5. AGOSTINO CHIGI IL "MAGNIFICO" APPALTATORE
DELLE ALLUMIERE.
Con l'inizio del XVI secolo si ritorna ad avere una certa
chiarezza riguardo le vicende relative all'impresa di Tolfa (223).
L'attività mineraria e commerciale dell'allume romano, che sul
finire del `400 ebbe un breve periodo di crisi, si riprese ed esplose
all'inizio del XVI secolo, quando l'intera impresa fu affidata al celebre
mercante e banchiere senese Agostino Chigi; con lui si ebbe, sicuramente,
l'inizio del periodo di maggiore splendore per l'industria mineraria di
Tolfa.
Agostino Chigi (224) nacque a Siena nel 1465, fu figlio del banchiere Mariano (1439-1504) e
di Margherita Baldi, ebbe tre fratelli: Lorenzo, Francesco, Sigismondo.
In prime nozze sposò la nobile senese Margherita Saracena che non
gli diede figli. Nel 1511 è attestata la volontà di prendere
per moglie Margherita Gonzaga, figlia illegittima del marchese Francesco
Gonzaga, proponendo una dote di 10.000 ducati. Forse il matrimonio non
ebbe esito per la resistenza della stessa Margherita. Fu allora che Agostino
rapi la bella veneziana Francesca Andreazza. Dall'unione con Francesca,
che Agostino sposò il 28 agosto 1519 nella sua dimora di Trastevere,
nacquero cinque figli: Lorenzo Leone, Alessandro Giovanni, Margherita
e Camilla. Un quinto figlio, che Francesca volle chiamare Agostino, nacque
dopo la morte del Chigi. Agostino ebbe per amante Imperia, amica di Raffaello,
che si avvelenò all'età di 31 anni. Fu mecenate e amico
degli artisti dell'epoca tra i quali: Raffaello, F. Pecci, Peruzzi, Giulio
Romano, Sebastiano del Piombo, Pinturicchio e il Perugino. Fu molto amico
di diversi letterati tra i quali: Bembo, Giovio e l'Aretino. La sede della
sua complessa azienda bancaria e mercantile era in Roma. Sedi secondarie
erano a Lione, Londra, Costantinopoli, Amsterdam e persino Babilonia.
L'oriente lo rispettava ed il Sultano Bajazette lo definiva "il più
grande mercante della cristianità ". Possedeva un centinaio
di navi e aveva alla sua dipendenza oltre 20.000 persone. Sembra che la
sua fortuna ascendesse a 800.000 ducati. Venezia gli concesse la cittadinanza
onoraria e quando vi giungeva aveva l'onore di sedere al lato del Doge.
Famoso è rimasto il pranzo dato da Agostino per il battesimo di
un suo figlio. Pietanze con lingue di pappagallo e pesce fatto arrivare
ancora vivo da Bisanzio; piatti e posate d'oro che, con puerile ostentazione,
ad ogni portata venivano gettate nel Tevere dove sembra venissero celate
opportune reti per raccoglierle. Il pranzo fu dato alla Lungara alla presenza
di Leone X e quattordici cardinali.
Il padre, mercante e ricco banchiere senese, svolgeva il suo esercizio
di cambio nella sua città natale e successivamente in società
con Francesco Tomasi anche a Viterbo. Nel 1475 prese in affitto a Roma
un locale al rione " Ponte ", che poi diverrà di sua
proprietà, per poter installare anche nella città papale
un banco da affidare, quando ne avesse avuto la capacità, al primogenito
Agostino (225).
Agostino Chigi giunse a Roma all'età di 20 anni, al tempo del papa
genovese Innocenzo VIII. Al suo esordio romano fu addetto al banco del
senese Ambrogio Spannocchi, che in quel momento godeva dei favori del
papa (mentre era stato danneggiato durante i torbidi accaduti dopo la
morte di Sisto IV).
Il 31 marzo 1487 fu fondato il banco chigiano di Roma da una società
composta da: Mariano e Agostino Chigi, da Stefano di Galgano Chinucci
e dalla famiglia Spannocchi. La sede del banco venne sistemata nei locali
che Mariano aveva già in affitto da alcuni anni come già
descritto. Agostino Chigi aveva la maggior parte del capitale, il padre
al momento della fondazione della società, aveva versato per il
figlio la somma di 2000 ducati d'oro (226).
E' con questa istituzione e con l'appoggio politico degli Spannocchi che
ebbe inizio l'ascesa e la fortuna finanziaria di Agostino. Sotto il pontificato
di Innocenzo VIII i Chigi non ebbero modo di inserirsi direttamente nell'industria
dell'allume; nel 1489, infatti, era addetta alla confezione e vendita
dell'allume tolfetano una società composta dai genovesi Nicolò
e Paolo Gentili. Contemporaneamente anche i Medici potevano disporre dell'allume
di Tolfa tanto che, sul finire dell'anno, furono loro consegnati a Civitavecchia
ben 23.000 cantari di allume e, nei mandati di pagamento, i Medici risultano
quali depositari mentre i genovesi Centurioni, a garanzia dei loro eredi,
tenevano in pegno nel 1499 la tiara del pontefice.
Sul finire del pontificato di Innocenzo VIII, i Centurioni subentrarono
ai Gentili nell'industria dell'allume; Innocenzo VIII moriva il 25 luglio
1492 all'età di 72 anni dopo aver condotto una politica attenta
al soddisfacimento degli interessi familiari, favorendo la formazione
di diversi matrimoni tra i quali resta più famoso quello tra Maddalena
dei Medici e Franceschetto Cibo, figlio naturale del papa, al quale aveva
assegnato la contea di Anguillara che comprendeva: Cerveteri, Stigliano,
Rota, Ischia, Viano e Monterano. Il 26 agosto fu nominato papa il cardinale
Rodrigo Borgia che prese il nome di Alessandro VI. Da buoni intenditori
e figli del loro tempo in cui "Dio non è trino, ma quattrino",
Agostino e Mariano Chigi aderirono subito alla politica del nuovo pontefice.
I favori non si fecero attendere; sul finire dell'anno (1492) il Chigi
ottenne dallo Stato Pontificio l'appalto delle saline e delle gabelle,
inserendosi quindi per la prima volta nei rapporti finanziari pubblici. (227)
Ma l'anno che segnò la sua ascesa politico-finanziaria fu senz'altro
il 1494. E' in quell'anno che, mentre da una parte gestiva una ferriera,
dall'altra acquistava in luglio la dogana dei pascoli del Patrimonio per
la durata di tre anni (228).
E' in quell'anno, il 23 di agosto, che padre e figlio Chigi, a seguito
di un breve papale, furono incaricati della raccolta del frumento per
i bisogni della città di Roma. E' infine sempre nello stesso anno
che Agostino Chigi concesse dei prestiti a Carlo VIII durante la sua venuta
in Italia per rivendicare i propri diritti sul regno di Napoli.
Tutti questi incarichi di interesse "pubblico", che prevedevano
sostanziosi anticipi, portarono al Chigi le simpatie di Alessandro VI
ed una certa credibilità; credibilità che si consolidò
il 2 ottobre 1495 quando Agostino stipulò con il papa un contratto
per la dogana delle merci. Tutti questi movimenti finanziari determinarono
la figura del "Doganiere-Appaltatore"; sul finire del XV secolo
gli introiti venivano utilizzati specificatamente "pro expensis Palatii
Apostolici ".
Assolti tutti questi uffici che gli permisero, a buon titolo, di inserirsi
nelle sfere del potere, era giunto il momento di fare il salto di qualità,
ossia coronare la sua carriera finanziaria con un altro appalto, quello
più prestigioso dell'industria alluminifera dei monti della Tolfa.
Durante il periodo passato a Viterbo a far pratica nel banco paterno,
Agostino ebbe modo di recarsi alle allumiere di Tolfa a visitare le cave
e le relative lavorazioni (229).
Sapendo che erano le sole funzionanti in Europa e che, se bene organizzate,
potevano fruttare molto di più, pensò che ottenere l'appalto
di tutto il complesso minerario e commerciale doveva essere un grande
affare.
Il 24 dicembre 1500 Alessandro VI concesse ad Agostino Chigi "appaltum
aluminum Sanctae Crociatae et Camerae Apostolicae (230).
L'appalto non venne concesso personalmente al Chigi, ma ad una "societas
aluminum" composta da Francesco Tomasi, che era il socio principale,
e da Antonio di Ambrogio Spannocchi. La gestione dell'impresa era affidata
al Chigi, ma i soci dovevano essere informati delle decisioni prese. L'appalto
doveva iniziare il 13 maggio 1501 e doveva avere una durata di 12 anni.
A differenza dei contratti precedenti, nei quali la Camera Apostolica
pagava gli imprenditori con una percentuale del valore di ogni cantaro
di allume prodotto, il Chigi, anche con un certo rischio, si impegnò
a versare la somma di 34.000 ducati l'anno, riservandosi la facoltà
di indirizzare nuove forme di lavoro, di produzione, sbocchi e contratti
commerciali a suo piacimento per una sua eventuale convenienza (231).
A seguito della firma del contratto, il 2 gennaio 1501 Alessandro VI ottenne
dal Chigi un prestito di 20.000 ducati.
Per sopperire al bisogno della grande quantità di legname occorrente,
Alessandro VI nominò un apposito ufficiale che venne addetto alla
sorveglianza delle selve di Tolfa.
Sembra che il Tomasi scoprisse la cava della Trinità e facesse
da arbitro nelle liti che frequentemente avvenivano tra gli uomini delle
miniere. Fu iscritto al Chiericato nel 1501. Si creò un discreto
patrimonio e nelle miniere di allume fu "pars magna" godendo
dell'ampia fiducia di Agostino. Nel 1501 gli eredi del vecchio Ambrogio
Spannocchi rinunciarono virtualmente, o forse costretti, a far parte della
società già costituita. Agostino rimase ad operare insieme
al padre e al fedelissimo Tomasi, socio e attivo collaboratore che, abitando
a Viterbo, poteva sorvegliare da vicino l'andamento dei lavori alle lumiere.
Il primo cassiere delle miniere, Paolo Antonio Bonconti di Pisa, soleva
dire: "... mentre Achostino s'impaciava pocho, e messer Francesco
veniva di continovo a dette miniere "(232).
Francesco Tomasi fu veramente un coordinatore del lavoro all'interno della
grande azienda, occupandosi assiduamente delle questioni amministrative
e finanziarie. Giovanni Betti di Siena, fattore dello stabilimento, ci
ha lasciato questa testimonianza: "... v 'era molte questioni;
che li omini delle lumiere si mettevano spesso tutti in arme, e messer
Francesco intrava in meso, e più volte stè a pericholo d'essere
morto''. (233)
Col fine di trarre il maggior utile possibile dall'appalto delle miniere
di allume onde sopperire al ragguardevole canone annuo, nonché
al prestito concesso al papa, il Chigi eseguì diverse operazioni.
La prima avvenne il 19 maggio 1501, quando acquistò da Jacopo Sannazzaro
l'appalto delle miniere di allume napoletane (Agnano nei campi Flegrei),
riuscendo così a monopolizzare l'intera industria dell'allume decidendo
quanto allume si dovesse scavare e quanto si dovesse confezionare ma soprattutto
a che prezzo si dovesse vendere (234).
La seconda operazione fu eseguita il 3 maggio 1502, quando il Chigi ,
assieme ad Antonio di Villanova, castellano della rocca di Civitavecchia,
appaltò la gabella degli ancoraggi del porto di Civitavecchia,
riuscendo così a tenere sotto il controllo e quindi a gestire l'intero
movimento commerciale delle merci. Nel 1507, inoltre, acquistò
dalla città di Siena il castello di Port'Ercole con il porto e
la zona adiacente per una somma di 20.000 ducati. Qui fece costruire altri
due porti: Telamone e Orbetello, ove edificò ampi depositi per
immagazzinare l'allume che veniva inviato dal porto di Civitavecchia.
Dai registri di esportazione dell'allume per l'esercizio degli anni 1501-1513
risulta che molti carichi di allume andarono dal porto di Civitavecchia
a quelli di Talamone e Orbetello, dove restavano in deposito, per più
o meno tempo, a secondo delle necessità commerciali e degli interessi
del proprietario. E ancora, durante il periodo 1509-1513 più di
35.000 cantari di allume furono trasportati nei magazzini del territorio
di Port'Ercole (235).
Tutte queste iniziative contribuirono non poco al conseguimento di un
considerevole utile d'impresa, ed un primo risultato l'ottenne durante
la prima gestione in cui Agostino Chigi rimase creditore verso la Camera
Apostolica di ducati 10.176 e mezzo.
La Camera Apostolica concesse ad Agostino l'autorizzazione ad usare la
rocca di Tolfa Vecchia con facoltà di tenervi un castellano. Il
Chigi vi pose nel 1502 Nicolò Segardi, che successivamente fece
trasportare diversi pezzi di artiglieria e l'arme dei Signori di Tolfa
Vecchia a Port'Ercole e a Talamone, provocando così l'iniziale
smantellamento della rocca che nel 1532 Annibal Caro, in un noto sonetto,
definirà "lo sfasciume di una Rocca ".
Gli ultimi provvedimenti che, direttamente o indirettamente, giovarono
alla causa di Agostino Chigi prima della morte di Alessandro VI furono:
l'autorizzazione del 18 giugno 1502 ad Agostino Chigi e soci a somministrare
olio, orzo, fieno e quant'altro occorrente agli operai delle allumiere
presso Tolfa Vecchia; il 4 marzo 1503 il Chigi ottenne la Depositeria
dei pascoli dell'agro romano e della provincia del Patrimonio che gli
era stata affidata fin dal 1494; la costituzione in data 10 maggio 1503
di una società gestita da Mariano per l'esportazione dell'allume
in Fiandra. Socio principale era il senese Giovanni di Cristoforo Turelli.
Il 18 agosto 1503 moriva Alessandro VI; il suo sostituto, Pio III, morì
dieci giorni dopo la sua elezione. Il 1° di novembre dello stesso
anno gli successe Giulio II (della Rovere). Per Agostino fu un altro colpo
di fortuna. Non solo, infatti, il nuovo papa rassicurò l'azienda
di non voler modificare gli accordi precedenti, ma si adoperò per
migliorare l'andamento dell'impresa e consolidare la posizione di Agostino
Chigi. Tanto fu l'affetto del pontefice per Agostino che lo nominò
suo tesoriere, notaio e suo familiare, permettendogli di aggiungere al
suo cognome quello del papa stesso. In cambio Giulio II ricevette dal
Chigi la ragguardevole somma di 40.000 ducati impegnando però la
Tiara pontificia di Paolo II.
Fin da queste prime considerazioni si comprende bene quanto forte doveva
essere il legame tra il nuovo papa e il Chigi. Con l'evidente scopo di
agevolare il Chigi, Giulio II, il 1 ° ottobre 1505, scomunicò
i mercanti Jacopo Fing e Nicolò Varing perché avevano introdotto
allume degli infedeli. Un altro provvedimento fu preso il 4 novembre 1505.
Sempre per agevolare il Chigi, Giulio II esortò Antonio Qualtierotti
e la sua compagnia fiorentina a non prendere più allume dall'oriente,
ma solo quello di Tolfa, caricando la merce al porto di Civitavecchia
e offrendo loro le migliori garanzie. (236)
Nell'autunno dello stesso anno Giulio II volle visitare il complesso delle
miniere. Il 6 ottobre 1505 tenne un concistoro nella città di Corneto.
Il giorno successivo, a dorso di mulo, partì per Tolfa con grande
seguito. Giunto al paese gli furono tributati molti onori; dopo il pranzo
visitò tutto il complesso minerario, per poi ripartire verso Civitavecchia
da dove, dopo alcuni giorni, si imbarcò su una galera per raggiungere
il porto di Ostia e per poi risalire il corso del Tevere per raggiungere
la sua residenza romana (237).
Fu l'amicizia che il pontefice Giulio II elargiva al "Magnifico"
Agostino a determinare la decisione di rendere più sicuro il porto
dell'allume romano dal mai sopito pericolo saraceno. Su progetto di Bramante,
nel 1508, iniziava la costruzione della rocca sul porto di Civitavecchia,
portata poi a definitivo compimento da Leone XII, il quale si servì
dei consigli del Buonarroti oltre che dell'opera di Antonio da Sangallo.
Dopo tutte queste notizie riguardanti il grande banchiere, è giunto
il momento di parlare, in modo più attento, delle innovazioni tecniche
che Agostino apportò all'impresa. Diciamo subito che oltre alle
prime iniziative prese, di cui abbiamo già parlato, il Chigi seguitò
a rimodernare l'impresa: ingaggiò operai specializzati provenienti
dall'Asia Minore, costruì le fornaci dentro le cave, ma cosa ancora
più importante, fece esplorare le zone minerarie circostanti al
fine di trovare nuovi giacimenti da poter coltivare. In tal senso sono
molto interessanti le notizie contenute all'interno di una memoria seicentesca
inviata da Fra Zenobi, eremita del convento di Cibona, al papa Alessandro
VII (un Chigi) per fornirgli alcune notizie relative ad Agostino Chigi
appaltatore delle miniere di Tolfa. Questo è il testo della memoria (238) "Ricordo
qualmente l'Anno 1464. Misere Agostino Chisi da Siena nostro Padrone per
somministrare maggiori summe di denari per la Santa Cruciata, et Guerra
contro alli Turchi, deliberò accrescere il Negozio delle Allumiere,
e trasferirlo alla Fontana della Bianca, luogo più opportuno, Ello
adunque con li suo Huomini cercò diligentemente per questi Monti
nuove cave d'Allume in Pietra, et in breve tempo se ne scopersero molte,
ma il detto Misere Agostino ne elesse una sola molto copiosa, posta nell'Altezza
d'un Monte fra la Rocca della Tolfa, e la Fontana della Bianca verso Tramontana,
et ripudiò l 'altre basse ... Si atterrò la Macchia intorno
al detto Monte, et con gran fretta si lavorò a detta Cava nuova,
intanto molti operai facevano le fornace livi appresso per cuocere le
pietre alluminose, le quali poi cotte si portarono per molti Mesi alla
Fontana della Bianca prima che vi s'habitassi.
Ricordo come l'Anno 1465 rente (sic) alla Fontana della Bianca del Monte
si trovò una cava di sassi alluminati, che non stava sotto terra
un Cubito, migliore pur assai della prima in luogo largo, e più
comodo. Per questo misere Agostino Ghisi padrone del Negozio dell'Allumiere
vi fece lavorare in prescia con molta gente. Item, perché l'operaij
e Ministri udissero ogni mattina la S.ta Messa, la prima cosa fece murare
una Cappella Grande livi vicino, e nel muro vi fece dipengnere Madonna
S.ta Maria con suo Bambinello, Misere Santo Pietro, e Misere Santo Agostino.
Si tagliò il Bosco per farsi agio, et perché la fusse stagionata
, et per non fare veruna spesa di condutta. Item detto Misere Agostino
Ghisi fece fare la Fornace per cuocere le Pietre alluminate appresso la
Fontana della Bianca verso Levante, et le Piazze in quel p.o piano vicino
un tiro di sasso. Dalla cava livi sopra ruzzolavano li sassi alluminosi
alle Fornace livi sotto, e cotti si portavano alle Piazze. Di verso li
vetturali facevano Diciotto Viaggi, sette innanzi allo sciolvere, e undici
dopo lo sciolvere, cominciando la mattina doppo la messa, e finivano col
sole per la gran vicinanza, Misere agostino detto fece murare alla Bianca
Quattro Fornelli con le Caldaie più maggiori della prima per far
bollire l'Allume. Item fece circondare la Fontana, e ragunare l'Acqua
con muro a Bottaccio per li bisogni del Negozio. Item Misere Agostino
Ghisi fece murare il Palagio alla Bianca per habitare esso con li sua
Ministri, e Fanti. Item Misere Agostino Ghisi fece murare le stalle delle
bestie. Il Negozio ingrossò pure assai, perché vi lavoravano
sessanta cinque Cavalli, Venti Muli, e Dieci Carra tirati da Buoi. Item
fra le Cave e le Fornace vi lavoravano Cento Venticinque Huomini. Misere
Agostino Ghisi al principio di Giugno 1465 (sic) abbandonò il luogo
del Zanfone, et esso con tutto il Negozio andò a stare alla Bianca
perché livi non era quasi spesa di condutte, et vi più comodità".
Prima di analizzare con più attenzione il contenuto della memoria,
è bene premettere che questa non fornisce nessuna certezza; va
detto anche che le date sono palesemente sbagliate, mentre è importante
il passo laddove viene espressa la volontà del Chigi di trasferire
le fabbriche per la produzione di allume presso la fontana de La Bianca.
Di sicuro notiamo che il Chigi fece aprire nuove cave più in alto
rispetto a quelle già coltivate. C'è chi ha voluto vedere
in queste cave quelle situate ai piedi del monte Roncone dando al Chigi
il merito della nascita dell'abitato di Allumiere. Sembra a noi più
corretto pensare, che le nuove cave citate nella memoria siano invece
quelle situate nei pressi de La Bianca.
Osservando "il piano Generale delle Allumiere" elaborato e pubblicato
nel 1931 dal Pompei (239) e riproposto all'attenzione locale da Cola nel 1985, è possibile
riconoscere presso La Bianca due cave di allume che potrebbero essere
identificate con quelle fatte aprire da A. Chigi. (foto)
Sempre nella memoria dell'eremita di Cibona è riportato che il
Chigi fece costruire una cappella affrescata con l'immagine della Madonna
col Bambino, S. Pietro e S. Agostino. Grazie alle indicazioni fornite
dalla memoria e alle ricognizioni eseguite sul campo da Mario Galimberti,
nel 1985 l'Associazione Archeologica Klitsche de La Grange ha messo in
luce i ruderi di una struttura che potrebbe essere la cappella fatta costruire
dal Chigi. E' detto ancora che il Chigi fece costruire, sempre a La Bianca,
le fornaci per cottura del minerale, il "palagio" per la sua
abitazione e le stalle per gli animali. Un'indagine finalizzata potrebbe
risolvere i diversi interrogativi.
Concludendo sembra lecito avanzare l'ipotesi che "il grande mercante
cristiano" abbia impiantato la sua impresa allumifera non presso
l'attuale paese di Allumiere, come è ritenuto comunemente, ma presso
La Bianca e nelle sue immediate vicinanze. Sta di fatto che il mercante
senese è l'unico appaltatore che abbia lasciato l'impronta della
sua attività imprenditoriale e del suo mecenatismo proprio nei
dintorni dell'attuale frazione di Allumiere, facendo costruire (o meglio
ricostruire) con tanto di affresco la primitiva cappella di Cibona e l'edificio
ottagonale che sarà il nucleo originario dell'attuale chiesa della
Sughera. (240)
E' probabile anche che dopo la sua morte o contemporaneamente alla sua
attività l'industria dell'allume si sviluppò anche in altre
zone. Appartengono, infatti, ai primi decenni del XVI secolo le prime
notizie riguardanti le allumiere di monte Roncone che possiamo considerare
come preludio della nascita del paese di Allumiere.
Il 1° luglio 1513 entrò in vigore il nuovo contratto stipulato
in sostituzione di quello precedente, La nuova società vedeva in
primo piano non più la figura di Agostino, ma quella di Andrea
Ballanti (senese). Il Chigi rimase membro della società con 1/5
delle quote (sarebbe interessante capire la ragione per cui Agostino che
nel contratto del 1500 aveva il 60% delle quote in quello del 1513 ebbe
soltanto il 20%) (241).
Per ottenere la riconferma del contratto il Bellanti e il Chigi dovettero
garantire al papa un prestito cospicuo che avrebbero poi recuperato sugli
affitti annualmente dovuti alla Camera Apostolica. Ad ulteriore garanzia
Leone X. consegnò loro in pegno dei gioielli . (tra cui un anello
da 36.000 ducati) e perfino la tiara pontificia.
Possiamo ipotizzare che malgrado apparisse in posizione secondaria rispetto
al Bellanti, il Chigi continuò a condurre il gioco: prova ne è
il fatto che nel 1520, prima della scadenza del contratto del 1513, egli
assume nuovamente la direzione e la responsabilità globale dello
sfruttamento dell'allume romano. Ma fu proprio quell'anno che mori. La
notte tra il 10 e 1'11 aprile 1520 Agostino Chigi si spense nella sua
villa romana posta sulla riva del Tevere.
La sua salma fu sepolta nella chiesa di S. Maria del Popolo dove Agostino
aveva commissionato al suo amico Raffaello di erigere la cappella di famiglia.
Il grande artista l'aveva disegnata e iniziata, ma non ancora portata
a termine. Fu completata nel 1652 dal grande Bernini incaricato da Fabio
Chigi, suo discendente, lo stesso che scrisse la lapide funebre (242).
Con la morte del Chigi il complesso minerario e commerciale dell'allume
ebbe un breve periodo di stasi, ma ben presto l'impresa riprese il suo
ritmo, raggiungendo livelli produttivi mai toccati in precedenza.
6. I TENTATIVI PAPALI DI IMPORRE IL MONOPOLIO
DELL'ALLUME DI ROMA IN ITALIA E IN EUROPA.
" Hodie tibi victoriam de Turcho affero... "(243), così
iniziava il discorso che G. da Castro pronunciò davanti al papa
Pio II, subito dopo aver fatto l'importante scoperta dell'allume tolfetano,
secondo il racconto della vicenda tramandatoci dai "Commentari"
del papa senese.
Pio II, dopo un momento di titubanza, intuì subito che lo sfruttamento
delle cave di Tolfa poteva portare nelle casse della Chiesa grandi profitti
e che tali ricchezze potevano essere destinate alla Cassa della Crociata;
da qui il nome di allume della crociata con cui spesso venne chiamato
l'allume romano nel XVI secolo. Ma ancora più interessante fu il
tentativo della Santa Sede di diventare l'unica fornitrice di allume in
Occidente e nell'intero mondo cristiano; ambizione che in principio sembrò
aver successo e che si basava sulla giustificazione che una simile posizione
aveva lo scopo di difendere la cristianità dalle barbarie musulmane.
Nel 1463 Pio II impose ai mercanti cristiani il divieto di importare allume
dall'Oriente, più tardi il suo successore, Paolo II, cercò
di obbligare tutti i mercanti cristiani ad acquistare l'allume della crociata
prodotto a Tolfa, dichiarando peccato gravissimo, che nessun confessore
ordinario poteva assolvere, l'opporsi a tale obbligo (244).
A questo punto è bene analizzare più da vicino i tentativi
fatti e le iniziative prese dai vari pontefici, e specialmente da Paolo
II, per monopolizzare il mercato dell'allume. Occorreva, innanzi tutto,
impedire il commercio fra cristiani e infedeli. In questo senso Paolo
II, come pure i suoi successori, si diede molto da fare pubblicando ogni
anno un anatema contro chi avesse commerciato l'allume con l'Oriente (245).
In realtà questo provvedimento non portò i risultati sperati,
l'avidità di guadagno spinse i mercanti occidentali a proseguire
gli scambi commerciali con gli infedeli sfidando le censure ecclesiastiche.
Compito ancora più difficile, fu quello di convincere gli stati
cristiani che possedevano giacimenti di allume nel proprio territorio,
a rinunciare allo sfruttamento di tali ricchezze a vantaggio dell'allume
di Roma.
Inizieremo ora ad analizzare, con più attenzione, le complicate
trattative e le varie dispute che il papato dovette affrontare per cercare
di garantirsi il monopolio del mercato dell'allume in quelle regioni italiane
dove erano presenti altre miniere, in particolare nel regno di Napoli
e in Toscana.
6.1. 11 Regno di Napoli.
Al regno di Napoli appartenevano le miniere delle isole
d'Ischia, di Lipari e quelle di Agnano presso Pozzuoli. Tutte queste cave
furono rimesse in attività nella seconda metà del XV secolo
dopo che si era interrotto il flusso commerciale con l'Oriente (246).
Mentre le cave di Agnano furono date in appalto, nel 1465, a Guglielmo
Lo Monaco, quelle di Ischia vennero esercitate per conto della Camera
Regia a cui spettava anche il diritto di acquistare e commerciare l'allume
di Agnano. Si comprende così come la Camera Regia divenne un concorrente
pericoloso per la Camera Apostolica, tanto che il papa fu costretto a
sottoscrivere con il re di Napoli un accordo (11 Giugno 1470) particolarmente
vantaggioso per il regno (247)
Il contratto doveva avere la durata di 25 anni. Si veniva a creare un
unico corpo industriale e commerciale. La nuova società, detta
"Maona", si occupava sia della produzione che del commercio
del prodotto; le spese di trasporto e di assicurazione venivano ripartite
a metà. Se delle partite di allume non erano buone il danno ricadeva
su chi l'aveva fabbricato. Le esportazioni dovevano essere costituite
per metà dall'allume romano e per l'altra metà da quello
napoletano ed il ricavato diviso in parti uguali. A garanzia dell'osservanza
del contratto un commissario del papa doveva risiedere a Napoli e un rappresentante
del re a Civitavecchia, con il compito di ispezionare le miniere e gli
stabilimenti.
Da un'analisi più attenta del documento in questione, si nota una
clausola degna di attenzione che forse può aiutarci a spiegare
la motivazione che spinse il papa ad accettare un accordo così
svantaggioso. Era previsto, infatti, che se una delle due parti non fosse
riuscita a fornire la quantità di materiale prestabilita, l'altro
socio sarebbe potuto intervenire aggiungendone del suo, fino a completare
la quantità prevista dall'accordo, traendone un proporzionale guadagno (248). La Camera
Apostolica poteva quindi intervenire, fornendo materiale proprio, ogni
qualvolta la Camera Reale non fosse riuscita a garantire la quantità
di allume prevista nella convenzione. Probabilmente il papa, cosciente
del fatto che le cave napoletane non erano in grado di competere con quelle
pontificie, aspirava, sulla base di ciò, ad ottenere maggiori vantaggi.
Ma voler giustificare un contratto tanto oneroso per la Santa Sede, col
quale .veniva distrutta l'indipendenza della Camera Apostolica nell'esercizio
del monopolio dell'allume, con questo ultimo articolo pare un po' eccessivo.
Possiamo invece ipotizzare che le motivazioni che spinsero il papa furono
ben altre e legate ad un discorso più ampio di politica generale.
Paolo II si rese conto che l'unica alternativa all'imminente minaccia
Turca in Italia era l'unione degli stati della penisola contro il comune
pericolo (249).
Tale unione gli sarà probabilmente apparsa come cosa più
necessaria e importante di qualsiasi beneficio finanziario, e ciò
tanto più che i rapporti tra il papato e il re di Napoli erano
da tempo cattivi; basti pensare al soccorso portato nel 1468 dalle milizie
napoletane ai signori di Tolfa Vecchia assediati dall'esercito del papa;
l'accordo sull'allume sarebbe stato un utile mezzo di riconciliazione.
Probabilmente i patti tra papato e regno di Napoli vennero ben presto
disattesi; già forse nel 1472 il nuovo pontefice Sisto IV ottenne
da Ferdinando I la rescissione del contratto (250).
All'inizio del XVI secolo le cave di Agnano e Ischia entrarono sotto il
controllo di Agostino Chigi che contemporaneamente aveva anche l'appalto
delle miniere di Tolfa. Si ebbe in questo periodo un inevitabile rallentamento
della produzione, il tutto a favore dell'allume di Roma (251).
Anche nei decenni successivi Roma continuò nel tentativo di eliminare
la concorrenza dell'allume napoletano, ma come possiamo notare da una
serie di documenti non sempre ci riuscì; sappiamo infatti, che
in alcuni periodi le cave continuarono ad essere coltivate.
Nel 1583 la Camera Apostolica versò 23.500 scudi (690,900 Kg d'argento
fino) a Camillo Mormillo, proprietario delle cave di Agnano, il quale
si impegno a tenerle chiuse. Sembrò, allora, che Roma avesse vinto
la partita e in affetti, per oltre un secolo, l'allume napoletano non
fece praticamente concorrenza a quello papale (252).
All'inizio del XVII secolo si ritornò a parlare della riapertura
delle cave di Ischia e Agnano; ciò provocò nuovi problemi
per la Camera Apostolica.
Verso la fine del `600, e ancor più nel `700, troviamo una serie
dì richieste fatte dagli appaltatori delle cave di Tolfa alla Camera
Apostolica, per ottenere una riduzione del canone d'affitto, in ragione
della diminuzione delle vendite nel regno di Napoli, diminuzione dovuta
all'introduzione degli "allumi di Lipari e Pozzuoli" .(253)
Soltanto nella seconda metà del XVIII secolo le esportazioni di
minerale romano verso il regno di Napoli in parte risalirono, ma non perché
il lavoro nelle allumiere napoletane si fosse interrotto o perché
il monopolio romano ebbe successo, ma perché il prodotto che queste
fornivano era ormai insufficiente e di qualità mediocre (254).
6.2. Le cave toscane.
Altra impresa concorrente della Santa Sede erano le cave
di Volterra. In principio queste appartennero al comune di Volterra ma
nel 1472, a conclusione di una guerra tra lo stesso comune e Firenze,
detta appunto "Guerra degli allumi ", entrarono a far parte
dei possedimenti fiorentini (255)
Il papa condannò il sacco della città, ma contemporaneamente
aveva fornito aiuti militari a Lorenzo il Magnifico, ritenendo vantaggioso per la Santa Sede il fatto che le miniere di Volterra cadessero nelle
mani dei Medici, che già controllavano l'allume romano e con i
quali la Camera Apostolica aveva stipulato un vantaggioso contratto (256).
Comunque l'allume di Volterra si mostrò ben presto scarso e di
cattiva qualità, tanto che poco dopo (1475) l'attività estrattiva
fu abbandonata.
Oltre alle cave di Volterra erano presenti nella regione Toscana altre
miniere di allume come quelle del Monte Argentario e Massa, queste ultime
di proprietà del vescovado di Massa (257).
Anche in questo caso abbiamo testimonianze che, mostrano come i papi abbiano
cercato a suon di scomuniche, o attraverso pagamenti di ingenti somme
di denaro, di far chiudere queste cave.
Si comprende bene, dalle brevi notizie riportate, quale difficile e onerosa
impresa dovettero affrontare i pontefici per cercare di soffocare l'attività
industriale e commerciale, in materia di allume, degli altri stati della
penisola, ottenendo spesso risultati poco soddisfacenti come nel caso
del regno di Napoli
Stesse difficoltà dovettero affrontare gli eredi di Pietro nel
momento in cui cercarono di imporre, con la loro politica commerciale,
l'acquisto dell'allume di Roma in quegli stati che, anche se non possedevano
miniere proprie, avevano fino a quel momento trafficato gli allumi provenienti
dall'Oriente ottenendone grandi ricchezze.
6.3. Genova e Venezia.
Non si hanno notizie riguardo al tentativo papale di
imporre il monopolio nell'importante mercato genovese. Anzi, siamo certi
che in quella città si contravveniva al divieto papale e si commerciava
allume orientale. Zippel parla infatti, di una petizione, datata 1466,
fatta dai mercanti tedeschi al governatore ducale perché troppo
alti erano i dazi che gravavano sulle merci da essi condotti a Genova
per via mare; tra queste merci era espressamente nominato l'allume. (258) Di certo l'allume in questione non proveniva dalle allumiere di Tolfa
visto che nei libri di conto di tale impresa non compare nessun contratto
con mercanti tedeschi. Bisogna aggiungere che i rapporti tra Genova e
l'allume romano furono comunque stretti, basta ricordare che molte compagnie
appaltatrici delle cave di Tolfa erano genovesi.
Un'attenzione maggiore va posta invece al caso di Venezia; qui l'allume
era fortemente richiesto, non solo per l'ampio uso che se ne faceva nell'industria
vetraria, ma anche per la vastissima rete di traffici che la città
lagunare intratteneva con le regioni dell' entroterra.
Il primo accordo documentato stipulato dalla Camera Apostolica e un tal
Bartolomeo Giorgi (o Zorzi) veneziano, che era il principale distributore
di allume nella laguna, risale al febbraio 1469. Il Giorgi si impegnava
ad acquistare 18.000 cantari di allume in tre anni, 6.000 cantari l'anno,
al prezzo di 3 ducati al cantaro. Avrebbe poi pagato 4.000 ducati a chi
aveva trasportato il prodotto via mare da Tolfa a Venezia. La Camera Apostolica,
da parte sua, si impegnava a non vendere altro allume nelle regioni menzionate
nell'accordo (259).
La convenzione non fu rispettata se l'anno successivo (1470) Paolo II
donò alla repubblica di San Marco tutta la merce accumulata dalla
Camera Apostolica nei magazzini della città veneta, con la motivazione
di voler aiutare Venezia che si apprestava a combattere contro i Turchi.
Venezia in cambio avrebbe pagato le spese del trasporto e ceduto all'impresa
appaltatrice di Tolfa un terzo delle somme guadagnate dalla vendita, senza
dimenticare la quota spettante al re di Napoli in conseguenza dell'accordo
già citato del giugno 1470 (260).
Per quanto riguarda questi due accordi stretti dal papa con Ferdinando
I e la Serenissima si può notare un particolare interessante che
li accomuna. Sembrerebbe infatti, che in entrambi i casi, più che
interessi economici e commerciali, siano gli interessi politici a spingere
il papa a stipulare contratti non del tutto convenienti per la Santa Sede.
Il pontefice voleva, in questo modo, costruire un fronte compatto tra
gli stati italiani contro il pericolo dell'avanzata turca.
Sempre in detto accordo Venezia si impegnava a vietare, con pubblico editto,
il commercio di allumi non provenienti da Roma in tutto il territorio
della repubblica, finché vi fosse rimasto allume papale invenduto.
Questo punto mostra chiaramente come, prima dell'accordo di cui parliamo,
nel territorio veneziano non si era dato troppo ascolto agli anatemi pontifici
contro chi introduceva nei paesi cattolici allumi di provenienza diversa
da quella di Tolfa; e ancora che l'attuale divieto era limitato al periodo
in cui a Venezia fosse rimasto allume papale invenduto.
Di sicuro possiamo affermare che la repubblica di San Marco resistette,
in ogni tempo, a qualunque pretesa della Santa Sede che fosse contraria
agli interessi economici dei propri sudditi. Di contro c'è da dire
che Venezia resterà, per quanto riguarda l'allume, un buon cliente
di Roma; fu infatti, dopo Bruges, il principale deposito di allume romano
fuori dallo Stato Pontificio, anche se tra una disputa e l'altra continuò
ad importare allume turco.
6.4. L'Europa cristiana.
Dopo aver parlato delle iniziative papali finalizzate ad imporre il monopolio
dell'allume della crociata negli stati italiani, analizziamo ora le stesse
iniziative intraprese dalle autorità camerali in alcuni paesi europei
ed in particolare in Fiandra.
Sicuramente la Fiandra, con la sua fiorentissima industria tessile, fu
uno dei mercati più ambiti dai commissari della crociata. Per rendersi
conto di come questa piazza fosse importante per il commercio dell'allume
basta pensare al fatto che nella prima metà del XV secolo, in particolare
tra il 1416 e il 1445, arrivarono a Bruges più di 100.000 cantari
di allume (261).
Le prime iniziative di cui siamo a conoscenza risalgono al 1464, quando
Paolo II inviò in Fiandra un messo speciale, Luca de Tolentis,
con il compito di negoziare con il duca di Borgogna il divieto di importare
allume diverso da quello di Roma (262).
Le trattative furono lunghe e difficili, ma il 5 maggio 1468 fu finalmente
stipulata la convenzione. Questa doveva avere la durata di 12 anni, periodo
in cui non si sarebbe acquistato nelle Fiandre altro allume che quello
della crociata. In realtà l'accordo non entrò subito in
vigore; all'inizio del 1469, infatti, Carlo il Temerario chiese e ottenne
dal papa un rinvio di 18 mesi, alla scadenza del quale seguì un
ulteriore rinvio di 6 mesi. Finalmente nel 1471, dopo due anni di impaziente
attesa, il pontefice riuscì a far rispettare l'accordo. Iniziò
cosi effettivamente il monopolio dell'allume romano nei Paesi Bassi.
Va comunque ricordato che già prima del 1471 rilevanti quantità
di minerale di Tolfa erano state trasportate in Fiandra, grazie soprattutto
ai Medici e alle loro filiali.
Nonostante le importanti spedizioni, Roma stentava a mantenere il monopolio
in questi territori. Sembra che tra il 1473 e il 1475 arrivasse a Bruges
ed Anversa allume da Napoli, dalla Spagna e addirittura dall'Asia Minore
e dalla Barberia, grazie soprattutto alla compagnia fiorentina dei Pazzi
acerrimi rivali dei Medici.
All'inizio del XVI secolo, durante l'appalto Chigi, continuarono le ingenti
spedizioni di allume verso Anversa che, nel 1491, per volere dell'imperatore
Massimiliano, aveva sostituito Bruges come scalo principale dell'allume
romano. Tra il 1503-1506 il mercante senese inviò in Fiandra 46.317
cantari di allume, e ancora tra il 1510-1513 altri 36.032 cantari (263).
In realtà Agostino faceva sostare i carichi per qualche periodo
nei magazzini di Porto Ercole, di sua proprietà, facendo arrivare
ad Anversa piccole quantità di materiale che poteva così
vendere a prezzi più alti. Questo stato di cose provocò
le lamentele dei mercanti di Fiandra ai quali Filippo il Bello concesse,
già dal 1504, l'autorizzazione a importare allume turco.
Durante tutto il XVI secolo continuarono ad arrivare in Fiandra grandi
quantità d'allume romano. Nonostante ciò, va detto che la
politica monopolistica che la Santa Sede tentò a tutti i costi
di praticare non riuscì ad avere successo in queste terre dove
forte era la concorrenza di altri allumi provenienti da altre zone e in
particolare dalla Spagna.
Gli stessi sforzi fatti dal papato per affermare il monopolio dell'allume
romano nei Paesi Bassi furono messi in pratica in tutte le altre regioni
d'Europa ottenendo però, quasi sempre, risultati poco soddisfacenti.
Nel 1466 fu inviato a Londra il vescovo di Lucca, Stefano Trenta, come
rappresentante papale per negoziare con il re l'introduzione in Inghilterra
dell'allume romano. Non abbiamo traccia di nessun tipo di accordo tra
Enrico V e il commissario papale; ciò fa credere che il monopolio
non fu mai attivo nei territori inglesi (264).
A convalida di ciò abbiamo la notizia che nel 1505 la compagnia
di Antonio Gualtierotti fece entrare in Inghilterra un'importante quantità
di allume turco. In questo periodo, come già abbiamo avuto modo
di vedere parlando dei Paesi Bassi, il prezzo dell'allume era aumentato
di molto a causa delle strategie di mercato attuate dal Chigi. Questo
stato di cose aveva indotto il re Enrico VII ad incaricare il Gualtierotti
ad importare merce dagli infedeli (265).
Nonostante tutto le esportazione d'allume tolfetano in Inghilterra furono
comunque cospicue, grazie specialmente ai Medici e alla loro filiale di
Londra e successivamente ad Agostino Chigi. Soltanto agli inizi del XVII
secolo la scoperta di allume nell'Inghilterra stessa, più precisamente
nello Yorkshire, provocò una forte diminuzione delle importazioni
del minerale romano nel regno (266).
Neanche in Francia i papi riuscirono ad imporre il monopolio dell'allume.
Sappiamo da Delumeau che subito dopo l'apertura delle cave di Tolfa, tra
il 1466 e il 1494, arrivarono in questa regione circa 59.036,13 cantari
(# 2.951 tonnellate) di allume romano. Tuttavia i re francesi tentarono
di far aprire alcune cave nel proprio territorio senza però ottenere
particolari successi.
Nel corso dei secoli XVI, XVII e XVIII, la Francia continuò ad
importare allume straniero proveniente in massima parte dall'Italia e
dalla Spagna. Alla fine del XVI secolo la chiusura delle cave di Mazarron
e Cartagena favorì l'afflusso sul mercato francese dell'allume
romano, anche se, all'inizio del XVII secolo, fece la sua comparsa in
Francia l'allume di Liegi che diventerà antagonista di quello di
Roma.
Dopo aver trattato le vicende riguardanti i tentativi papali di imporre
il monopolio nelle principali regioni d'Europa è bene aggiungere
qualche precisazione. Da ciò che è stato riportato si vede
chiaramente come, fin dai primi anni successivi all'apertura delle cave
di Tolfa, la Santa Sede si impegnò in tutti i modi per imporre
il monopolio dell'allume romano in tutte le terre cristiane. Appare oltremodo
evidente che i tentativi papali non raggiunsero quasi mai risultati soddisfacenti;
si continuò a commerciare allume turco e ancora più importante
fu la concorrenza di altri allumi provenienti da altre regioni come quello
di Mazarron e Cartagena, quello dello Yorkshire, o quello di Liegi. Nonostante
ciò il minerale di Tolfa ricoprì per diversi secoli il ruolo
di protagonista del mercato. Se per qualità esso rimase sempre
insuperato, la sua produzione non poté tuttavia mantenersi allo
stesso livello dei secoli XV e XVI .
7. LE VICENDE DELL'INDUSTRIA DI TOLFA DOPO LA
MORTE DI AGOSTINO CHIGI
La morte del grande mercante senese poneva il problema
della sua successione nella società che gestiva l'azienda alluminifera
di Tolfa, ma anche nell'esercizio del banco di famiglia. Lo stesso Chigi,
nell'atto notarile contenente il suo testamento, mostrava, giustamente,
una certa preoccupazione per il proseguimento delle attività da
lui intraprese. Per quanto riguardò l'esercizio del banco fu costituita
una nuova società composta dalla vedova del Chigi, dai figli Alessandro
e Lorenzo, dal fratello Sigismondo e da Andrea Bellanti, lo stesso che
insieme ad Agostino aveva avuto l'appalto delle cave dal 1513 al 1520.
La società prendeva il nome di Bellanti e soci e doveva avere la
durata di tre anni. Nell'ottobre dello stesso anno Andrea Bellanti lasciò
la banca provocando le prime difficoltà. Nel 1521 morì,
poi, la moglie di Agostino; la banca chiuse definitivamente nel 1528.
Anche per la società mineraria le cose non andarono meglio. Agostino
aveva lasciato tutti i beni inerenti alla grande impresa dell'allume al
figlio primogenito Lorenzo, sotto la tutela dello zio Sigismondo. Ben
presto, però, si riacutizzarono i vecchi contrasti con gli Spannocchi.
Gli eredi di Agostino non poterono più contare sull'appoggio incondizionato
dei papi tanto che nel 1524 furono condannati a pagare agli eredi Spannocchi
la somma di 200.000 ducati d'oro (267).
Nel 1526 Andrea Doria, comandante della flotta papale e fiorentina riunita,
espugnò Porto Ercole, depredandone la fortezza difesa da Lorenzo
Chigi. Ormai la potente famiglia senese era in rovina. Il 24 aprile 1580
fu addirittura venduta all'asta, per pagare i debiti insoluti, la famosa
villa sulla riva del Tevere che Agostino tanto amava; il decreto di vendita
fu firmato da Gregorio XII (268).
Ritornando alle vicende riguardanti l'azienda dell'allume romano, bisogna
subito dire che non abbiamo notizie certe su chi fossero gli appaltatori
del "dopo Chigi". Sappiamo che verso il 1530, secondo il Pecchiai,
la conduzione fu assegnata ad una compagnia fiorentina capeggiata dalla
famiglia Gaddi (269).
Dopo questo decennio non tanto chiaro e non molto florido, ritorniamo
ad avere notizie certe a partire dal 1531 (270).
Il I° agosto 1531, infatti, Clemente VII affidò l'impresa ai
genovesi Ansaldo Grimaldi e Girolamo Venturi per una durata di dieci anni.
Il contratto del 1531, a noi noto, prevedeva il pagamento da parte degli
appaltatori di 15.000 ducati di carlini annui alla Camera Apostolica con
l'obbligo di una produzione di 20.000 cantari (1.000 tonnellate) all'anno.
Al momento della scadenza di questa convenzione il papa ne stipulò
un'altra con Ansaldo, Luca e Giovan Battista Grimaldi della durata di
dodici anni (1 agosto 1541-31 luglio 1553). In sostanza le condizioni
dell'accordo dovevano rimanere praticamente inalterate. Gli unici cambiamenti
riguardavano: il canone annuo che gli appaltatori dovevano corrispondere
alla Camera Apostolica, che passava da 15.000 ducati di carlini a 22.500
ducati di carlini, e la quantità di allume da produrre che saliva
fino a 30.000 cantari annui. Un ulteriore incremento produttivo si ebbe
con i successivi imprenditori genovesi: Bendinello e Agostino Sauli (1
agosto 1553-31 luglio 1565). Durante la loro direzione si raggiunse la
produzione annua di oltre 37.000 cantari. Fu questo il periodo di maggiore
splendore, a livello produttivo, delle miniere di Tolfa .
Nel cinquantennio che va dal 1553 al 1602 la produzione supererà
costantemente la cifra di 36.000 cantari annui e i quantitativi esportati
furono costantemente superiori al dato di produzione previsto nei relativi
contratti (271).
Durante l'appalto del genovese Tobia Pallavicino (1 agosto 1566-31 luglio
1578) si esportarono circa 36.960 cantari d'allume. I suoi successori
Bernardo Olgiatti, comasco, e Giovanni Francesco Ridolfi, fiorentino,
(1 agosto 1578-31 luglio 1590) (272) esportarono di nuovo più di 37.000 cantari. Negli anni successivi
(1590-1602; appalto di Bernardo Olgiatti, Giovanni Francesco Ridolfi e
Giovanni Battista Altoviti) il dato medio annuo delle esportazioni scese
leggermente a 35.900 cantari. (Tabelle)
Si chiudeva così il secolo XVI che aveva visto il massimo sviluppo
dell'impresa mineraria e commerciale romana. Da questo momento in poi
i dati relativi alla produzione e alle esportazioni note (vedi tabella
I) scesero ben al disotto dei 30.000 cantari; addirittura si arrivò,
nella seconda metà del XVIII secolo, ad una produzione inferiore
ai 20.000 cantari. E' il preludio di quella che sarà la crisi vera
e propria che porterà alla chiusura delle miniere nel XIX secolo.
A questo punto ci sembra interessante fare qualche altra considerazione
sulla .base delle preziose notizie riportate da Delumeau nella sua opera
"L'allume di Roma" (riassunte nella tabella I che segue), frutto
di un importantissimo studio svolto soprattutto nell'Archivio di Stato,
fondo di Tolfa, finalizzato a fornire dati fino a quel momento sconosciuti.
L'importante lavoro dello storico francese mostrò, infatti, in
contrasto con quello che all'inizio del Novecento aveva affermato lo Zippel (283), che
durante il XVI secolo l'impresa di Tolfa ebbe una costante crescita arrivando
ad essere l'industria più importante dell'Occidente. (Tabella )
Osservando i dati della tabella I notiamo che all'inizio del XVI secolo,
con Agostino Chigi, la produzione dell'allume fece un nuovo balzo in avanti.
Nella seconda metà del Quattrocento, infatti, successivamente all'euforia
della scoperta, che aveva portato ad un'impressionante produzione di 125.185
cantari ( 6259 tonnellate novembre 1462-aprile 1466), si ebbe tra il 1467
e il 1470, ma ancora di più tra il 1470-1478, un calo sensibile
della produzione e delle esportazioni. Agostino Chigi ebbe il merito di
riorganizzare la struttura dell'azienda, di cercare nuovi giacimenti di
minerale, di modernizzare la lavorazione, favorendo così una ripresa
immediata della produzione che arrivò a una media annua di 27.845
cantari (1392 tonnellate). E' con l'operato del grande mercante senese
che furono gettate le basi del grande sviluppo che interesserà
l'impresa di Tolfa nella seconda metà del XVI secolo; in particolare
tra il 1553 e il 1578 quando alla guida dell'azienda troviamo le compagnie
genovesi dei Sauli e dei Pallavicino. In questo cinquantennio sia la produzione
teorica prevista nei contratti, sia la produzione reale e le esportazioni
annue superarono costantemente i 36.000 cantari, salvo negli anni 1565-1566
quando la Camera Apostolica tentò di gestire in proprio le cave.
Dal 1602 in poi si può notare un progressivo calo della produzione,
che continuerà per tutto il secolo fino a raggiungere una media
di produzione annua di 15.583 cantari nel periodo 1677-1695. Questa situazione
proseguirà ancora nel XVIII secolo; la media annua di produzione
scenderà ancora raggiungendo medie annue di 12.000-14.000 cantari,
fino a raggiungere il limite minimo di 9.597 cantari annui nel periodo
1802-1803.
Prima di ricercare le cause di questa recessione che colpì l'allume
romano è bene fare una premessa. Per quanto riguarda l'attività
delle allumiere di Tolfa non è del tutto esatto parlare di vera
e propria crisi almeno fino al XVIII secolo. Sappiamo, infatti, che prima
dell'apertura delle cave di Tolfa quelle dell'Asia Minore e della Tracia
davano insieme circa 50.000 cantari di allume all'anno. Inoltre, tra il
1445 e il 1451 la produzione delle cave di Focea, le più importanti
dell'Asia Minore, fu spinta al massimo raggiungendo la quantità
di 15.800 cantari. Confrontando queste cifre con quelle dell'industria
di Tolfa vediamo come nelle cave romane la produzione si mantenne per
molto tempo superiore ai 20.000 cantari all'anno e che solo durante il
XVIII secolo la quantità media annua di allume prodotto scese al
disotto dei 15.000 cantari. Tenuto conto di questi dati di raffronto ci
sembra giusto non parlare di vera e propria crisi dell'impresa di Tolfa
fin quando essa riuscì a produrre annualmente quantità superiori
a 20.000 cantari, e cioè fino alla fine del XVII secolo.
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