarono come si rileva dal contenuto della Congregazione
del 19 gennaio 1834 nella quale leggiamo che essendo stato affisso il
bando di concorso per l'assunzione di un infermiere « ... persona abile
al disimpegno di Ospitaliere si è ricevuta una sola offerta . . . » che
venne accettata con il compenso annuo di scudi trenta. A questo punto gli amministratori
dovettero prendere atto di come l'entusiasmo di agire solo per spirito
di carità fosse andato scemando con l'accrescersi delle reali difficoltà
che ogni individuo incontrava in tempi sempre più difficili, e quindi di
come divenisse necessario garantire una mercede fissa e sufficiente agli
infermieri ed agli altri addetti all'Ospedale, mercede peraltro, almeno
in questo caso, ritenuta insufficiente dai concorrenti visto che al
bando aveva risposto una sola persona.
Ed infatti, in questa stessa
congregazione, per la prima volta si parlò di regolamentare
l'organizzazione dell'Ospedale che venne chiamato « S. Giovanni »,
ovviamente dal nome della chiesa dell'Ospedale dedicata a S. Giovanni e
nominata anche nella bolla di conferma della Confraternita del
Santissimo Nome di Dio del 1582. In quel regolamento vennero stabiliti
il numero, le competenze ed i compensi del personale in organico, il
tutto chiaramente esposto in 5 articoli intitolati: Preside (=
presidente), Priore (= direttore), Cappellano, Medico, Spedalieri o
infermieri. L'ultimo articolo è suddiviso in ben sedici paragrafi che
specificano le incombenze della categoria.
Infine venne nominato anche un
sagrestano con il compito della pulizia e della custodia della chiesa di
S. Giovanni. Ma nonostante il continuo affinamento
della organizzazione ed il moltiplicarsi dei controlli nella
amministrazione della Confraternita e dell'Ospedale, che nel frattempo
andava ampliandosi e prendendo sempre più l'aspetto di un ente pubblico
con finalità di assistenza sociale, le cose non andavano sempre lisce e
qualche scandalo turbava i tranquilli sonni degli scrupolosi
amministratori.
Nella Congregazione del 17 novembre
1837, dopo i soliti preamboli e l'elenco dei partecipanti, venne
annotato che l'eremita della Rocca, sig. Luigi Fatica, aveva prestato 25
scudi a tal Giov. Andrea Urbani nonché « due rubbia di grano concio »
(circa cinque quintali) a tal Michele Fronti come risulta da
dichiarazioni sottoscritte dagli interessati stessi. Ricordiamo che la Confraternita, e
quindi l'Ospedale, viveva di proprie rendite e di elemosine e che fra
quest'ultime c'era anche quella ottenuta dall'Eremita della Rocca.
Certamente questa fu la delibera più
delicata che abbiano dovuto prendere i confratelli riuniti. Essa, dopo
aver ricordato che, quando Luigi Fatica fu deputato (nominato) Eremita
della Rocca, era così misero che l'Ospedale gli aveva dovuto dare un
vestito decente, così prosegue: « . . . questo Ven. Ospedale sempre ha
avuto il diritto di patronato sulla Chiesa della Rocca ed annesso
romitorio, a di cui carico è stata sempre e la manutenzione della chiesa
e locale medesimo non solo per quel che riguarda i restauri ma ancora i
suoi arredi, come risulta dai registri della Confraternita,
(congregazione del 29 dicembre 1799 e del 28 dicembre 1806) nonché il
provvedimento dei mezzi di sussistenza tanto nello stato di salute
quanto in caso di infermità del medesimo eremita, ed a cui
(confraternita) per ciò appartiene il diritto di nominare (l'eremita)
sempre esercitato come risulta dai registri della congregazione
(congregazione del 30 settembre 1795 e del 28 dicembre 1796) . . . ». Pertanto, quanto sopra riportato e il
seguito della delibera stessa si possono così riassumere:
— L'eremita della Rocca dipendeva
dalla Confraternita del SS. Nome di Dio o di S. Giovanni come più
brevemente era chiamata;
— Compiti dell'eremita erano la
sorveglianza e la manutenzione della Chiesa della Rocca, alle quali
avrebbe dovuto provvedere con le questue domenicali e con la « cerca »
del grano e del vino che doveva fare nelle opportune stagioni;
— Questo eremita da parecchi
anni, sembra 14, buono o cattivo che fosse il raccolto, versava
all'amministrazione dell'Ospedale solo due rubbia di grano (circa 5
quintali).
Pertanto si cominciò a dubitare della
lealtà e dell'onestà dell'eremita, anche perché lungo tutto questo tempo
non aveva speso un soldo per la manutenzione della chiesa, né per
rinnovare gli arredi, cosa sempre fatta dai precedenti eremiti.
Esposto quanto sopra e dopo lunga
discussione la Congregazione così decise:
1) L'eremita dovrà presentare un
rendiconto mensile di qualunque elemosina ricaverà;
2) Il Priore lascerà all'eremita
il sufficiente per vivere e il restante lo verserà all'ospedale;
3) Gli scudi 25 saranno
restituiti dal sig. Urbani al Priore dell'Ospedale che li impiegherà per
la Chiesa della Rocca, così pure i due rubbia di grano e qualsiasi altra
somma che fosse eventualmente recuperata;
4) Si darà all'eremita copia
delle regole stabilite dal Concilio Romano per tutti gli eremiti, regole
integralmente trascritte nel verbale.
Infine venne precisato che la
congregazione aveva stabilito quanto sopra:
— Per togliere dubbi ai fedeli
che si rivolgevano con elemosine alla Madonna della Rocca
— Perché era scandaloso che gli
eremiti negoziassero i denari delle elemosine.
La congregazione desiderava anche
troncare le chiacchiere sull'eremita che già nel 1832 aveva
prestato scudi 8 a un certo Fortunato Martini e essa decise infine di
dare lettura di quanto stabilito all'eremita in presenza del Segretario,
del Vicario, ed Arciprete e del Priore dell'Ospedale. Dopo aver
ricordato alcuni lavori eseguiti nella Chiesa della Rocca e nel
romitorio la congregazione venne chiusa con la solita formula.
Nonostante le poche difficoltà
surriportate e le molte taciute, ma anche con moltissime soddisfazioni,
l'ormai chiamato definitivamente Ospedale di S. Giovanni, si avviava a
festeggiare il compimento del suo terzo secolo di vita con l'impegno di
ampliare e migliorare le strutture medico sanitarie ed adeguarle alle
nuove scoperte mediche e farmaceutiche.
Nel 1853 venne così richiesta dalla
confraternita l'assistenza delle suore di S. Giuseppe e la loro
fondatrice Suor Emilia De Vialar inviò a Tolfa come ospedaliere tre
monache appositamente istruite fra cui una farmacista. Il 23 ottobre 1853 mons. Gaetano
Brinciotti Vescovo di Leuca e suffraganeo della diocesi di
Civitavecchia, approvò il concordato stipulato tra il can. Don Domenico
Mignanti in rappresentanza della Congregazione dell'Ospedale da una
parte e il can. don Giovanni Cruciani, superiore ecclesiastico della
Casa di Roma delle Suore di S. Giuseppe, dall'altra. Quest'ultimo era
stato a ciò delegato dalla Superiora della Casa Suor Celeste Peyre.
Il concordato, alla realizzazione del
quale a suo tempo aveva partecipato anche il card. Luigi Lambruschini,
allora vescovo della diocesi di Civitavecchia, non aveva presentato
particolari difficoltà, soprattutto per la buona volontà e l'abnegazione
che animava le parti contraenti, preoccupate solo della efficienza e
della funzionalità dell'Ospedale.
Nella convenzione, dopo aver
sottolineato che l'Ordine delle Suore di S. Giuseppe (dette
dell'Apparizione) aveva come scopo istituzionale l'assistenza ai malati
ospedalizzati e non, e l'educazione delle fanciulle, e che in quel campo
si era distinto anche nelle sue missioni all'estero, si precisavano i
compiti che le suore si assumevano e gli obblighi ai quali si
sottoponeva l'amministrazione dell'Ospedale e per esso la Confraternita
di S. Giovanni.
Crediamo opportuno qui riportare
alcune delle frasi più significative di quel concordato: « ... esse (le
suore) si presteranno in pari tempo alle due opere di carità, che
formano lo scopo del loro istituto: cioè l'insegnamento gratuito delle
fanciulle di ogni condizione e la cura degli infermi nell'Ospedale e la
visita di quelli nei domicilii . . . ». Qui si deve precisare che tanto
la permanenza in Ospedale degli infermi che le cure prestate a
domicilio, per gli abitanti di Tolfa, erano assolutamente gratuite e
totalmente sostenute dalla Confraternita che vi provvedeva con le
proprie rendite derivanti da proprietà lasciatele a tale scopo e da
questue dei propri « cercatori » (confratelli che si dedicavano alla
questua nei giorni festivi).
Poco appresso è detto: « . . . le
suore nel rapporto del servizio andranno interamente soggette alla
Deputazione (organo direttivo dell'Ospedale) (. . .) e riceveranno le
rendite per le mani del rappresentante la deputazione: ne terranno un
conto separato per esibirlo onde possa la deputazione conoscere... ». E' risaputo che la storia si ripete,
e così come la Ven. Confraternita, nata solo per l'esaltazione del Nome
di Dio, finì per patrocinare un ben organizzato Ospedale, anche le
Suore, nella loro più che centenaria permanenza in Tolfa, ampliarono le
loro opere e da semplici ospedaliere, divennero maestre di vita
spirituale. Lasciato l'Ospedale, aprirono una
loro casa e vi impiantarono le scuole elementari; poi istituirono un
asilo infantile e infine una scuola di taglio e cucito ecc. Tutt'ora,
dopo ben 125 anni di permanenza in Tolfa, sono presenti nel paese.
L'Ospedale nel secondo decennio di
questo secolo fu trasferito in un nuovo imponente edificio in posizione
panoramica e la vecchia sede fu trasformata in casa d'abitazione. Ma il nuovo ospedale non fu mai
attivo, perché con il miglioramento dei trasporti la comunità tolfetana
finì per fare capo al più grande e meglio attrezzato Ospedale di
Civitavecchia.
GLOSSARIO
acquacotta = zuppa di
verdure miste.
aratro-chiodo = antico aratro di
legno con punta di ferro che terminava con una biforcazione per
allargare la terra.
arretare = circondare con le reti o
corde intrecciate.
bagherine = donne corrieri dal paese
alla città per servizi.
barlozza = piccolo barile di legno di cinque o
sei litri.
barlozza = carro a trazione animale a
quattro ruote, impiegato nella campagna romana per il trasporto di
merci.
bassette = pelli di pecore non
conciate.
biscino = uomo di fatica in una
fattoria dell'Italia centrale.
boattiere = nel Lazio piccolo
proprietario di buoi che lavora anche terreni altrui dietro compenso in
denaro.
bocche = stretto passaggio.
buttero = guardiano a cavallo di
mandrie.
caciara = caciaia, locale per
stagionare il cacio. caciaro = caciaio, colui che fa il cacio.
caglio = sostanza acida adoperata per
provocare la coagulazione del latte, preparata col quarto stomaco dei
ruminanti lattanti.
canneggiatore = aiutante in rilievi
topografici eseguiti con la canna, asta generalmente di tre metri per la
misurazione dei terreni.
capata = divisione, in questo caso,
di capi di bestiame.
capezza = per cavezza, fune che serve
a legare per il capo una bestia.
capezzone = per cavezzone; grossa
cavezza munita anteriormente di seghetto che si mette alla testa dei
cavalli da domare.
carcere delle vacche = recinto vicino
al mattatoio.
cascina = in toscano, cerchio di
faggio dove si preme il latte rappreso per fare il cacio, cascino.
casengo = corriere in una fattoria.
cista = grande recipiente cilindrico
generalmente di castagno o olmo.
concallare = macerarsi, detto della
lana.
coltrina = aratro con punta di
acciaio quadrangolare appuntita.
correggia = striscia di cuoio,
cinghia.
erba netta = erba non calpestata, per
cui si diceva « nettare un terreno » il dividerlo in parti dove far
ruotare il pascolo degli ovini.
forteto = boscaglia malagevole.
frocette = l'arnese di ferro che si
appende al naso dei buoi.
fuscella = corto ramoscello secco,
per estensione piccolo recipiente fatto di giunchi intrecciati.
gina = territorio abituale delle
mandrie bovine tenute all'aperto, in campagna.
giovenco = giovane e robusto bovino,
castrato.
grasceta = luogo abbondante di
foraggio per il pascolo.
grascia = grasso, specialmente di maiale.
guidarello = montone con campanaccio
che guida il branco.
incastrino = recinto di legno stretto per marcare
le bestie.
impostare = testardo immobilizzarsi
degli animali.
larghe = piccoli spazi aperti in un
bosco.
magrone = giovane suino, per lo più
castrato, destinato all'ingrossamento.
maione = toro castrato, addestrato a
guidare il branco con un campano.
marraccio = roncola, strumento
agricolo, costituito da una lama ricurva, fissata ad una impugnatura
breve.
massaro = nell'Italia meridionale, il
fattore che presiede la amministrazione dei poderi o che dirige una
azienda di pastori.
mattarella = pecora adulta sterile.
merca = la marcatura degli animali in
Maremma. merco = marchio, sulla merce o sul bestiame.
monnarella = diserbatura, liberazione
di un terreno dalle erbe nocive.
monticatura = monticazione, il
trasferimento in alpeggio del bestiame.
moscetto = piccolo proprietario di
bestiame, in genere ovino.
pezzata = zuppa di pane bagnato con
verdure e pezzi di pecora.
piastre = lastre di ferro
appositamente forgiate, che si applicavano alle unghie dei buoi.
picchio = zappa a due lame
contrapposte.
poccia = termine popolare toscano per
mammella.
quarto = suddivisione del terreno
dell'Università Agraria.
rapazzola = lettuccio o giaciglio povero.
razzetta = il più piccolo branco di
buoi, che dà origine alla mandria.
rimissino = vasto e articolato
recinto per le mandrie.
rompitura = termine meno comune per
rottura, in questo caso del terreno.
rubbio = unità di superficie
equivalente a mq. 18,480, ancora usata nella campagna romana. Il rubbio
è anche un'antica unità di misura di capacità usata specialmente
nell'Italia Centrale con valori variabili da città a città (a Roma 294,
46 1.).
sbacchiatura = separazione forzata
fra pecora e agnello.
sbegolamento = lamento degli animali.
scarico = prodotti deperibili, per
uso traslato del termine.
sciolta = togliere il giogo ai buoi.
scotta = termine regionale, che
indica il residuo sieroso che rimane nella caldaia dopo fatto il
formaggio o la ricotta.
serta = lungo giogo a quattro posti.
sfessare = termine regionale per
spossare.
smonticatura = smonticazione,
emigrazione del bestiame transumante dai pascoli di montagna al piano.
soma = carico di trasporto che si
pone sul dorso di asini o muli, per estensione la quantità di prodotti
trasportati.
somaro = gancio a forma di forca e
girevole.
sovatte = per sogatto, termine
arcaico, regionale che indica la striscia di cuoio per cinghie o
finimenti.
sprenatura = spremitura, compressione
di organi per provocare la fuoriuscita dei contenuti.
stabbiato = per stabbio, spazio
recintato dove si tengono gli animali per concimare il terreno.
staccione = grosso palo a cui vengono
legati i cavalli da domare.
stacco = giorno degli acquisti per un
matrimonio.
stazzo = spazio recintato all'aperto,
per estensione spazio chiuso naturale.
stramineo = aggettivo da strame,
strato di erbe secche.
terratico = antica denominazione
dell'imposta generale sulla terra o di particolari tributi
caratteristici di singole regioni.
travaglio = strumento usato per tener
fermo un animale durante la ferratura.
trocchio = tronco cavo riempito di
sale per le pecore.
vaccina = vacca.
vaccina da corpo = vacca da carne.
vergaro = per vergaio, in Maremma il
capo di tutto il per-sonale di custodia del gregge.
vetta dei buoi = termine regionale
meridionale che indica il paio di buoi aggiogati.
vicenna = giornata di lavoro di sei
ore fatta per conto terzi da un proprietario di buoi.
Glossario . » 103
Tavole:
I. Basilio Pergi nel suo studio in Tolfa; II. Una caratteristica « posa
» del Pergi; III. Il Pergi in una operazione di scavo (a) e mentre illustra
alcune scoperte archeologiche (b); IV.' Panorama di Tolfa in una vecchia
fotografia Alinari; V. La struttura urbana di Tolfa; VI. Momenti della
« merca »; VII. Vecchie immagini di vita tolfetana; VIII. Riproduzione
parziale del decreto istitutivo nel 1582 della Confraternita tolfetana
che ha dato origine all'Ospedale di S. Giovanni (Arch. Pergi).
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