8. LA CRISI DELL'IMPRESA DI TOLFA Come già abbiamo avuto modo di dire, a partire
dalla seconda metà del XVII secolo iniziava irrimediabilmente,
per la fabbrica delle allumiere di Roma, una fase discendente che culminerà
poi nella crisi vera e propria. Fu questo un periodo di generale e grave
congiuntura economica. Nelle grandi città italiane i prezzi delle
merci ristagnarono e si abbassarono, calarono le emissioni di monete,
anche le importanti industrie lombarde e fiorentine entrarono in crisi.
Lo storico francese Jean Delumeau così scriveva (284):
"Appare evidente che il calo della produzione e delle esportazioni
della grande impresa romana si è situato proprio nell'ambito della
congiuntura recessiva che caratterizzò l'economia italiana nel
XVII secolo. E tuttavia ci chiediamo se la crisi incipiente dell'allume
romano sia il risultato di questa recessione o ne sia una delle cause.
La risposta a tale interrogativo non pone dubbi. Due furono le cause dell'eclissi
progressiva, e peraltro abbastanza lenta, dell'allume di Roma: 1 °
la concorrenza delle cave straniere, e in particolare di quelle dell'Inghilterra
e di Liegi; 2° la flessione graduale della capacità produttiva
dell'azienda pontificia stessa, per esaurimento di alcuni filoni. Ritorneremo,
nel prosieguo della trattazione, su questi due punti, per il momento ci
limiteremo ad insistere particolarmente sulla seguente conclusione: il
calo di prosperità delle cave romane di allume fu certamente, ma
in misura impossibile da calcolarsi, una delle cause della recessione
italiana del XVII secolo, uno degli elementi costitutivi di una congiura
negativa. Se è vero, come noi pensiamo, che l'azienda di Tolfa
fu, nei secoli dell'Ancien Régime, la più importante industria
d'Italia, ogni crisi di questa azienda doveva, in maggiore o minor misura,
avere dei riflessi sull'insieme dell'attività economica della Penisola.
"
Le conclusioni a cui Delumeau è giunto sono estremamente interessanti,
specialmente riguardo alle motivazioni che provocarono l'eclissi progressiva
dell'allume di Tolfa. Due furono principalmente le cause:
1) La concorrenza delle cave straniere; in particolare Yorkshire e Liegi.
2) La flessione della capacità produttiva dell'azienda stessa dovuta
ad un certo esaurimento dei filoni alluminiferi e alla vetustà
degli impianti produttivi che avevano bisogno di essere rimodernati o
rifatti.
Su questo secondo punto pone, giustamente, maggior attenzione lo storico
francese riportando una serie di testimonianze che non fanno altro che
confermare la fondatezza di tale affermazione. Nei conti dell'impresa
riferiti agli ultimi anni del XVII secolo e per tutto il XVIII secolo
troviamo costantemente ingenti somme di denaro spese dagli appaltatori
per mantenere in efficienza le strutture aziendali; caldaie, magazzini
ecc.. Spesso queste somme superavano quelle previste nei contratti per
la manutenzione degli impianti da addebitare poi alla Camera Apostolica.
Ciò mostra chiaramente quanto bisogno c'era di ristrutturare e
modernizzare l'impresa. Lo stesso Breislak (285),
che visitò le cave di Tolfa alla fine del XVIII secolo, criticò
i procedimenti ormai obsoleti che ancora venivano applicati a Tolfa. Anche
l'esaurimento delle vecchie cave è provato dai documenti e dalle testimonianze a nostra disposizione. Si cercarono nuovi filoni e si riaprirono
vecchie cave, il tutto con poco successo. L'impresa di Tolfa era ormai
avviata al tramonto e come scrisse giustamente il Ponzi (286),
fu la comparsa sul mercato dell'allume artificiale, a prezzi più
bassi di quello naturale, a dare il colpo di grazia all'azienda dì
Tolfa.
Per quanto riguarda invece il primo punto, e cioè quello della
concorrenza di allumi stranieri, bisogna notare come la comparsa dell'allume
inglese dello Yorkshire e di quello di Liegi sul mercato europeo coincise
con l'inizio della fase discendente dell'impresa di Tolfa.
Fino ai primi decenni del Seicento l'allume pontificio aveva trovato nel
nord dell'Europa un mercato importantissimo. I dati a nostra disposizione
dimostrano che durante il XVI secolo, periodo di maggior splendore per
l'impresa di Tolfa, gran parte delle spedizioni erano destinate ai Paesi
Bassi, alla Francia Atlantica, all'Inghilterra. Ma non solo, è
estremamente probabile che i carichi inviati nei depositi di Genova siano
stati poi rispediti, almeno in parte, verso le stesse regioni del nord.
Detto questo vediamo come l'immissione dell'allume fabbricato a Liegi
e in Inghilterra sul mercato europeo, databile tra il 1610 e il 1625,
provocò sicuramente un calo delle esportazioni del prodotto romano,
anche se nei Paesi Bassi, nelle Province Unite e negli altri paesi dell'Europa
del nord si continuò ad usare il minerale di Tolfa. Questo stato
di cose fece si che la parte settentrionale d'Europa acquisì una
propria autonomia relativamente all'approvvigionamento di un prodotto
che era di importanza vitale per l'industria tessile, all'epoca in assoluto
il settore produttivo più importante.
Detto ciò possiamo terminare affermando, senza ombra di dubbio,
che la concorrenza degli allumi settentrionali non fu la causa principale
della crisi dell'impresa di Tolfa, ma contribuì, in buona parte,
a mettere in difficoltà l'impresa .papale proprio nel momento in
cui alcuni filoni venivano ad esaurirsi.9. L'ESTRAZIONE E LA LAVORAZIONE DELL'ALLUME
NELLE DESCRIZIONI LASCIATE DA VISITATORI ILLUSTRI E NELLA DOCUMENTAZIONE
D'ARCHIVIO.Un'impresa così importante come l'industria alluminifera
di Tolfa non attirò soltanto un gran numero di operai e minatori,
ma richiamò anche l'interesse di numerosi tecnici e scienziati
che non esitarono a trascorrere brevi periodi in questi luoghi per studiare
da vicino i procedimenti di produzione, lasciando spesso interessantissime
testimonianze delle esperienze fatte.
La più antica di queste testimonianze, a noi nota, è una
descrizione eseguita dal senese M. Pietro Andrea Mattioli, che durante
l'appalto Chigi, definito dal Mattioli "splendidissimo mercante ",
risiedette per due anni nei luoghi dove si estraeva e lavorava l'allume
(presumibilmente nei pressi de La Bianca), lasciandoci un'interessantissima
testimonianza sui metodi e sulle tecniche di lavorazione utilizzate nelle
miniere di Tolfa agli inizi del XVI secolo. Questo è il testo dell'importante
documento (287):
"... Inperoché per quanto ho veduto io nelle Alumiere del
Papa alla Tolpha, nel tempo che n'haveva l'appalto Agostino Chigi mio
compatriota splendidissimo mercante, mi fu dato amplissima facultà
di notare, e di vedere, come si faccia l'Alume di rocca, per essermi accaduto
à fare stanza in quel luogo per due anni continui.
La onde posso ben dire, che la materia del'Alume di rocca, quando si cava,
non è liquida, né si secca al sole poscia la state, come
si crede il Brasavola, per havere affermato Plinio, che così si
faceva l'allume liquido. Et però dico, che l'Alume di rocca non
si fa di terra liquida ma di durissima, e fortissima pietra.
Di cui si trova di quella, che tende al rosso, molto più dura di
tutte, il cui Alume più di tutti rosseggia, e più è
acuto, et valorose de gli altri. Et di quella, che è notabilmente
bianca, la quale è più frangibile, e più tenera,
di cui si fa uno Alume bianco, e trasparente, come un cristallo, assai
manco acuto del predetto. Et però è sempre questo più
in uso per le tinture delle sete, e de i panni fini, che non è
l'altro.
Cavasi questa pietra a cava aperta dalla montagna tutta massiccia, dove
stanno sempre per lo continuo gran numero dè picconieri, che con
picconi, mazze, e scalpelli la cavano, e la rompono nel modo che si fa
nelle cave delle pietre, che si cavano per gli edifici de i palazzi.
Conducesi poscia questa tal pietra rotta in pezzi con le carette à
certe fornaci simili a quelle, dove si cuoce la calcina, ma veramente
non così grandi, e quivi si cuoce con fuoco di grossissime legna
di elice, e di quercia nel modo medesimo, che si cuoce la calcina: ma
non però se gli dà fuoco più di dodici, overo quattordici
hore;percioché in tanto tempo si cuoce, quanto basta, e si più
si cuocesse, se gli brusciarebbe tutta la sostanza dell'allume.
Cavasi poi, come è fredda dalla fornaci, e conducesi con le carrette
sopra a certe gran piazze e quivi s'acconcia con bellissimo ordine in
certi monti lunghi un quaranta passi , e più, e larghi in cinque,
over sei braccia e alti due, fatti da ogni banda à scarpa, come
se si volesse principiare il fondamento di qualche grande edificio, accioché
non ricaschino à basso.
Et come sono finiti questi ordini, se gli gitta sopra dell'acqua (inperoché
da ogni banda vi ricorre) con certe pale di legno incavate copiosamente,
reiterendo così tre, over quattro volte il giorno, fino che la
pietra si converte in terra, il che non si fa in manco di trentacinque
over, quaranta giorni.
Conducesi poscia questa terra à certe caldaie grandissime di bronzo
nel fondo, e per l'intorno di mattoni, murate sopra à certi forni.
Et così empite le caldaie d'acqua per certi canali, che agevolmente
ve la portano, gli danno per il forno di sotto il fuoco. Et come comincia
à bollire, gittano due lavoranti la terra nella caldaia, sopra
la quale stanno continuamente quattro huomini gagliardissimi con quattro
grandissime pale di legno, le quali con grandissima fatica maneggiano
nel mescolare, che fanno del continuo, la terra con l'acqua.
Et come conoscono che l'acqua ha tirato a se tutta la sustanza del 'Allume
che si contiene in detta terra, cavano, e levano la feccia fuori dal fondo
della caldaia con quelle pale, e la gittano da una cataratta al basso
sotto un canal d'acqua , che se la porta via.
Il che fatto, subito rigittano nuova terra nella caldaia, facendo come
prima tante volte, che conoscono havere l'acqua tanta sustanza d 'Alume,
che basti.
Et così poi lasciata dare alquanto al fondo la feccia, mandano
per canali questa acqua aluminosa in certi cassoni, fatti di grossissime
tavole di quercia, di gran capacità, dove in spazio d'otto giorni
si genera per ogni intorno un sommesso d'Alume, di modo che rassembra
lastre di grossissimi diamanti attaccati con bellissima arte insieme.
Et quando si vuoi cavare dalle casse, si rimanda la liscia (così
si chiama l'acqua, chev'avanza dentro) chiara alle caldaie per lo medesimo
canale, e la torbida si scola di sotto, cavando un zasso di legno.
La feccia poi aluminosa, che si ritrova nel fondo congelata à modo
di grano, si porta anch'ella a ricuocere alle caldaie.
Spiccasi poscia dalle casse l'Alume con certi istromenti di ferro fatti
a modo di scarpello largo, e messo in certe ceste con due maniche fatte
di vergelle di sanguino, e di nocciolo, si lava in una gran cassa piena
d'acqua, e come è asciutto, si ripone in magazzino.
Il che arguisce manifestamente, che altra cosa sia l'Alume liquido, e
altra cosa l'Alume di rocca. Percioche dice Plinio, che il liquido, è
limpido e di colore di latte, che si cava liquido e seccasi la state al
sole, e che l'ottimo messo nel succo dei melagrani, subito diventa nero.
Il che non si vede in alcun modo nell'Allume di rocca, il quale più
si rassembra al ghiaccio puro, e al cristallo, che al latte, si fa di
durissima pietra non di liquida terra, né diventa in alcun modo
nero, quando si mette nel succo dei malagrani; ma più lucido, più
chiaro, trasparente, e più cristallino ".
Di qualche anno più tardi (1540 circa) è il brano di V.
Biringuccio, riportato anche da Delumeau, e ripreso da "Li diece
libri della pirotechnia", dove un capitolo intero è dedicato
all'allume romano. Ecco cosa scrive Biringuccio riguardo alle cave di
allume di rocca (288):
"... in Italia invece trovasi in diversi luoghi eccedendo in bellezza,
qualità e bontà quello delle altre contrade. E per contentare
il vostro desiderio di saperne, vi dirò che se ne trova in terra
napoletana a Ischia, a Pozzuoli e probabilmente in terra romana a dodici
miglia dal mare tra Civitavecchia e Cometa, in un luogo chiamato Le tolfe,
laddove sono riuniti diversi monti. Il maggior numero dei quali è
di quelli che producono allume e non furono scoperti fino al tempo di
Pio Secondo, dopo il quale i ministri della Camera Apostolica si sono
adoperati a mettervi cave e ne hanno tratto un tesoro che si può
stimare. E ho opinione che continueranno in questa volontà fino
all'ultimo giorno del secolo, in quanto hanno convinzione che non potrà
mai essere estinto né svuotato da umana operazione Le cave, dove
si recano gli operai per trovare questa pietra, si lasciano aperte, e
si continua ad allargare la breccia finché quelli che cercano la
pietra siano arrivati al mezzo della montagna, laddove sperano essi trovare
maggior quantità di ciò che cercano. Per questo, dopo aver
scoperto la terra non tardano a fare una lunga trincea. Poi cominciano
a incidere la pietra il più profondamente possibile, senza dimenticare
di appoggiare ed erigere pietre di legno, per impedire di far cadere quel
che si trova sopra, che non tardano a buttar giù quando trovano
il punto che cercano. Poi, con mazze di ferro ed altri strumenti, si adoperano
per rompere la pietra, separando la buona dalla inutile e cattiva, e inviando
la buona su carri alla fornace, e la cattiva nel fiume, e ciò per
pulire la cava e per non fare impedimento agli operai che lavorano ad
andare sempre oltre dirigendosi alla parte dove discoprono maggiore apparenza
di minerale. Vi assicuro che non vi sarebbe necessità per la gente
di tale stato, che viene a scavare il monte fino al centro, per vedere
quel che è dentro, di temere di farsi aiutare dall'arte di negromanzia
o dalla forza dei giganti per rovesciarlo sottosopra. Vi assicuro che
non si possono trovare facilmente i monti che producono tali minerali,
e se per caso fortuito o per arte se ne incontrano, dopo aver cavato e
scelto come v'ho detto, il tutto verrà condotto alle fornaci, che
sono identiche a quelle comuni dove si forma la calce, coperte sulla volta
della stessa pietra, e similmente sarà la parte inferiore dove
sarà messo il fuoco per cuocere la pietra, la quale riempirà
tutta detta volta, e vi sarà fuoco continuo per dieci o dodici
ore o di più, a discrezione di quelli che conducono l'impresa,
sull'esperienza dei quali il tutto riposa. Giacché se si dimenticasse
di farvi diligenza, la virtù e sostanza dell'allume verrebbe a
essere consumata dal fuoco tanto che non si potrebbe più riconoscere
la virtù della pietra, e sarebbevi pericolo che il padrone e conduttore
dell'opera venisse a subire grave danno dalla spesa da lui fatta… …Quando
questa pietra sarà stata abbastanza affumata secca e cotta, e il
calore ne sarà assente, gli operai la porranno fuori dalla fornace
per posarla in qualche luogo piano, nel quale disporranno queste pietre,
le une sulle altre, così come se si volesse costruire un bastione
a muraglia, che continueranno a fare fino a che sia di lunghezza di venti
o venticinque, di larghezza quattro, e in altezza uno e mezzo, quasi due.
Dopo, costruiranno un canale d'acqua per bagnarlo sera e mattina, e nell'estate
tre volte al giorno, continuando questo a fare per quaranta giorni sul
finire dei quali la pietra sarà disfatta e abbastanza pulita per
fare l'allume. Ma prima di poter procedere a detto scopo, necessita trovare
un ambiente abbastanza spazioso. Per risparmiare la spesa, lo si potrà
far costruire a forma di capanna, ma bisogna che sia larga, a tal punto
da potervi mettere una o due caldaie, con il numero necessario di cassoni
dove sarà messa I'acqua per congelare, e che queste siano della
capacità che potranno portare le caldaie. Il fondo delle quali
sarà di pietra o di bronzo, ed eguaglierà un diametro in
grandezza di quattro braccia, avente tutto intorno un bordo uguale a quello
dei piatti di stagno. E saranno poste, queste caldaie, sulle fornaci contro
il muro, e il tutto incassato nella legna, un braccio e mezzo dal bordo
della caldaia, fino al fondo Che si costruisca nello stesso ambiente ove
sono le caldaie o in luogo vicino, trenta cassoni o tine di legno di quercia,
per ciascuna caldaia, nelle quali sarà messa la lisciva d'allume,
per essere congelata e esse saranno di altezza due braccia e mezzo, di
larghezza due e tre in lunghezza, e al più possibile ben fatte.
A ciascuna saranno messi operai con loro strumenti, per vegliare che niuna
cosa venga a versare, e si mettano tutti in ordine, lungo la muraglia,
vicini gli uni agli altri come ad essi piacerà. Vi ho dato conto
delle pietre di allume messe insieme come devesi, delle caldaie sulle
fornaci, e similmente dei cassoni messi in fila per fare l'allume: per
cui, desiderosi di andare più oltre, dovrete per prima cosa empire
d'acqua (che prenderà suo corso per un canale) la caldaia, la quale
sarà sì grande che essa terrà cento carichi d'acqua:
per la quale far bollire, si metterà fuoco al di sotto per la bocca
della fornace. Tosto che gli operai la scorgeranno bollire, essi vi metteranno
dentro la pietra, che diventerà così disfatta, perché
bagnata, che sarà quasi convertita in terra. Vi si potranno mettere
dentro per ciascuna volta sei o otto carrettate. E allora sarà
di bisogna che quattro degli operai siano sul bordo, muniti di pale di
legno grandi e lunghe tanto che abbiano poter arrivare fino in fondo per
muovere e girare nell'acqua questa pietra, per trarne e metter fuori quella
che è di troppo dura e mal disposta a fondersi. E in questo modo
tre o quattro volte, non manchino di gettare nella caldaia tutta la pietra
che vogliono mettere in opra, lasciando intervallo tra l'una e l 'altra
uno spazio di tre ore dando comodo all'acqua di perdere il suo calore.
E dopo che essa del tutto fredda, rimettendo dentro della terra, essi
operai tornano a farla bollire. E quando si accorgono sulla fine che la
caldaia è ben vuotata delle pietre non cotta, e l'acqua è
sgombra della feccia terrosa e densa, vedendo l'acqua pronta a congelarsi,
e ben carica di sostanza d'allume, con alcuni vasi di legno, formati a
mo' di grandi mestoli non mancano i medesimi operai di vuotarla, e per
alcuni canali propri a questo compito la faranno andare a recarsi dentro
cassoni e tini, riempiendoli tutti l'uno dopo l'altro, e colà la
lasciano riposare per congelarsi, quattro giorni in inverno, sei in estate.
Sulla fine dei quali, gli operai fanno due buchi sotto i cassoni per dar
corso a tutta l'acqua che non è congelata. Ma per prima raccolgono
la più limpida, e la rimettono dentro la caldaia, oppure dentro
uno dei cassoni, per trattarla ancora una volta, poiché trattiene
ancora in sé sostanza d'allume. Vi assicuro che non mancherete,
così facendo, di trovarlo dentro i cassoni che avrete riempito,
attaccato al legno nella stessa quantità e stesse virtù
che, aveva la pietra che era stata messa dentro, sia che fosse bianca,
o rossa, secondo la qualità della cava da cui sarà stata
estratta. Vi informo inoltre che si deve gettare al vento quello che si
trova in fondo ai cassoni, se non vi è apparenza d'allume dello
spessore d'almeno tre o quattro dita, in quanto è cosa inutile.
Ma l'altra materia che appare sull'acqua deve essere rimessa nella caldaia,
in compagnia delle pietre che si vuole far bollire di nuovo. L'allume
che si troverà attaccato dentro i cassoni sarà strappato
con una sgorbia o qualche altro ferro, e dopo averlo posto e lavato in
una piccola conca, sarà riposto al coperto in un magazzino, e così
condotto alla fine della sua perfezione. Non voglio dimenticare di avvertirvi
che con vantaggio di ferramenti, fornaci, caldaie e grandi cassoni, si
perviene ad ammassare allume in grandissima quantità, al punto
che si arriva ad aver soddisfazione della spesa, essendo aiutati dal profitto
che ne viene a sortire ".
La descrizione delle lavorazioni fatta da Biringuccio, redatta in qualche
caso in uno stile oscuro, riprende le notizie dateci dal Mattioli riguardo
le quattro fasi fondamentali della produzione dell'allume e cioè:
1 ) La calcinazione, detta anche torrefazione (289);
non è altro che la cottura della pietra alluminosa. In questa fase
la pietra viene posta sopra dei forni, di forma troncoconica, e viene
cotta per un periodo che può variare in base al tipo di pietra
da calcinare e al tipo di legna.
2) La macerazione; è la fase successiva e consiste
nel sistemare la pietra calcinata in lunghe cataste, a forma di schiena
d'asino, sopra le quali alcuni operai getteranno, per più giorni,
acqua.
3) La lisciviazione; le pietre provenienti dalla macerazione,
ormai disaggregate e ridotte ad un impasto bianco, vengono gettate nell'acqua
bollente delle caldaie; di solito si utilizza acqua residua delle precedenti
cristallizzazioni. Mentre l'acqua bolle gli operai con lunghe pale l'agitano
e fanno in modo che questa sciolga tutto il sale alluminoso, mentre la
terra residua precipita nel fondo. Quando l'acqua è abbastanza
carica di sali, si spegne il fuoco, si apre un rubinetto posto sul fondo
della caldaia, e si fa defluire la liscivia in casse di legno dove avverrà
la cristallizzazione.
4) La cristallizzazione; in questa fase si attende che
l'acqua depositi i sali di allume, presenti in soluzione, sulle pareti
delle casse. Quando ciò è avvenuto viene tolta l'acqua e
con l'aiuto di strumenti in ferro vengono distaccati dalle pareti delle
casse i cristalli d'allume.
In più ci fornisce interessanti notizie relative ai metodi di escavazione
della pietra. Sarà interessante confrontare poi queste due descrizioni
con altre di secoli successivi, giunte fino a noi, per verificare l'evoluzione
tecnologica dell'impresa di Tolfa. Bisognerà vedere se le tecniche
di lavorazione rimasero inalterate nei secoli oppure si modificarono.
Un ulteriore descrizione risalente al XVI secolo, del 1556 è la
prima edizione latina, è quella che l'Agricola inserisce nella
sua importante opera "De re metallica"(290).
Sembrerebbe che l'Agricola conosca bene l'opera di Biringuccio, o per
lo meno abbia visitato le cave di Tolfa nello stesso arco di anni. Nella
sua opera troviamo poi un'interessante disegno in cui vengono raffigurate
le varie fasi della lavorazione dell'allume.
Contemporaneamente all'Agricola transitava per Tolfa Belon du Mans (circa
1550), il quale mette a confronto, nei suoi scritti (291),
le lavorazioni fatte a Tolfa con quelle fatte a Cypsella in Tracia. Ci
fornisce un'interessante notizia quando afferma che l'allume prodotto
a Tolfa è più costoso di quello fatto a Cypsella perché
bisogna trasportare il materiale, su dei carri, dalle cave fino al luogo
dove viene cotto.
Abbiamo un ultima testimonianza risalente alla fine del XVI secolo; la
relazione del viaggio fatto da papa Sisto V, nel 1588, per visitare le
celebri cave.
Il racconto di questo viaggio, riportato dal Mignanti (292),
ci fa rivivere in modo molto chiaro le fasi della lavorazione e, cosa
ancora più interessante, cita per la prima volta l'uso della polvere
sulfurea (293). Questa inserita
all'interno di un foro aperto artificialmente sul fronte di cava, veniva
fatta esplodere per provocare la caduta di grandi macigni.
Prima di proseguire il discorso sulle descrizioni delle lavorazioni, è
bene notare come Sisto V non fu né il primo né l'unico papa
che si recò a Tolfa per osservare da vicino le lavorazioni delle
miniere. Già nel 1481, pochi anni dopo la scoperta dell'allume,
Sisto IV, da uomo attivo quale era, volle venire di persona a rendersi
conto della situazione estrattiva, inaugurando un costume che si perpetuò
nei secoli.
Nel 1505, durante l'appalto Chigi, giungeva nel territorio delle allumiere
Giulio II. Nella seconda metà del Cinquecento si registrano un
susseguirsi di visite papali a quei luoghi che tanto utile davano alle
casse del Vaticano (294).
Nel 1561 toccò a Pio IV venire a Tolfa; dopo di lui fu la volta
del suo successore Pio V (1571). Due anni più tardi Gregorio XIII,
salito da appena un anno sul trono di S. Pietro, venne in visita alle
miniere. Alla permanenza di questo papa è legato un avvenimento
importante, e cioè l'inizio della costruzione del grande palazzo,
oggi chiamato "Palazzo Camerale", presso l'attuale paese di
Allumiere, luogo dove la lavorazione dell'allume si era ormai trasferita
e stabilizzata. Fino a quel momento tutti i papi con i loro seguiti, le
autorità dello Stato Pontificio, gli appaltatori dell'impresa,
e tutti coloro che per vari motivi si trovarono a passare per le miniere,
avevano soggiornato a Tolfa. Gregorio XIII sentì il bisogno di
far costruire un palazzo vicino ai luoghi di lavorazione per installarvi
la direzione del complesso e un alloggio decoroso per l'appaltatore, il
governatore e per tutte le personalità che di frequente transitavano
per le allumiere, compreso il papa. Il primo papa che soggiornò
nel nuovo palazzo fu proprio Sisto V, seguito da Clemente VIII, che ritroviamo
presso le lumiere nel 1597. Altri due pontefici che vollero visitare l'impresa
di Tolfa furono: Gregorio XVI, nel 1835, e Pio IX nel 1857.
Dopo questa breve parentesi, poniamo ora attenzione alle descrizioni fatte
nei secoli successivi da altri personaggi che visitarono le cave di Tolfa
e lasciarono testimonianze sulle lavorazioni svoltesi nell'impresa papale.
Iniziamo con Paolo Boccone che transitò per la regione tolfetana
alla fine del XVII secolo. Il botanico, venuto sui monti della Tolfa per
cercare piante medicinali, si interessò anche della fabbricazione
dell'allume. Ci informa che trovò una cittadina "molto popolata,
e anche da gente d'aspetto assai civile"(295);
dimostrazione della prosperità del luogo in quel tempo. Nel XVIII
secolo Tolfa compare nei racconti di un grande viaggiatore: Padre Labat,
il quale si recò alle miniere di allume e ci fornì notizie
di un certo interesse riguardo all'utilizzo dell'allume (296).
A questo secolo appartengono altre due descrizioni. La prima, importantissima,
è di uno studioso francese Fougeroux de Bondaroy e risale al 1765,
momento in cui, di ritorno da un viaggio di studio in Italia, Fougeroux
presentò una sua relazione all'Accademia delle Scienze di Parigi
dove descriveva, tra le altre cose, le fasi della lavorazione dell'allume
osservate nelle cave di Tolfa. Questa descrizione particolareggiata e
minuziosa, riportata già in altri studi, è tanto interessante
che ci è sembrato utile analizzarla di nuovo nel presente lavoro
dedicato all'allume di Tolfa (297).
"... Gli operai abbattono questa pietra cominciando dall'alto della
montagna, e proseguono fino al livello della pianura dove i carri vengono
a prenderla; lo scavo che vi fanno forma una lunga strada, che essi continuamente
allargano con nuovi abbattimenti e poiché le pareti sono tagliate
a picco, essi si servono di impalcature volanti, composte da due puntoni
conficcati nella roccia e sostenuti all'altra estremità da funi
assicurate alla sommità del monte; delle tavole appoggiate sui
puntoni completano l'impalcatura, e le stesse funi che la reggono servono
agli operai da scala per discendervi, insieme agli appigli offerti dalle
asperità della roccia.
Poiché la pietra non è disposta a strati, la si spacca con
dei cunei di ferro, picche e mazze, e si getta il materiale in basso,
dove i carri vengono a caricarlo; talvolta, ma raramente, si fa uso della
polvere.(298) Le pietre, abbattute
in grossi blocchi, vengono frantumate in pezzi più piccoli e prontamente
portate alle fornaci dove debbono essere calcinate; gli operai affermano
che se si lasciassero a lungo esposte all'aria e alle mutevolezze del
sole e della pioggia, perderebbero i loro sali e tornerebbero inutili;
se ne separa allora a volte una crosta giallastra che copre la pasta nella
quale si riducono e che è verosimilmente prodotta da una dissoluzione
di ocra o di ferro.
Le fornaci dove si calcina la pietra sono interrate; per installarle,
si sceglie un pendio tagliato a picco, di circa 6 o 7 piedi, o una terrazza
spianata espressamente a tale uso; la fornace viene inserita nel terreno
sul bordo del pendio, in modo che la sua bocca o porta si trovi in basso,
la sua, forma è quella di una calotta o cupola di 6 piedi di diametro,
e la parte superiore della cupola o volta è forata da un'apertura
circolare di circa 3 piedi di larghezza; è attorno a questa apertura,
e perciò sul terreno soprastante, che viene sistemata la pietra
da calcinare anch'essa disposta a cupola, avendo cura che vi siano spazzi
liberi tra le pietre da dove possa passare la fiamma e il fumo. Quando
queste pietre sono state esposte al fuoco per dodici o quattordici ore,
il fumo diventa bianco, le pietre assumono un colore rosa, e spandono
un debole odore di solfuro di potassio; si lascia allora spegnere il fuoco,
e quando le pietre si sono raffreddate, si dispongono nuovamente in maniera
che quelle che hanno ricevuto di mezzo l'azione del fuoco siano ora ad
esso le più esposte, e si sottopongono ad una seconda calcinazione;
il riscaldamento si fa con legno di faggio e di carpino, che si trova
in abbondanza nei dintorni; le pietre così calcinate si attaccano.
fortemente alla lingua e vi lasciano il gusto tipico dell'allume.
Le pietre così trattate si portano in un luogo vicino alle officine,
dove si stendono in lunghi mucchi, di circa tre piedi di altezza, a forma
di schiena d'asino, avendo cura di porre sopra i pezzi più grossi.
I mucchi hanno sui due lati delle fosse piene d'acqua e quattro o cinque
volte al giorno, a seconda che il sole sia più o meno forte, degli
operai attingono con dei mestoli l'acqua dalle fosse e ne innaffiano i
mucchi, questo lavoro dura quaranta giorni.
Al termine di questo periodo, le pietre si presentano disaggregate e ridotte
ad un impasto bianco, che si attacca alle mani quando lo si maneggia e
che prende una leggera tinta di rosso; il materiale viene allora portato
alle caldaie. Le caldaie sono più in basso del livello del suolo;
il fondo che è di piombo (299),
si inserisce entro una struttura in muratura che si trova al di sotto;
il resto della caldaia è in muratura e va ad allargarsi a formare
una specie di imbuto. La caldaia poggia sulla fornace munita di una griglia
di ferro sulla quale si gettano i ceppi attraverso un'apertura su uno
dei lati; ... Le pietre ridotte in pasta sono gettate nell'acqua della
caldaia con delle pale; di solito, quest'acqua ha già disciolto
dei sali che sono stati fatti evaporare... Mentre l'acqua bolle, diversi
operai, con lunghe pale di cui ciascuna richiede la forza di due uomini,
mescolano per un certo tempo la pietra di allume ridotta ad un impasto,
e la fanno, per così dire, fondere; tolgono poi il terriccio e
certe schiume che affiorano in superficie e li gettano ,fuori; poi si
fa evaporare l'acqua che ha disciolto i sali di allume: quest'acqua bolle
generalmente per ventiquattro ore; trascorso questo tempo, quando la si
pensa abbastanza carica di sali, si spegne il fuoco: si lascia precipitare
il terriccio e si apre il rubinetto posto ai trequarti della caldaia,
verso il fondo; l'acqua cade in una tinaia, da dove viene incanalata verso
un ambiente vicino dove sono state disposte in gran numero come delle
tine quadrate, fatte di uno spesso legno di quercia, le cui tavole sono
tenute unite da traverse e rinforzi che serrano le diverse parti; le si
può smontare quando si vuole, togliendo i cunei inseriti nei rinforzi.
Si riempiono i cassoni con quest'acqua e la si lascia cristallizzare;
l'acqua passa dalla tinaia all'uno e all'altro dei cassoni per mezzo di
condotti o gronde di legno che vengono poste e ordinate a piacimento,
facendole passare sopra i cassoni; su ognuna della condotte si sono fatte
delle aperture; e quando il primo cassone è pieno, l'operaio incaricato
di tale compito bada a chiudere l'apertura con della terra d'argilla;
in tal modo l'acqua fluisce nella seconda cassa e così di seguito
in tutte; si lascia che quest'acqua depositi il sale di allume che contiene
in soluzione. In questo ambiente o in due si trovano da sessanta a settanta
cassoni disposti su due file, in modo che vi si possa passare in mezzo...
Ogni cassone è di sette piedi in altezza e di cinque in larghezza,
ed ha forma di parallelepipedo. Passati più o meno quindici giorni,
a seconda della stagione e della qualità di sali che l'acqua contiene
in soluzione, l'allume si cristallizza all'interno dei cassoni formandovi
cristalli molto irregolari; talvolta, però, all'apertura dello
scarico dei cassoni, si può anche trovare allume in splendidi cristalli
e in forme molto regolari.
L 'acqua che si toglie da questi cassoni o tine di legno, quando ha depositato
i suoi sali, contiene ancora molta allume, che è però misto
ad un'acqua madre, un 'acqua grassa, di color carne, che impedisce la
cristallizzazione e che è, come si sa, comune a tutti i sali; per
recuperare l'allume trattenuto nell'acqua rimasta nei cassoni, bisogna
darle più superficie onde evapori più facilmente, e depositi
il suo sale; per fare ciò si libera l'apertura che si trova sotto
ciascun cassone, e si fa defluire l'acqua tramite delle condotte fino
ad altre tine più basse, e meno profonde della precedenti, e che
contengono meno liquido: il terriccio inutile vi si deposita; ma il sale
vi si cristallizza ancora; si toglie la terra, che viene eliminata, e
si conservano i cristalli....
L 'acqua, dopo aver attraversato tutte queste diverse vasche nelle quali
scorre in superficie fino a quella più bassa, e di conseguenza
l'ultima, va a depositarsi in una tina più bassa ancora, o in un
vero e proprio pozzo, dal quale la si solleva tramite una catena a secchi
mossa da una corrente d'acqua che fa funzionare la macchina; detta acqua
va a versarsi in una vasca o serbatoio più in alto delle caldaie,
da dove la si attinge per avviarla alle caldaie quando si vuole fare una
nuova cristallizzazione simile a quella appena descritta: quest'acqua
è già carica di parti di sale di allume che ha in se disciolto
e che depositerà assieme ai sali di cui si caricherà nuovamente.
Quando tutta l'acqua carica dei sali di allume contenuta nella caldaia
è stata fatta defluire, si estrae con delle pale la terra depositatasi
sul fondo, e la si porta fuori con delle carriole... I cristalli di allume
vanno a riempire delle botti che si trasportano poi a Civitavecchia...
".
L'altra testimonianza del XVIII secolo giunta fino a noi è quella
di S. Breislak. Il contenuto del racconto del dotto religioso non si discosta
di molto da quello di Fougeroux; l'unica differenza la notiamo al momento
in cui si parla delle tecniche utilizzate per staccare le pietre dalla
montagna. Scriveva il Breislak nel suo saggio (300):
"La prima operazione che si fa nella fabbrica dell'allume, è
quella di tagliare dal Monte la pietra; ciò che si ottiene coll'aiuto
delle mine. Reca però stupore il vedere un tale lavoro eseguirsi
con arte e facilità singolare, in alcuni siti elevati della Montagna,
tagliata a picco da uomini, la vita dei quali è affidata solo ad
una corda. Questi hanno la destrezza di gettare anche in qualche distanza
un tizzo acceso nel luogo appunto dove è la traccia della mina,
e seguita l'esplosione, sostenuti parimenti dalle corde, fanno cadere
co' pali di ferro que' materiali che la violenza della mina ha solo smossi,
senza sbalzarli dal loro sito. Si accendono le mine regolarmente tre volte
al giorno, si sceglie quindi la pietra buona per l'allume, e ridotta in
pezzi si porta alla piazza de' forni. "
Fourgeroux aveva scritto che la roccia veniva spaccata con cunei di ferro,
picche e mazze, e che solo raramente si faceva uso della polvere. Il Breislak,
invece, dice che le mine si accendevano regolarmente tre volte al giorno.
A parte questa discordanza, si può chiaramente notare come il contenuto
delle due relazioni sia abbastanza omogeneo; e ancora più interessante
è il fatto che le precise descrizioni lasciateci dai due studiosi
settecenteschi mostrano, in modo concreto, il perdurare delle stesse tecniche
di lavorazione nel corso dei secoli oggetto del nostro studio. Se si eccettua
l'impiego della polvere pirica, non usata in principio, e l'introduzione
della macchina idraulica per sollevare l'acqua madre recuperata dai cassoni
di cristallizzazione, nessun cambiamento c'era stato nelle diverse fasi
di lavorazione dell'allume di Tolfa. L'impresa si basava ancora principalmente
sulla forza dell'uomo, grazie alla quale si riusciva a compensare la relativa
immobilità della tecnica.
Tenendo conto di questa immobilità diventano estremamente interessanti
alcuni documenti presenti nell'Archivio di Stato, fondo Camerale III,
in cui ritroviamo notizie utili sulla sequenza e l'articolazione delle
varie fasi di coltivazione. Infatti, anche se riferite in misura preponderante
agli appalti settecenteschi, queste testimonianze contribuiscono non poco
a darci un'idea di come si doveva svolgere lo scavo del minerale già
nei secoli precedenti.
Illustriamo quindi, usando il linguaggio dei documenti, alcuni momenti
importanti della coltivazione.
a) La definizione della cava: "... Allumiera e cava sono in tal materia
puri e semplici sinonimi, spiegando e l'una, e l'altra parola quella vena
ò miniera di pietra aluminosa, onde coll'attività del, fuoco
si fabrica l'alume "(301).
b) Il modo di eseguire i tasti per la ricerca dei filoni e la posizione
delle cave: "...Il lavoro della nuova apertura nella Cava Gangalandi
s'intraprenderà col far prima il taglio della macchia per quella
lunghezza, e larghezza che richiede il bisogno della suddetta nuova apertura
affine di fare le necessarie osservazioni per poscia stabilirsi l'andamento
della linea da aprirsi. S'intraprenderà poscia lo sterro, e spurgo
delle materie prime di scarico, che s'incontreranno nel preaccennato andamento,
ed in seguito si farà il taglio della terra a lungo del nuovo canale
per una metà della di lui estensione per proseguire il lavoro con
le mine nel masso della montagna, e detto metodo dovrà continuarsi
ancora nell'altra metà fintantoché non si vengano ad intersecare
i filoni di pietra buona, e che siano posti questi in istato da potersi
consegnare all'appaltatore...(302)
"Osservai in primo luogo, che la più gran parte delle cave,
ed eccettuata solamente la Cavetta, sono state aperte nella cima dei monti,
o almeno in luoghi molto elevati delli stessi monti... "(303);
"... si veggono quelli monti quasi tutti aperti nella sommità,
e poscia abbandonati perché non si previdde, né di guarnire
quelle cave di cassi emissari per le acque di scolo... "(304).
c) La tecnica di lavorazione dei fronti di cava: Per la fabrica dell'alume
è prima necessario avere uomini prattici, che conoschino la pietra
buona, essendo che non sempre nella cava si trova pietra atta da cavarne
l'alume, e molte volte si è tralasciato una cava, e cavato nell'altra
per non essere in quella pietra sufficientemente buona per esso alume.
Conosciuta adunque la qualità della pietra, si cava essa dalle
viscere del monte a forza di martelli, picconi e mine con polvere, caduta
che è essa in terra si trasporta fuori dalla cava con carri...
"(305);
... si estrae il minerale dal monte aluminoso a cava aperta coll'opera
di tre persone che formano una coppia di due... essi sono picconieri,
e l'altro volta mine, e sono obligati di fare detta mina il giorno. Fatta
da questi la mina con una agucchia di ferro (che è un ferro rotondo
con punta acciarita) in profondità secondo l'andamento della montagna
di circa palmi 4. Si carica con della polvere per circa libbre 3 secondo
parimenti il bisogno, e poi si spara dalli predetti picconieri, i quali
sono ancora obligati con picconi e paletti da leva di levare tutto quello
che è smosso, e prodotto da la mina. "(306);
... nella quale facciata appariscono 6 filoni di pietra buona aluminosa
da lavoro larghi assieme palmi 10, che principiando dal fondo, o sia platea
di detta cava, e proseguono fino a mezza altezza di detta montagna, nella
quale attualmente vi si lavora, e detta facciata resta tagliata ad uso
di arte senza strapiombi... "(307).
"La natura a disposto in cotal guisa i filoni di questo minerale,
che sono costantemente incastrati in linea verticale al di dentro delle
viscere della montagna, ricoperti da tutte le parti da altro sasso cattivo.
L 'uomo dunque per ischiuderli deve prendere dall'alto dei monti spaziosi
tagli chiamati banchi, dei quali quanto maggiore è la latitudine,
altrettanto magnifici sono i filoni, che al di sotto si scuoprono; e anche
poi le pesanti pericolosissime slamature non abbiano ad offendere i lavoranti,
l'arte ha suggerito di fare detti tagli per linea obliqua, o come dicono
a scarpa"(308).
d) La strategia di coltivazione: ribasso dei banchi e delle platee, cavi
a fondetto, lavori a grottesco, cavi a cunicolo: "Promette la R.
Camera di far consegnare alli detti appaltatori le Cave della Pietra nette,
e pulite, e di far abassare le sboccature che al presente servono per
portar via l'acqua tanto che basti per dare il scolo alli fondetti di
dette cava, et in caso che la Cavetta non havesse il declivio far riempire
i fondi di essa fino alla predetta sboccatura antica... 16. Et occorrendo
che nel nuovo appalto le cave vecchie si riducessero inutili per la profondità
in modo tale che si stimasse doversi riempire ad effetto di cavar la pietra
nelli luoghi superiori, e più alti si conviene che in quel caso
debba riempirsi la profondità sino a quel termine solamente che
non vi sarà più pietra buona da cavare con questa però
che prima di riempire li ditti appaltatori ne debbano dar parte a detto
Mons. Ill.mo Tesoriere acciò che possa deputar persona che vi intervenga...
"(309);
"Nella medesima Cavetta presentamente si lavora in più parti
et in primo luogo si cava nel ,fondetto morto nel sito sotto la Castellina,
che è di longhezza principiando dal tufo isolato vicino al Canalone
verso la Cavarella canne 54 e di larghezza canne 11 nel maggiore... In
questo fondetto si trova qualche poco di pietra, benché la maggior
parte sia tufo, terra e sasso inutile. Si lavora parimenti in alcuni luoghi
della pariete, cioè nella cima della Cavarella con una coppia di
picconieri e in alcuni luoghi sia la Castellina e Cavarella con 2 coppie
di picconieri, ma per esser ivi il monte troppo incavato nella parte inferiore,
puole facilmente slamare dalla parte superiore... "(310);
"... non solo i cavi a fondetto, o sia a forma di profondi vasconi,
sono stati mai sempre vietati, ma é stata molto più vietata
la riempitura, come quella che impedisce l'estrazione della pietra aluminosa
con seppellirla sempre più sotto inutili spurghi... "(311);
"Non si tralascia, però d'insinuare che lo scavo di questa
cava sembra un poco ungusto, et a modo di corridore, talmente che pare
potesse ordinarsi, come di fatto il Commissario insinuò nella visita
operare un poco più, ed estendere lo scavo dell'uno e l'altro lato
e smantellare la cima e cappello della parete per sfuggire il lavoro a
grotta, giacché da tutto vi é pietra buona, e da tutti i
lati si scuoprono filoni e vene d'alume perfetto, il che fu detto si sarebbe
posto in esecuzione... "(312);
"... si é stabilito di assicurarsi meglio se realmente il
filone, che apparisce al di fuori, vada incarnirsi ubertosamente nel forte
della montagna. Ad oggetto di accettarsi pertanto di simile sussistenza
si reputa di fare alla radice della suddetta parete un cavo a cunicolo
per tagliare il divisato filone, imperocché in tal maniera si potrà
rilevare la di lui reale grossezza... Nella nuova apertura, o sia ribasso,
le apparenze sono ottime, imperciocché sebbene il taglio siasi
poco profondato, già si sono tuttavia incontrati due larghi filoni...
"(313);
"In alcuni luoghi si veggono fondetti sempre inutilmente proibiti,
o cunicoli profondissimi escavati per togliere la sola polpa, e per lassare
poi, che l'inutil sasso venisse tolto dal proprietario: in altri luoghi
si veggono lasciati pericolosi, ed altissimi isolotti... In questi ultimi
tempi soltanto coi lumi dell'Eccellentissimo Ruffo allora Tesoriere e
colla direzione del peritissimo direttore sig. Francesco Navone, han principiato
a sistemarsi quelle Cave, ad aprirsi dei sotterranei emissari, ad escavarsi,
o siano gallerie, non già per cavare pietra alluminosa, bensì
per iscoprire l'esistenza, la località e la direzione dei filoni
alluminosi... meritatamente li fondetti sono proscritti da ogni buon sistema,
producendo cavità senza scoli, ed esaurimento del buon materiale...
Li cunicoli poi, quanto opportuni per esplorare, quali possono essere
le qualità interne di quei monti, altrettanto inutili e dispendiosi
per sostituirsi alle cave aperte, non potendosi con la prattica di essi
estrarne, che una quantità di pietra sufficiente soltanto per un
analisi giornaliera. "(314).
e) Coltivazione dei filoni in galleria: "Tutti sanno quanto dispendioso
e poco fruttifero sia l'attuale metodo di escavazione a cielo aperto,
ormai abbandonato quasi da tutti coloro che devono estrarre minerale da
,filoni eruttivi. Si dovrebbe perciò desistere da questo metodo
per abbracciare il sistema delle gallerie o di lavorazione coperta, il
quale risulta immensamente più vantaggioso"(315) .
Dai brani riportati si coglie con chiarezza uno dei problemi di fondo
che hanno condizionato i rapporti tra la Camera Apostolica e gli appaltatori:
la necessità di trarre il massimo profitto dall'impresa ha rappresentato
per gli investitori un obiettivo da perseguire senza indugi e al tempo
stesso una costante preoccupazione per gli architetti camerali preposti
al controllo dei lavori. La conduzione dello scavo era infatti subordinata
alla necessità di ottenere quantità elevate di pietra alluminosa,
spesso a scapito delle norme di sicurezza: non sempre veniva praticato
il taglio a scarpa delle pareti, che sarebbero dovute essere suddivise
in banchi sovrapposti per evitare il pericolo di slamature o dilamazioni.
La lavorazione in parete produsse ben presto (è testimoniato già
nel XVII secolo) il lavoro a grottesco, che consisteva nell'approfondire
la coltivazione del filone, limitatamente al suo spessore nel fronte di
cava, senza procedere con l'avanzamento del banco e la conseguente rimozione
della roccia sterile. Le costose opere di ribasso delle platee di cava,
inoltre, comportanti l'asportazione di enormi quantità di roccia,
venivano spesso aggirate con la pratica dei cavi a fondetto, vietati nei
contratti d'appalto ma poi praticati con frequenza. In sostanza si approfondiva
nella platea la coltivazione del filone estraendo soltanto il sasso alluminoso
senza effettuare il ribasso, producendo in tal modo fosse di varie dimensioni
poi dissimulate con materiale di spurgo (i cosiddetti fondetti morti).
Una discutibile strategia di coltivazione è la ragione che ha indotto
molti appaltatori a moltiplicare, soprattutto nel XVI e nel XVIII secolo,
i tasti per l'apertura di nuove cave, oppure a ridursi alla ricerca di
nuovi filoni nelle cave già aperte: le trovavano comunque pericolose
per i lavoranti e costose da amministrare, in quanto sgrottate nella parete
e sfondettate nella platea. L'assenza di una strategia estrattiva ragionata
contribuì in parte alla crisi dell'impresa già alla metà
del XVII secolo, nonostante i progressi raggiunti nella fase di trasformazione
del prodotto; la ripresa coincise con le innovazioni introdotte da Fortunato
Gangalandi, che legherà il proprio nome alla cava denominata in
precedenza Cavaccia, nella prima metà del XVIII secolo.
Migliori risultati si raggiunsero anche con la sperimentazione di nuove
tecniche estrattive: già alla fine del Settecento veniva praticato
lo scavo a cunicolo alla base del fronte di cava o comunque a seguire
il filone; tecnica certamente mediata dall'esperienza maturata nel settore
dei metalli.
Si conseguì, però, l'effetto di introdurre una tecnica mista:
le cave rimasero a cielo aperto e tali pratiche furono fortemente criticate
dagli architetti camerali ancora agli inizi del XIX secolo. Sarà
soltanto a partire dal 1854 che si sperimenterà la coltivazione
in galleria, perfezionata successivamente sotto la direzione dell'ing.
Paolino Masi nel 1856. La nuova strategia di scavo produrrà un
incremento della produzione e verrà largamente praticata tra la
fine del XIX e la prima metà di questo secolo.
C) GLI ALTRI MINERALI.
***
1. PRIME TESTIMONIANZE DELLO SFRUTTAMENTO MINERARIO NEL MEDIOEVO: LA ROCCA
DI FERRARIA.Dopo aver parlato dello sfruttamento industriale dell'alluminite,
che si sviluppò con esiti alternativi per alcuni secoli e a cui
si deve l'importanza storica dei monti della Tolfa, analizzeremo ora le
vicende che interessano l'estrazione e lo sfruttamento di una lunga serie
di altri minerali; in particolare ferro e piombo (316).
Tali attività, infatti, a differenza di quella dell'allume, che
ha lasciato una straordinaria documentazione descrittiva, contabile e
cartografica nei documenti della Camera Apostolica (oggi conservati presso
l'Archivio di Stato di Roma, fondo Camerale III) e negli studi eseguiti
da insigni studiosi, primo tra tutti Delumeau, è poco conosciuta,
appena studiata e poco valorizzata sebbene sia testimoniata da un cospicuo
numero di documenti. Questi dimostrano come tale coltivazione si sviluppò
precedentemente a quella alluminifera e prosegui, con fasi alterne, fino
all'età moderna dando spesso risultati non trascurabili. Di certo
la rilevanza storica di questa attività fu offuscata da quella
più imponente e più importante dell'allume.
La prima esplicita menzione di una presunta attività estrattiva
del ferro, riconducibile con buona probabilità all'area tolfetana, risale al 1173 (317). Il documento
in questione, testimoniato dal Muratori, riporta il contenuto di un'alleanza
politico-economica stipulata tra la repubblica Marinara di Pisa ed il
neo Comune di Corneto (318). Nel
documento è espressamente detto: "Devetum non facemus nec
constrictum alicui homini, Cornietum ire volenti, excepto de vena ferri.",
ciò significa che i pisani non ponevano ostacoli a chi avesse voluto
commerciare con Corneto ad esclusione della vena di ferro, che probabilmente
corrispondeva ad una miniera di ferro. Tale coltivazione apparteneva evidentemente
al comune di Corneto, il quale si riservava l'estrazione e la commercializzazione
del prodotto. Il documento non ci fornisce nessun'altra notizia relativa
a questa vena né riporta alcun riferimento topografico; per questo
risulta alquanto difficile identificare i luoghi dove avveniva quest'attività
estrattiva. Vista, però, l'importanza che potrebbe avere per il
nostro studio l'identificazione della località, si cercherà,
con l'aiuto delle notizie a nostra disposizione, di delimitare il più
precisamente possibile l'area di ricerca.
Secondo quanto scritto da diversi studiosi, gran parte dei monti della
Tolfa, con il relativo bacino minerario, appartenevano sin dall'epoca
Etrusca alla giurisdizione di Tarquinia-Corneto. Il Dasti (319) afferma che il territorio appartenente alla potente lucumonia di Tarquinia
si estendeva dal fiume Fiora fino all'attuale territorio di Santa Marinella.
Il Bastianelli (320), che grosso
modo sì associa al Dasti, propone quale confine tra Cere e Tarquinia
il fosso del Marangone, che segnava, così, il limite naturale tra
i territori dei due importanti centri etruschi. Entrambi gli autori, quindi,
concordano nell'assegnare a Tarquinia gran parte del bacino minerario
comprendendo il "Campaccio", prossimo all'attuale Farnesiana,
"Pian Ceraso" e soprattutto il bacino de la "Roccaccia"
(Ferraria). Ancora più certa sembra la presenza politica e territoriale
del comune di Corneto sul territorio in questione in epoca medioevale.
E' sufficiente sfogliare le pagine dell'importante "Margarita Cornetana"
per osservare come molti degli insediamenti situati nel territorio tolfetano
fossero sottoposti alla giurisdizione di questo comune (321);
in particolare Tolfa Vecchia, Monte Monastero, Sant'Arcangelo, Rota. Un'ulteriore
riprova di questo stato di cose è il documento del 1461, di cui
si è ampiamente parlato nella trattazione delle vicende dell'allume,
nel quale il comune di Corneto partecipa alla divisione degli utili provenienti
dall'estrazione dell'allume e "... aliis mineris et metallis diversis...
", insieme alla Camera Apostolica e a Giovanni da Castro. Come già
abbiamo avuto modo di dimostrare precedentemente parlando dell'allume,
la presenza di Corneto è spiegabile con il fatto che questa attività
estrattiva si svolgeva in territorio sottoposto alla sua giurisdizione.
E' interessante notare come il contratto del 1461 prevedeva non solo l'estrazione
dell'allume ma anche di altri minerali e metalli. Si ricollega a questo
discorso la testimonianza riportata dal Polidori in cui veniva concessa
a Giovanni da Castro la possibilità " non solo di l'edifìttio
per l'alume, ma anco di edificar forno di vena di ferro... "(322).
Sarà la stessa vena di ferro citata nel documento del 1173 ? Non
siamo in grado di dare una risposta certa a questa domanda. E' interessante
notare come l'attività fusoria sia archeologicamente documentata
in questa zona; scorie di fusione sono tutt'ora recuperabili alla Farnesiana,
a Cencelle, nella piana del Mignone e nei pressi del Casalaccio. Ma le
prime testimonianze certe relative all'estrazione e la lavorazione del
ferro sui monti della Tolfa si hanno con l'insediamento medioevale di
Ferraria.
Della rocca di Ferraria, oggi quasi totalmente distrutta, restano le rovine
di una torre, probabilmente a pianta quadrata, di cui è ancora
visibile un lato largo circa 5 metri e alto circa 13 metri, costruito
con pietra locale. E' interessante notare come dai calcinacci di un recente
crollo di una parte della torre è stata recuperata una scoria di
fusione. Altre strutture, probabilmente a destinazione abitativa, sono
individuabili alle pendici del colle. Di recente è stato riportato
alla luce il perimetro di una chiesa e i fregi del portale (323).
Il "castrum" di Ferraria si trovava a sud-ovest rispetto agli
attuali paesi di Tolfa e Allumiere, su un colle oggi denominato "Roccaccia".
Con molta probabilità doveva il suo nome all'attività che
qui si svolgeva e per la quale fu costruito: lo sfruttamento e la lavorazione
del ferro. Dall'alto del suo colle (circa 385 m. s.l.m.) il "castrum"
di Ferraria doveva controllare l'intera valle del Marangone dove si trovava,
e si trova tuttora, uno dei distretti minerari più ricchi della
zona, specialmente per ciò che riguarda il ferro. Riportiamo a
conferma di ciò le parole del Lotti: "..l'affioramento principale
della Roccaccia é costituito da una grossa amigdala di limonite
ed ematite (324) presso il contatto
fra grossi banchi di calcare al tetto e scisti alterati al letto. In alcuni
punti è manifesta la sostituzione chimico-molecolare del minerale
di ferro al calcare.
Nel fosso delle Carriole, sul lato opposto della stessa collina della
Roccaccia, vedesi affiorare un 'altra massa ferrifera che per la sua posizione
si direbbe in connessione con la precedente "(325).
La posizione strategica della "Roccaccia" dovette favorire verosimilmente
la sua frequentazione sin dall'antichità. Sono stati infatti rinvenuti
reperti archeologici che testimoniano una presenza continua dall'epoca
antica fino a tutto il Medioevo (326).
Il primo documento in cui è espressamente nominata la rocca di
Ferraria è il testamento nuncupativo del cardinale diacono di S.
Maria in Cosmedin Giacomo Savelli futuro papa Onorio IV (1285-1287) risalente
al 24 febbraio 1279 (327). Nel testamento,
che nomina come eredi il fratello Pandolfo Savelli ed il nipote Luca,
è detto: "... item habemus in partibus Tuscie, Tuscanelle
et Viterbiensis Diocesis, tres partes Castri Ferrariae... ". Qualche
anno più tardi il 5 luglio 1285, pochi mesi dopo essere stato eletto
papa, Giacomo Savelli confermò il testamento del 1279. Nel documento
è scritto: "... duos partes Scrofano cum castro suo ferrarie...
"(328), a dimostrazione che
Giacomo fosse nel frattempo divenuto unico proprietario del castello.
E' da rilevare che in quel periodo i Savelli erano presenti in questo
comprensorio in posizione preminente. Ritroviamo, infatti, Pandulfo de
Sabello nipote di Giacomo (Onorio IV), quale Rettore in Corneto (329).
Da queste prime notizie non si riesce ancora a localizzare precisamente
la posizione di Ferraria, si capisce, però, che la rocca si trovava
nelle parti della Tuscia, nella diocesi di Viterbo-Tuscania.
La conferma di tale ipotesi è rappresentata dal Rendiconto della
Decima sessennale, 1274-1280, "pro Terre Sancte subsidio ",
ossia la prima raccolta di denaro, regolarmente organizzata dallo Stato
Pontificio, per finanziare la Crociata. In tale rendiconto viene appunto
elencata anche la chiesa di Ferraria , tra quelle sottoposte alla diocesi
di Viterbo: "... item in cippo ecclesie de ferrari nihil, quia fractum"(330). Il documento ci informa che
in quel borgo minerario esisteva una chiesa, entro la quale era stato
posto un cippo per la raccolta delle decime, ma che in occasione della
venuta del sub-collettore, nel giugno 1279, non fu possibile riscuotere
nulla in quanto fu trovato rotto e senza alcuna offerta. Probabilmente
il fatto preludeva ad una lenta decadenza del centro e ad un suo momentaneo
abbandono che dovette avere però breve durata, visto che i reperti
ritrovati lungo le pendici del castro documentano una continuità
di vita anche nei secoli successivi, il XIV ed il XV.
Il Signorelli (331) ci informa che
nel 1287 il vescovo di Nepi, nativo di Corneto, nella sua qualità
di vicario spirituale del Patrimonio, delegò il preposto di S.
Biagio di Corneto quale commissario nei castelli di Corneto, Montalto,
Centocelle, Civitavecchia, Tolfa Vecchia, Tolfa Nuova, Ferraria e Tarquinia
per risolvere una lite riguardante il convento della trinità di
Viterbo.
Il XIV sec. si apre con un'interessante notizia. Il 1 settembre 1308 il
comune di Corneto riacquista da alcuni nobili veneziani i diritti sulle
gabelle del sale e "della vena di ferro di Corneto "(332) che in precedenza erano stati acquistati dai seguenti veneziani: Ottolino
Rosso, Pietro e Andrea Zeno, Filippo Cornaro, Francesco Della Scala e
altri soci. Anche in questo documento non è precisato dove si trovasse
la vena di ferro: potrebbe essere la stessa già citata nel 1173
e allora la ricerca andrebbe indirizzata nei dintorni della Farnesiana
o di Corneto; come pure è probabile che sia una vena di ferro posta
nella zona di Ferraria, centro sorto appunto per la lavorazione di questo
minerale. E' certo comunque che il documento suggerisce una notevole commercializzazione
del ferro tanto da interessare mercanti veneziani.
La certezza della posizione topografica di Ferraria è data dal
contenuto di una sentenza emessa il 24 giugno 1319 dai senatori romani
Pietro e Giacomo Savelli in riferimento ad una disputa nata tra la Camera
Urbana e un nobile romano Francesco Gavellutis per dei fondi che quest'ultimo
possedeva a sinistra del fiume Mignone comprendenti la Torre d'Orlando
e la Torre di Bertaldo. Nel documento sono riportati i seguenti confini:
"... ab uno latere tenimentum Civitate Vetula, ab alio tenimentum
castri Ferrarie, ab alio tenimentum Centumcellarum, ab allo tenimentum
Corneti, ab alio est mare”(333).
Per tutto il XIV secolo non abbiamo altre notizie riguardo a Ferraria;
si può, comunque, ipotizzare una continuità abitativa della
rocca, che sarà legata alla famiglia dei Prefetti Di Vico così
come è avvenuto per Civitavecchia e Tolfa Nuova. In tal caso si
spiegherebbe la notizia del 1380 secondo la quale Francesco Di Vico inviò
delle bombarde alla Repubblica di Venezia convalidando i sopra esposti
rapporti commerciali. (334)
Altre notizie di un certo interesse relative al castrum di Ferraria le
troviamo nel Registro del sale e del focatico pubblicato dal Toinassetti (335). In tale registro, che secondo
l'autore risale al XIV secolo, Ferraria è tassata per 5 rubbie
semestrali (10 annuali), gli altri centri della zona sono tassati Tolfa
Nuova per 30 rubbie semestrali, Tolfa Vecchia per 15. Nel registro del
1446-1447 (336) Ferraria risulta
tassata per 10 rubbie semestrali mentre per le altre località le
cose rimangono invariate. Indubbiamente questo aumento del consumo del
sale e conseguentemente della popolazione che .gravitava attorno a Ferrarla,
può essere giustificato soltanto con una ripresa o un aumento dell'attività
mineraria.
Con l'inizio del XV secolo si ha, per la prima volta, la comparsa degli
Orsini sui monti della Tolfa. Giovanni XXIII, infatti, in pieno scisma,
infeudò Giovanni Orsini del Vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria,
Monte Castagno e Valle Marina (337).
Da questo momento in poi le sorti di Ferraria saranno legate a quelle
di Tolfa Nuova che diventerà il centro più importante del
nuovo feudo.
Ci sembra giusto a questo punto fare una considerazione. Sebbene non possediamo
documentazione scritta che lo confermi, si può, con una certa ragione,
pensare che già prima dell'infeudazione del 1410 il castello di
Ferraria gravitasse nell'orbita dell'altro centro, più importante,
di Tolfa Nuova, che per densità demografica e per estensione del
territorio che amministrava non poteva non avere determinato una giurisdizione
e un controllo su Ferraria. Si spiegherebbe così il costante interesse
dei signori del tempo, in particolare dei Di Vico, per il controllo di
Tolfa Nuova che veniva ad avere una certa importanza economica, dovuta,
principalmente, al controllo del bacino minerario e delle sue ricchezze
che essa esercitava. Si spiegherebbe ancora perché fino al momento
della sua distruzione Tolfa Nuova ebbe una preponderanza demografica e
territoriale sul vicino centro di Tolfa Vecchia, il quale acquistò
prestigio e importanza soltanto dopo l'avvio dell'impresa dell'allume
e il conseguente spostamento a nord del baricentro dell'interesse economico.
L'analisi appena svolta, attenta alle prime notizie relative all'estrazione
e alla lavorazione del ferro nel Medioevo e ai primi documenti sul "castrum"
di Ferraria, è importante in quanto fornisce interessanti risposte
al problema dello sfruttamento delle risorse metallifere prima dell'avvio
dell'industria dell'allume. Dimostra, infatti, che ancor prima che la
grande macchina dell'allume si mettesse in moto, era già in atto,
sulle colline tolfetane, un processo di sfruttamento delle risorse minerarie
che condizionò la vita di quei luoghi e favorì la nascita
e l'affermazione di alcuni centri situati in posizione strategica rispetto
al bacino minerario.2. FERRARIA: DA CENTRO MINERARIO A TENUTA SILVO-PASTORALE.Come si è brevemente accennato in precedenza,
l'inizio del XV secolo segnò per la rocca di Ferraria una svolta
storica importante. Il provvedimento adottato da Giovanni XXIII (1410-1415)
portò alla creazione di un feudo unico che riuniva: Tolfa Nuova,
Ferraria, Monte Castagno, Valle Marina. Tale feudo fu assegnato a Giovanni
Orsini, figlio di Francesco, che aveva sposato una parente del papa e
che sarà padre di quel Francesco Orsini creato prefetto nel 1435
e fondatore del ramo di Gravina (338).
Da questo momento in poi Ferraria sarà direttamente assoggettata
alla più importante rocca dì Tolfa Nuova, che diventerà
il centro predominante all'interno del feudo.
Nonostante l'aumento del consumo del sale, che si ebbe nella prima metà
del Quattrocento, causato forse dall'incremento demografico dovuto alla
ripresa dell'attività estrattiva (339),
il destino di Ferraria, così come quello di tutti i centri che
avevano una qualche vocazione mineraria, sarà ben presto segnato
dall'imponente ascesa dell'industria alluminifera. Quest'ultima, grazie
ai grandi profitti che produrrà, attrarrà verso di sé
ogni tipo di interesse, tanto che le altre attività minerarie passeranno
praticamente inosservate.
Sicuramente la coltivazione del ferro e degli altri minerali proseguirono
anche dopo l'apertura delle cave di allume. Si può però
ipotizzare uno spostamento di tale attività verso zone più
accessibili e più convenienti; magari più vicine alle cave
di allume. Sembrerebbe questo il caso riportato dal Polidori (340) in cui Giovanni da Castro ottenne facoltà di costruire un forno
per lo sfruttamento di una vena di ferro situata nei pressi delle cave
d'allume, nella località ora chiamata "Campaccio", nelle
vicinanze della Farnesiana.
Ritornando alle notizie riguardanti il "castrum" di Ferraria, la documentazione riprende sul finire del XV secolo. Le diverse testimonianze
a noi pervenute, hanno in comune la caratteristica di essere tutte conferme
del vicariato fatte dai vari pontefici ai rappresentanti della famiglia
Orsini (341). Nel 1484 Innocenzo
VIII (342) confermò il vicariato
di Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno e Valle Marina per metà
a Raimondo Orsini che aveva venduto l'altra metà all'ospedale S.
Spirito in Sassia. Ritroviamo di nuovo Ferraria nel 1492, quando Alessandro
VI confermò di nuovo iI feudo di Tolfa Nuova, Monte Castagno, Ferraria
e Valle Marina a Francesco Orsini, duca di Gravina, "pro se et successoribus
in perpetua sub annuo censo consueto "(343).
Altra conferma agli Orsini fu fatta da Giulio II nel 1504 (344).
L'ultima notizia riguardante il castrum di Ferraria risale al 1513, anno
in cui Leone X confermò la metà del vicariato di Tolfa Nuova,
Monte Castagno. Valle Marina e Ferraria a Ferdinando Orsini e fratelli,
alle stesse condizioni imposte da Alessandro VI (345).
Bisogna aggiungere però, che ormai le rocche suddette non esistevano
quasi più. Il castello di Tolfa Nuova era stato distrutto nel 1471
e gli altri avevano seguito la stessa sorte. Da questo momento in poi
Ferraria perderà la sua vocazione mineraria trasformandosi in tenuta
destinata principalmente all'allevamento.
Nel capitolo per l'appalto dell'allume del 1578, concesso dalle autorità
camerali a Bernardo Olgiati e G. Francesco Ridolfi, tra l'altro è
scritto: "Il Perché nel carreggiar li Allumi a Civita Vecchia
ci é bisogno della tenuta di Ferrara a commodità della posta
delli Bufali promette la detta Camera che il Dohaniero pro tempore delle
pecore consegnerà ogni anno alli Appaltatori detta tenuta per il
prezzo che li Grimaldi & moderni Appaltatori l'hanno continuamente
havuta havendone però essi bisogno per tal uso"(346).
Ferraria si era trasformata in tenuta agricolo-pastorale usata dagli appaltatori
delle allumiere per far sostare gli animali utilizzati per il trasporto
dell'allume a Civitavecchia. Un'ulteriore conferma della riduzione a tenuta
agricolo-pastorale di Ferraria la troviamo nella Costituzione emanata
nel 1580 da Gregorio XIII. Tra i luoghi che componevano la dogana delle
vacche e delle pecore nella provincia del Patrimonio figurano: "Ferrara
di vacche" e "Ferrara di pecore"(347).
Altre testimonianze in questo senso le ritroviamo anche nei secoli successivi
quando il territorio di Ferraria continuò ad essere sfruttato per
fini pastorizi ed agricoli, perdendo così definitivamente quella
vocazione mineraria che era stata, quasi certamente, la causa principale
della costruzione del castrum (348).
A conclusione del discorso sul "castrum" di Ferraria vogliamo
riportare alcune notizie relative agli altri centri che fecero parte del
feudo di Tolfa Nuova e che ebbero, sicuramente, qualche legame con l'attività
estrattiva: Monte Castagno e Valle Marina.
Il primo documento in cui è espressamente nominato Monte Castagno risale al 1334 ed è conservato nella Biblioteca Vaticana. Il documento
ci informa che "Castri Montis Castanee" è uno dei confini
del Castello del Sasso "... a quarto tenimentum Castri Montis Castanee..”.(349)
Nell'atto di vendita del "castrum Carcari" del 1348 è
riportato di nuovo Monte Castagno che confinava a nord con i feudi di
Tolfa Vecchia e Rota, a sud con quelli di Carcari e del Sasso, a ovest
con quello dí Tolfa Nuova ed a est con la chiesa medievale del
Ferrone (ignorata dai documenti). Monte Castagno è quindi identificabile
topograficamente con l'omonimo colle, localmente denominato "il Castellaccio".
La sua vicinanza al Castrum di Ferraria e Valle Marina, fa presumere che
il centro fosse parte integrante del bacino minerario; forse anche questa
fortezza, come quella di Ferraria, era nata con la funzione di controllo
delle ricchezze minerarie. Dopo la costituzione del feudo di Tolfa Nuova,
Monte Castagno seguì le stesse sorti degli altri centri. Così
come Tolfa Nuova e Ferraria, con la nascita e lo sviluppo dell'industria
alluminifera conobbero un repentino declino, anche Monte Castagno decadde
riducendosi a tenuta agricola.
Valle Marina (350), nominata nell'infeudazione
agli Orsini, doveva essere una considerevole tenuta appartenente a Tolfa
Nuova, della quale seguì le sorti. Può essere identificata
con l'attuale "Valle Cardosa" dove si trovano antiche strutture
e i resti di una strada antica, probabilmente romana, che univa l'antica
Pyrgi (S. Severa) con i monti della Tolfa.
3. LA RICERCA DEI MINERALI METALLICI NEL XV SECOLO.
Abbiamo avuto modo di parlare ampiamente del contratto
del 1461 in cui, oltre alla regolamentazione dell'estrazione dell'allume,
si regolamentava l'estrazione di ogni altro minerale e metallo che si
potesse rinvenire sia nel territorio di Corneto che in quello della Chiesa
di Roma. Contemporaneamente a questo documento abbiamo un'altra testimonianza,
molto interessante, lasciataci da un cronista dell'epoca: il grammatico
Gaspare da Verona. Nell'opera "De gestis Pauli Secundi"(351) l'autore narra le vicende accadute durante il suo soggiorno sui monti
della Tolfa nell'anno 1461, cioè contemporaneamente alla ratifica
del primo contratto dell'allume.
"Pauloque post cum audisset Gaspar Veronensis a Ludovico domino Tulfae,
illic est quaedam signa minerarum auri atque argenti, factus est Ludovicos
Gasparis compater et ambo ex urbe abierunt Tulfam et coepit Gaspar effodere
et apertissime invenit vestigia quaedam optimorum metallorum una cum Johanne
Jurdi catalano, qui siculus dicitur, perspicacissimo in his rebus magistro
et artifice et aurifabro incomparabili, qui hoc tempore una cum Paolo
Romano affabre fabricatopera summi Pontificis, et vasa et mitras et tallla;
cuius, de Johanne Loquor, integritas praeterit omnem cuiusque viri bonitatem,
et in his rebus parem iudicio meo nusquam habet. Effecit autem grandem
cavum in monte Gaspar Veronensis, ubi miras mineras (sic enim appellant)
invenit. Inde prosequti sunt nomine pontificum, praesertim pontificis
Pauli Secundi, effoderunt semperque melius et utilius inverunt inventumque
iri creduntur atque sperantur "(352).
In sostanza mentre Giovanni da Castro e la Camera Apostolica regolamentavano
l'attività estrattiva, il Veronese soggiornava a Tolfa Vecchia
per eseguire esplorazioni e scavi sui monti alla ricerca di facili guadagni.
Il Veronese riporta, tra l'altro, che all'epoca Tolfa Vecchia era posseduta
da due fratelli Ludovico e Pietro "optimi viri" che avevano
dotato il paese delle mura "qui prius, incultus, informis, rusticanus
sine mure fuit"; che il merito della "scoperta" dell'allume
andava anche all'astrologo Domenico Zaccaria che, non riconosciuto da
Pio II, fu gratificato da Paolo II; che i proventi dell'industria ammontavano
a 80.000 ducati all'anno.
Da questo momento in poi si susseguirono numerosi tentativi di ricerca
di minerali, specialmente preziosi (oro, argento, piombo), autorizzati
dalla Camera Apostolica che cercherà così di reperire materia
prima indispensabile per la zecca di Roma. Ai fatti di cui si sta parlando,
alludono, sicuramente, i versi del Campano riprodotti nei "Commentari"
di Pio II che qui riportiamo:"Esse tuos coelos tantum qui dixerit errat Deque
Pii longe fallitur imperio
Ipsa etiam tellus quod habet tibi contulit et se
Praebuit eruptis prodiga visceribus
Parte alia raucum aes aliaque excussit alumen
Datque alio argentum tertia vena loco Abdita telluris grembo haec latuere
tot annos
Et soli domino nunc patuere suo
Tu quod nunc auri restat, ditissima tellus, Ne furti rea sis, hoc quoque
redde Pio"(353) .Durante il pontificato del veneziano Paolo II proseguirono
le ricerche dei minerali preziosi e degli altri metalli, specialmente
da parte di personaggi provenienti dal Veneto.
Nel 1466 Paolo Hogueben, cittadino di Venezia, venne nominato "Primo
Generale Maestro Governatore e Direttore delle miniere pontificie"(354). L'anno successivo, il 26
gennaio 1467, furono dettati i capitoli della convenzione per lo sfruttamento
di tutte le miniere d'oro, argento e altri minerali presenti nelle terre
soggette alla Chiesa. Dal contenuto di questi capitoli sembra che le autorità
camerali dovessero contare molto sull'abilità tecnica e sulla fama
di esperto, in materia estrattiva, dell'Hogueben. Gli attribuirono, infatti,
il potere di designare il suo successore, di ingaggiare i maestri e gli
operai necessari per le opere di estrazione e trattamento dei minerali,
di costruire gli edifici atti ad ospitarli, di prendere in qualsiasi luogo,
senza nessun pagamento di dazi o tributi, il grano necessario al loro
sostentamento. Purtroppo non abbiamo notizie sui risultati ottenuti dall'operato
dell'Hogueben.
Nello stesso anno in cui era avvenuta la nomina di Paolo Hogueben, il
17 maggio 1466, sappiamo che un certo "Iohanne de Bosnia, magister
et inventor minerarum " riceveva dalla Camera Apostolica una sovvenzione
di 4 ducati e che nel febbraio 1468 allo stesso Giovanni venivano saldati
i conti "pro totali satisfactione et integro residuo et solutione
omnium suarum operarum circa mineras seufodinas argenti' (355).
Il 17 maggio 1467 la Camera Apostolica pagava 30 fiorini a Francesco di
Venezia "... de mandato s. d. n. pape misso ad minerias novas argenti
"(356). Come Giovanni di Bosnia,
così Francesco di Venezia, (357) che nel frattempo era stato nominato commissario delle miniere di argento,
terminava la sua opera nell'aprile del 1468, quando venne saldato il suo
credito dalla Camera Apostolica.
Pare che nel 1468 fossero svanite, per il momento, le speranze di facili
guadagni derivanti dallo sfruttamento dei minerali preziosi, specialmente
l'argento. Ma i tentativi si rinnovarono pochi anni dopo quando Sisto
IV, seguendo le orme del suo predecessore, intraprese ed intensificò
le ricerche minerarie. Il 10 novembre 1471 il papa concedeva a Stefano
di Antonio Alani, cittadino romano e suo familiare, piena facoltà
"faciendi, laborandi, cavandi et edificia ibidem, quae ad tuum opus
necessaria duxeris, costruendi"(358) in tutte le terre soggette alla Chiesa e lo nominava commissario delle
miniere d'oro, d'argento e di altri minerali.
Un'ulteriore concessione fu rilasciata dalle autorità camerali
il 6 settembre 1473. Questa volta non si trattava di un singolo cittadino
ma di una società costituita da italiani e stranieri. Facevano
parte di detta società Giacomo Taruga, nei documenti chiamato "purificator
metallorum ", che doveva essere il tecnico minerario, Pietro di Cordova
e Goffredo Marturel, che dovevano fornire i capitali necessari, e un certo
Giovanni Sartori familiare del papa. (359) La concessione quarantennale conferiva alla società la facoltà
di ricercare nel Patrimonio soggetto alla Chiesa oro, argento, rame, piombo,
stagno ecc. Altri capitoli dovevano completare il testo dell'accordo che
purtroppo è arrivato a noi incompleto. Per quanto riguarda i risultati
ottenuti dalle ricerche anche in questo caso non abbiamo notizie. E' però
certo che né i privati, né il governo si vollero arrendere
alle difficili ricerche. Prova ne è che soltanto due anni dopo,
il 13 gennaio 1475, la Camera Apostolica concedeva licenza a Giovanni
Damiano di Messina e ad Antonio Colamaterloni di Terracina di ricercare
in tutto il territorio sottoposto alla Chiesa oro, argento, piombo e ogni
altro metallo. Questa volta, però, la durata della concessione
fu ridotta a due anni, durante i quali i soci dovevano corrispondere alla
Camera Apostolica metà del minerale scoperto. La breve durata della
licenza, rispetto a quelle precedentemente ricordate, si spiega con il
fatto che quest'ultima aveva come unico scopo quello della segnalazione
delle vene rinvenute, senza prevedere alcuna opera di sfruttamento. Una
licenza simile fu concessa, sempre nel 1475, a Giovanni Fernando Lopez
per ricercare, per un semestre, ogni vena d'oro, d'argento o d'altro metallo,
in tutto lo Stato Pontificio; senza nessun obbligo, salvo quello di presentare,
allo scadere dei sei mesi, un resoconto alla Camera Apostolica circa i
risultati ottenuti dalla sua ricerca (360).
Poco tempo dopo, il 18 marzo 1476, un abitante di Narnia (361),
un certo Nuccio di Risis, otteneva licenza quarantennale per ricercare
e sfruttare in tutto il territorio ecclesiastico miniere d'oro, d'argento,
piombo, stagno, ferro, vetriolo e altri metalli "ut bona que sub
terra sunt in lucem ad humanam comoditatem extrabantur"(362).
Un'altra licenza venne rilasciata il 28 marzo 1477 ai genovesi Cristoforo
di Rapallo, Domenico Alberto (commensale del papa Sisto IV) e a Mariano
Evangelista da Terni. La licenza era valida per due anni e dovette dare
qualche risultato se l'anno successivo, il 2 aprile 1478, fu rinnovata
per un altro biennio.
Ci si chiede, a questo punto, quali fossero le motivazioni che spinsero
la Camera Apostolica a concedere una così lunga serie di licenze
in un arco di anni così breve. Le risposte possono essere diverse.
In primo luogo va registrato il grande entusiasmo provocato dalla scoperta
delle ricchezze minerarie dei monti della Tolfa; scoperta che spinse molti
ricercatori, affascinati dalla possibilità di facili guadagni,
a ricercare ogni tipo di minerale. Va poi considerato l'interesse statale
verso la ricerca di. minerali, quali piombo e argento, dovuto alla necessità
di reperire la materia prima indispensabile per la zecca di Roma. Per
ultimo si può ipotizzare che il motivo per cui la Camera Apostolica
rilasciasse tante concessioni, va ricercato nel fatto che, molto spesso,
le ricerche non portavano ai risultati sperati a causa, forse, dell'incapacità
tecnica o dell'inesperienza dei ricercatori. Dovette essere stata quest'ultima
causa il motivo per cui il 10 marzo 1479 la Camera Apostolica si rivolgeva
alla perizia tecnica di Giovanni Klug di Friburgo nominandolo “primus
et generalis magister et ductor" di tutte le miniere dello Stato
Pontificio e in particolare della miniera "argenti et plumbi"
che si era cominciata a scavare da tempo "in locis proximis minere
aluminis s. cruciate "(363).
Quest'ultima notizia è molto interessante in quanto mostra chiaramente
che le miniere d'argento e piombo di cui si sta parlando si trovavano
nelle vicinanze delle miniere di allume della Santa Crociata, quindi nei
monti della Tolfa. E' questa un'ulteriore conferma, se ancora ce ne fosse
bisogno, del fatto che, parallelamente all'industria alluminifera, furono
portate avanti, nella regione tolfetana, attività estrattive di
altri minerali. Sarebbe molto interessante riuscire a localizzare le suddette
miniere, ma per il momento non abbiamo nessuna testimonianza che permetta
di farlo.
Il XV secolo si chiude con altri due documenti inerenti all'estrazione
degli altri minerali e metalli; uno porta la data del 20 maggio 1482 e
riguarda, la concessione perpetua rilasciata ad Alfonso di Carlo Gaetani
per la ricerca di qualsiasi minerale in prossimità forse di Corneto,
l'altro tratta della concessione rilasciata il 28 aprile 1484 a Giovanni
Ruspe de Ferberch di Misna per ricercare in tutto il territorio della
Chiesa oro, argento, piombo ed ogni altro metallo (364).
4. ATTIVITA' MINERARIA NEL XVI SECOLO.
Il XVI secolo si aprì con una licenza, datata
15 aprile 1510, rilasciata dalla Reverenda Camera Apostolica a Ottaviano
da Castro, nipote del più noto Giovanni, "scopritore"
dell'allume, e ai suoi eredi (365).
La concessione era perpetua e prevedeva la ricerca di ogni tipo di metallo
e minerale nel territorio appartenente alla Chiesa. Le autorità
camerali, precisa il documento, "... concesserunt ex consulta deliberatione
in Camera Apostolica (acta predicto licentiam et liberam facultatem auctoritatem
perquirendi et inveniendi et inventar fodiendi sive effodi omnes et singulas
speties minerarum et metallorum videlicet auri, argenti, aeris, stagni,
plumbi, ferri, antimonii, elettri, argenti vivi, sulphuri et colorum cuiuscumque
qualitatis, necnon lapidum videlicet marmoris, alabastri, haspidis et
ceterorum omnium et singulorum lapidum mineralium... "(366).
Ad Ottaviano e ai suoi successori venne concesso anche il diritto di segnare
tutti i prodotti con il loro stemma e con il marchio della Chiesa: le
chiavi decussate.
Il punto più importante del documento in questione è, probabilmente,
quello in cui è detto che il concessionario doveva denunciare e
descrivere le miniere scoperte qualora avesse pensato di metterle in efficienza.
Adempiuto all'obbligo della notifica egli poteva dare inizio, senza bisogno
di ulteriori licenze, alle attività minerarie. Nei primi due anni
di attività il concessionario doveva versare alla Camera la ventesima
parte, ossia il 5%, del prodotto lordo. Passato il biennio la parte spettante
alle autorità camerali aumentava al 10% e tale doveva restare in
perpetuo.
Due mesi dopo il rilascio della concessione, il 28 giugno 1510, Ottaviano
denunciò ben quattro miniere di una certa consistenza (367).
La prima era costituita da un giacimento di rame di ottima qualità,
misto ad oro e argento; si trovava nel territorio del Patrimonio era ignorata,
almeno come cava di rame, e ormai abbandonata. La presenza dell'argento
fa pensare che la cava si trovasse nel bacino minerario della Tolfa, dove,
come ha messo in evidenza lo Zippel (368),
venivano svolte attività minerarie atte allo sfruttamento di vene
argentifere. La seconda, anch'essa di rame, si trovava nei monti vicini
alle "Lumiere", quindi sui monti della Tolfa e più precisamente
nel luogo
. denominato "El pozo de la Stella"(369).
Nella terza miniera descritta nella relazione, situata anch'essa sui monti
della Tolfa, furono rinvenute pietre colorate volgarmente dette "azurro
". L'ultimo giacimento denunciato dal da Castro si trovava nel territorio
di Tolfa Vecchia, andando dal paese al mulino antico. Era costituito da
gessi lucidi e gessi normali (selenite). Oltre a notificare il ritrovamento
delle cave, Ottaviano presentò alle autorità camerati alcuni
campioni dei singoli minerali rinvenuti per provare la loro qualità
e rendimento.
Questa volta il da Castro poté dimostrare che le sue speranze erano
veramente fondate. Anzi si può ipotizzare che alla data dell'accordo
egli conoscesse già i giacimenti che appena due mesi dopo notificò
alla Camera Apostolica.
Dopo aver parlato del contenuto della concessione e delle notifiche dei
giacimenti fatte da Ottaviano, è bene precisare che mancano notizie
certe e dettagliate sui lavori estrattivi compiuti. Di certo possiamo
dedurre che l'attività portata avanti dal da Castro non fu infruttuosa
e infeconda se nel 1552, dopo più di un quarantennio, la Camera
Apostolica, nel concedere a Balduino de Monte fratello di Giulio III la
licenza per ricercare ogni specie di minerale nel territorio della Chiesa,
si preoccupava di tutelare i diritti acquisiti precedentemente da Ottaviano
e dai suoi eredi. Nel documento di concessione rilasciato a Balduino de
Monte è detto anche che Paolo da Castro, nipote di Ottaviano e
suo erede, aveva chiamato a collaborare nelle sue miniere il fiorentino
Bindo Altoviti (370).
E' interessante notare come, sfruttando la facoltà prevista dalla
concessione di Ottaviano di cedere ad altri la propria quota parte, Paolo
da Castro riuscì, con grande abilità, a trarre gran profitto
dalla concessione mineraria ereditata dalla zio Ottaviano. "Possit
idem D. Octavianus suique haeredes, et successores quandocumque vellent,
et ducerent opportunum assumere et nominare quotcumque et quoscumque socios,
et participes capitulorum facere quo ad utilitatem percipiendo, prout
in dictis capitulis"(371),
diceva il testo della concessione rilasciata ad Ottaviano e riconfermata
da Leone X. Sulla base di tale diritto Paolo cedette una quota a Ferrante,
Galeazzo, Fabio e Marco della famiglia Farnese, formando con loro una
compagnia che doveva sfruttare le risorse minerarie, soprattutto ferro
e vetriolo, nei territori di Giove, Farnese e Latera. La partecipazione
dei Farnese ai diritti di Paolo da Castro fu un vero affare per quest'ultimo.
Basti pensare che il prezzo della partecipazione pagato dai nuovi soci
fu nientemeno che il palazzo di Agostino Chigi, acquistato poco prima
dai Farnese e noto, ancora oggi, con il nome di Farnesina (372).
Un simile accordo sta a dimostrare che le possibilità minerarie
dello Stato Pontificio dovevano essere notevoli e anche gli utili derivanti
dalle attività estrattive non dovevano essere esigui, se i Farnese
furono disposti a pagare un prezzo così alto per un parziale diritto
di concessione mineraria relativa ad un territorio abbastanza limitato.
Ritornando alla concessione rilasciata il 5 dicembre 1552 a Baldovino
de Monte, sappiamo che qualche anno dopo, tra il 1552 e 1559, questo costituì
una società con Paolo da Castro. Dopo il tracollo finanziario di
Baldovino, il figlio Fabiano, nel tentativo di ricostruire il patrimonio
familiare, volle entrare nella società costituita da Paolo da Castro,
alla quale si aggiunsero, qualche tempo dopo, i fratelli Francesco, Fortunato
e Clemente Buccelleni di Brescia. Il 26 maggio 1565 Clemente Buccelleni
aprì una ferriera utilizzando il ferro dei monti della Tolfa. Così
riporta il Ponzi: "Un tal Clemente Buccileni, bresciano, abitante nel castello di Monterano ora diruto, padrone del forno posto in quel
territorio, nella contrada Le Perazzete, ove si cola la vena del ferro
della Tolfa, inaugurò la lavorazione alla presenza di un gran concorso
di gente, con una messa solenne e un gran pranzo, di cui tutti gl'invitati
restarono soddisfatti"(373).
Questa notizia è particolarmente importante in quanto permette
di arrivare ad alcune interessanti conclusioni. In primo luogo conferma
che alla metà del XVI secolo veniva praticata sui monti della Tolfa
l'estrazione del minerale ferroso. Attività che, come abbiamo già
avuto modo di affermare, si era spostata, dopo l'avvio dell'industria
dell'allume e la conseguente decadenza del vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria,
Monte Castagno e Valle Marina, dal tradizionale bacino minerario verso
nuove direzioni. Si ha poi l'ulteriore conferma del fatto che i monti
della Tolfa furono teatro, durante i secoli XV e XVI, di continue ricerche
minerarie che si affiancarono alla più nota impresa dell'allume.
In linea di massima si può notare come nel corso del XV secolo
le ricerche si indirizzarono in particolar modo verso quei minerali che
potremmo definire preziosi (oro, argento, ecc..) e che diedero vita a
quella che potremmo definire una vera e propria corsa all'oro. Nel secolo
successivo, invece, a causa del massiccio afflusso di metalli nobili provenienti
dal "nuovo mondo" e della conseguente discesa dei prezzi di
tali minerali, si avverte, su scala locale, una sostanziale diminuzione
delle ricerche. L'attenzione si diresse allora verso il ferro. Prova ne
è la notizia dell'apertura di una ferriera da parte di Clemente
Buccelleni che sfrutterà la vena di ferro della Tolfa.
Prima di proseguire nell'analisi dello sfruttamento delle risorse minerarie
in età moderna, ci sembra utile riportare un'ulteriore notizia,
risalente sempre al XVI secolo, degna di particolare attenzione. Come
era avvenuto nel secolo precedente, quando le supposte ricchezze del sottosuolo
avevano indotto esploratori e ricercatori a soggiornare nella regione
tolfetana con la speranza di facili guadagni, così anche durante
il XVI secolo furono molti i curiosi che vennero sui monti della Tolfa
alla ricerca di minerali, specialmente, preziosi. Tra questi troviamo
un ospite d'eccezione: Annibal Caro.
Un chierico della Camera Apostolica, monsignor Giovanni de' Gaddi (374) uomo colto e protettore di letterati, del quale Annibal Caro era segretario,
aveva deciso di unirsi ad un tale che, in possesso di licenza per scavare
presso Tolfa, prometteva grandi quantità d'argento e d'ogni tipo
di metallo. E' così che nell'ottobre 1532 troviamo Annibal Caro,
allora venticinquenne, al seguito del suo signore, in un viaggio esplorativo
durato a lungo e del quale dà notizia in una colorita lettera ai
familiari di lui: "Vassi ogni dì castrando montagne, ora quelle
di Castro, or questa de la Tolfa. Si fanno saggi sopra saggi. Non si parla
d'altro che di cave, di vene, di filoni, si disegnano spianate, tagliate,
magazzini; gran cose s'imprendono, grandi speranze ci si danno "(375). Il tema della frenetica ricerca
di materiali metallici ritorna anche nei versi che il giovane poeta inserisce
a chiusura della lettera, destinati a Giovan Boni, un amico fiorentino
che voleva notizie su Tolfa:La Tolfa è, Giovan Boni, una bicocca
Tra schegge e balze d'un petron ferrigno,
Ed ha `n cima al cucuzzol d'un macigno
Un pezzo di sfasciume d'una rocca.
Ora il piede or la mano mi si dinocca,
Mentre che nel cader mi raggavigno (376);
Che punto ch 'un traballi o vada arcigno
Si trova manco qualche dente in bocca.
In somma altro non c'è che grotte e spini,
E cave, e catapecchie, e rompicolli:
Domandatene pur Cecco Lupini.
Noi ci stiam per aver di quei catolli (377),
Da far de le patacche (378) e de
' fiorini,
Poiché tu con gli tuoi non ci satolli.
Capre, pecore e polli
Ci cacan per le vie fagiuoli e ceci,
E noi co' piè ne, facciam soldi e beci (379).(Tabella 2)
5. L'UTILIZZO DELLE RISORSE MINERARIE IN EPOCA
MODERNA: IL "DEFIZIO DEL PIOMBO" E IL "DEFIZIO DEL FERRO".
Dopo aver dimostrato, con buona attendibilità,
che le risorse minerarie dei monti della Tolfa furono oggetto di sfruttamento
in epoca precedente alla nascita dell'industria dell'allume e che la ricerca
e l'estrazione di tali risorse proseguì anche durante il periodo
di maggior splendore dell'impresa alluminifera, cercheremo ora di completare
il quadro relativo allo sfruttamento dei minerali metallici, specialmente
ferro e piombo, con una breve analisi delle vicende che si svolsero in
questa regione tra il XVII e il XIX secolo.
L'estrazione ferrifera del XVII secolo è attestata con due notizie.
La prima proviene da una lapide commemorativa rinvenuta in una vigna di
Monterano. Il testo, datato 1612, ci infornra che un tal Pietro Camporio,
Commendatore del S. Spirito, costruì un'officina ferraria nella
contrada di Monteranno (380). La
seconda è ripresa dal settecentesco manoscritto Buttaoni dove è
scritto: "Fin dal/'anno 1650 Fran.co Boschi della Tolfa (...) trovò
la miniera del ferro et avendo fatto una ferriera alla caduta del Callano (381), fosso ove si macerano li
lini, e le canape cominciò à lavorare e far uso della vena
trovata; et in oggi (il Buttaoni scriveva nel 1741) si vede in d.ta caduta
del Callano la fabbrica dirupata della d.ta ferriera, con un gran piano
di ferro, che serviva per incudine di d.ta ferriera, dalla quale anni
sono fu distaccata la piccola incudine superficiale di acciaro. Era in
quel tempo Governatore delle Lumiere un tal Grifoni, il quale udendo ben
incaminate le cose del ferro volle essere à parte in d.to negotio
con d.to Fran.co Boschi, dal quale essendo stato ricusato per compagno,
questo accusò in Camera d.to Fran.co Boschi come usurpatore delle
miniere, che spettano al Principe, essendo stata fatta tal cosa senza
licenza del principe, per il che fu carcerato d.to Fran.co Boschi, e condotto
à Roma, dove ebbe la città per carcere, et ivi morì
nell'anno 1659, e fu sepolto in S. Agostino, e la Feriera andò
in perditione, e non si pensò più alla vena di ferro”(382).
Questa notizia, ripresa anche dal Breislak (383),
ci fornisce varie informazioni, alcune delle quali sembrano degne di particolare
attenzione.
Innanzi tutto si può osservare come il forte interesse dimostrato
per questa impresa da parte del governatore delle lumiere, tal Grifoni,
dimostra che le cose non andavano poi così male per il Boschi;
anzi usando l'espressione contenuta nel manoscritto Buttaoni si può
asserire che erano "... ben incaminate le cose del ferro... ".
Lo stesso governatore tentò allora in tutti i modi di entrare a
far parte dell'impresa, ma non riuscendo nell'intento, denunciò
Francesco Boschi davanti alla Camera di essere un usurpatore delle miniere,
visto che aveva portato avanti i lavori senza la dovuta licenza. Per tale
accusa il Boschi fu condotto a Roma e carcerato, lì morì
nel 1659. Va aggiunto anche che l'impresa del Boschi è l'unica
portata avanti direttamente da un tolfetano.
Con la notizia del Boschi si esauriscono le testimonianze relative ai
tentativi di avviare delle ferriere nel territorio tolfetano nel XVII
secolo.5.1. Il "Delizio del Piombo".Il rilascio di concessione per la ricerca dei minerali
proseguì anche nel XVIII secolo. Nel 1732 fu autorizzato Stefano
Sauli della terra di Monadi e Faenza a scavare nelle montagne della Tolfa
"miniere d'oro, di argento, rame, piombo, ferro,(..) ed altri minerali'' (384). Come si può facilmente
notare era questa una concessione molto ampia di cui però non si
conoscono i risultati. Più tardi, sotto il pontificato di Clemente
XII, con atto stipulato in data 3 Ottobre 1739 (385),
fu rilasciata ad Alessio Mattioli da Camerino licenza per ricercare e
sfruttare tutti i minerali e metalli, allume e zolfo esclusi, nei monti
di Narni, della Tolfa e Guarcino. I nuovi tentativi di ricerca e sfruttamento
dei vari minerali, in particolare ferro e piombo, facevano parte di una
più ampia visione della ripresa estrattiva voluta da Clemente XII.
Il papa tentava così di sopperire alla mancanza di introiti derivanti
dall'industria alluminifera, in quel momento in piena crisi, con entrate
alternative e al tempo stesso sperava di tenere occupata tutta la forza
lavoro disponibile.
Il Mattioli, per garantirsi le necessarie disponibilità economiche,
costituì una società in cui entrarono a far parte i signori
Sacripanti, Ricci e Nicola Pierantoni. Ognuno dei soci doveva partecipare
alle spese in ragione di 25 scudi mensili. L'accordo stipulato tra il
Mattioli e le autorità pontificie prevedeva una serie di vincoli
per le due parti. Il governo si obbligava a far costruire gli edifici
necessari alle lavorazioni e trasformazioni del minerale, mentre il concessionario
si impegnava a versare nelle casse dello Stato il 5% degli utili. Le ricerche
eseguite dal Mattioli portarono al ritrovamento dell'antica miniera di
ferro di Pian Ceraso e, ancora più importante, alla riscoperta
di alcuni filoni di galena, minerale da cui si estrae il piombo, in località
"Pozzarelle". Nella primavera del 1743 il papa Benedetto XIV
fece venire a Tolfa Amedeo Bauer e Girgio Cristiano Ritter, minatori e
metallurgisti sassoni (386). Il
motivo per cui i due esperti furono chiamati era, almeno in principio,
quello di verificare la bontà delle scoperte fatte dal Mattioli.
Nel giro di poco tempo il Bauer e il Ritter si inserirono nella direzione
delle miniere venendo così a sostituire il Mattioli, che, privo
della fiducia del governo e delle disponibilità economiche garantite
in precedenza dai soci, decise di ritirarsi dall'impresa.
Da buoni maestri dell'arte mineraria, i sassoni eseguirono una serie di
ricerche in tutto il bacino minerario, con particolare attenzione alla
località "Poggio della Stella" praticando alcuni scavi
disegnati e descritti dall'architetto Francesco Navone nel 1774 (387).
Tra le iniziative intraprese dai due metallurgisti tedeschi, quella degna
di maggiore attenzione fu sicuramente la costruzione dell'edificio per
la lavorazione del piombo. Il "Defizio del Piombo", costruito
grazie all'intervento della Reverenda Camera Apostolica che sostenne le
spese occorrenti, è ancora oggi visibile, anche se tutto l'insieme
giace oramai in completo stato di abbandono, tanto che l'abbondante vegetazione
non permette l'accesso e la totale visione delle strutture.
Dopo l'abbandono del Mattioli i sassoni lavorarono presso le miniere di
"Pian Ceraso" poste di fronte alla chiesa di Cibona. Qui trovarono
della galena che rendeva il 50% di piombo. Fu allora che il governo chiamò
altri due sassoni destinandoli alla direzione della fonderia del "Defizio
del Piombo" con lo stipendio mensile di 25 scudi ciascuno. I risultati
ottenuti non furono, però, quelli sperati, tanto che si decise
di sospendere i lavori e di mettere le miniere all'incanto con la condizione
che l'acquirente avrebbe mantenuto i quattro sassoni al suo servizio.
All'asta non si presentò nessun acquirente. Il governo decise allora
di fare altri tentativi affidando la direzione delle lavorazioni di scavo
prima ad un certo Amadei, poi, nel 1751, al capitano Giulio Contini. Nello
stesso tempo vennero congedati i quattro sassoni che ormai non facevano
altro che litigare tra loro, mostrando una forte gelosia verso i nuovi
direttori (388). Anche questi tentativi,
come quelli precedenti, non portarono buoni risultati, tanto che tra il
1752 e il 1773 i lavori furono sospesi.
Nel 1773 ripresero i lavori ad opera dei fratelli Girodetti, d'origine
piemontese, ma anche in questo caso i risultati furono deludenti. Si decise
allora di mantenere in attività soltanto la "Cava Grande".
Nel gennaio 1779 fu concessa in appalto, per nove anni, la "Cava
Grande" a Filippo Stampa; per agevolarlo gli fu concesso dal Governo
un acconto di 3.000 scudi. Nonostante l'acconto lo Stampa, dopo 7 anni
di ricerche mineralogiche, rescisse il contratto, convinto di non trovare
la quantità di minerale necessario. Il Governo, dopo qualche altro
tentativo andato male, decise allora di chiudere definitivamente le miniere
di galena.
Le vicende appena esposte riguardano le cave di galena posizionate nel
bacino minerario tradizionale. A tutt'altra zona si riferisce la notizia
del 1757-1758 secondo cui i milanesi Carlo Ambrogio e Giuseppe Lepri,
già appaltatori delle miniere dall'allume, pagarono a Girolamo
Poezy 72 scudi per l'opera prestata in qualità di custode delle
cave di piombo (389). La notizia
è confermato dal conto dell'appalto Lepri del 1778, dove si dice
che i Lepri spesero 2.500 scudi per la lavorazione del piombo (390).
Appare quindi evidente come la famiglia Lepri, oltre ad occuparsi dell'estrazione
dell'allume, si occupò anche dell'estrazione della galena per la
produzione del piombo. E' probabile che i Lepri coltivassero la vena di
piombo che si trovava in località "Casalavio" di cui
ci lasciò testimonianza anche il Breislak: "... evvi in questo
luogo la caduta di un fosso copioso di acque, vi si sono fatti tre piccoli
edifizi per fondere la miniera del piombo, allorché si credé
di aver trovato un filone talmente ricco, che non bastasse al di lui lavorio
l'antica Fonderia "(391).
Concludiamo così il breve discorso relativo allo sfruttamento del
piombo nel XVIII secolo. Prima di passare alle vicende del secolo successivo
facciamo un piccolo passo indietro. Va ricordato che nella concessione
rilasciata al Mattioli nel 1739 era prevista anche l'estrazione del ferro.
Inizialmente il Mattioli se ne occupò, costatando una certa abbondanza
di ferro in diversi luoghi; successivamente decise di abbandonare tale
coltivazione ritenendo quella della galena più conveniente, Fu
allora la Camera Apostolica a condurre in proprio le .ricerche del ferro.
Furono eseguiti dei saggi su campioni ferriferi raccolti nei pressi della
miniera di Pian Ceraso (in località Pozzarelle), che però
non diedero risultati incoraggianti. Si pensò che la cattiva riuscita
delle prove fosse dovuta all'inesperienza degli addetti alla fonderia.
Si fecero venire dalla Sassonia due operai specializzati nelle lavorazioni
del minerale ferroso; questi arrivarono a Tolfa nel febbraio 1748, ma
già nel 1750 furono congedati e le miniere di ferro momentaneamente
abbandonate.
5.2. Il "Defizio del Ferro".
Con il XIX secolo si ritorna a parlare dello sfruttamento
del ferro. Fu infatti negli anni trenta di questo secolo che il marchese
Vincenzo Calabrini, a cui il papa Leone XII aveva affidato l'amministrazione
delle miniere dall'allume (392),
riprese ad occuparsi delle miniere metallifere, apportando alcuni miglioramenti
a quelle di ferro (foto) di "Pian Ceraso" che sembravano presentare
stupefacenti risultati. Evidentemente dallo sfruttamento del ferro ci
si aspettava molto. In effetti dall'inchiesta condotta dall'amministrazione
napoleonica nel 1809-1810, nel territorio laziale, risultò che
i più importanti giacimenti di ferro in attività si trovavano
a Tolfa e nella zona di Monteleone (393).
Un avvenimento degno di nota riguardante l'estrazione del ferro si ebbe
nel marzo 1841, quando fu rilasciata a Clemente Lovatti una concessione
per lo sfruttamento del ferro (394).
Cinque anni più tardi, il 16 gennaio 1846, la concessione fu ceduta
ai signori Benucci e Graziosi, che costituirono la Società Romana
delle Miniere di Ferro (395). La
nuova società costruì una serie di edifici che dovevano
servire per la lavorazione del minerale estratto e per l'espletamento
della gestione amministrativa dell'impresa. Tali strutture, che ancora
oggi resistono all'incuria delle genti e al trascorrere del tempo, pur
essendo ormai ridotti a reperti archeologici, furono edificate nei pressi
del fosso di "S. Lucia", nella valle sottostante la chiesa di
Cibona. Oltre ad un altoforno con stabilimento di fusione e agli edifici
destinati all'amministrazione dell'impresa, fu costruita una fornace per
mattoni refrattari ad uso proprio (396).
Nel 1847 la Società Romana delle Miniere di Ferro emanò
gli "statuti". Questi regolamentavano la gestione societaria
sia dal punto di vista economico, prevedendo un capitale sociale di 600.000
scudi diviso in 6.000 azioni al portatore, sia dal_punto di vista dell'attività
estrattiva che la società stessa doveva svolgere. Siamo di fronte
ad un esempio di organizzazione societaria che disciplinava l'attività
estrattiva a livello industriale con supporti ed investimenti privati. L'altoforno che funzionò abbastanza regolarmente per 29 anni produsse
da 300 a 1300 tonnellate di ghisa annue. Lo sfruttamento delle risorse
minerarie continuerà ancora nei secoli XIX e XX (397) producendo risultati alternanti.
Prima di concludere ci sembra giusto spiegare il motivo per cui la nostra
analisi, iniziata dall'antichità, si sia prolungata fino al XX
secolo, uscendo ampiamente fuori dai limiti cronologici del nostro studio.
Si è voluto dimostrare come l'attività mineraria abbia caratterizzato
e influenzato la storia di questi luoghi per un arco di tempo molto vasto.
Troppo spesso, infatti, si è parlato delle vicende storiche di
questa regione senza dare il giusto risalto all'importanza mineraria dei
monti della Tolfa. Importanza che, come abbiamo sufficientemente dimostrato,
non dipese soltanto dall'industria alluminifera, ma anche dalla coltivazione
di un cospicuo numero di "altri minerali".CONCLUSIONEA conclusione del nostro studio vorremmo riportare alcune
considerazioni degne di particolare interesse.
Innanzi tutto bisogna notare come parallelamente alla grande impresa alluminifera,
che darà gloria e prestigio a livello europeo alla regione tolfetana,
si svilupparono su questi colli una serie di attività estrattive
volte allo sfruttamento di tutte quelle ricchezze minerarie presenti nel
sottosuolo tolfetano, in particolare ferro, piombo, rame ecc..., che consentirono
lo sviluppo di un'economia alternativa fino ad oggi poco studiata e valorizzata.
Ancora più interessante è notare come in molti casi tali
attività si siano sviluppate precedentemente all'impresa dell'allume
a dimostrazione del fatto che lo sfruttamento delle ricchezze minerarie
sui monti della Tolfa era già in atto da tempo. Detto questo è
facile ipotizzare che diversi insediamenti, in particolare Tolfa Nuova
e Ferraria, furono costruiti proprio in funzione dello sfruttamento delle
risorse minerarie. Non a caso sia Tolfa Nuova che Ferraria sorsero in
posizione strategica rispetto al bacino minerario; non a caso nelle vicinanze
dei ruderi dei due centri sono ancora oggi visibili scavi e gallerie e
sono reperibili parecchie scorie di fusione che testimoniano la presenza
di attività di trasformazione e lavorazione del minerale estratto.
Di sicuro il tutto si svolgeva a livello artigianale senza mai raggiungere
quell'organizzazione industriale che, successivamente, fu propria dell'impresa
dell'allume.
Certo è che come l'industria dell'allume diede origine agli insediamenti
di Allumiere, La Bianca, la Farnesiana (qui si lavorava anche il ferro)
, così le attività estrattive degli "altri minerali"
condizionarono l'esistenza di diversi centri e favorirono la costruzione
di alcuni stabilimenti per la lavorazione dei minerali. Ricordiamo le
"ferriere" di fosso Caldano e Monterano, ma soprattutto ricordiamo
il "Defizio del ferro" e il "Defizio del Piombo" i
cui resti sono ancora oggi visibili. Da queste sommarie osservazioni è
possibile dedurre l'importanza storica delle risorse minerarie così
topograficamente estese sul territorio dei monti della Tolfa.
E' stato sufficientemente dimostrato che lo sfruttamento delle risorse
minerarie dei monti della Tolfa ha da sempre seguito l'uomo nelle sue
evoluzioni iniziando dalla Protostoria, proseguendo per tutto il corso
del Medioevo fino a raggiungere i primi decenni del nostro secolo. Tentare
di riconoscere le tracce di un'attività mineraria così antica
è pura utopia specialmente se si considera il fatto che ai giorni
nostri non siamo neppure in grado di riconoscere.i luoghi degli opifici
di quella che è stata la più grande industria europea del
Rinascimento, della quale sono visibili soltanto le cave a cielo aperto
ed alcune gallerie.
Prima di concludere vogliamo spendere qualche altra parola sull'importanza
dell'impresa alluminifera. Come è stato già ampiamente dimostrato
tale industria provocò nella regione tolfetana una serie di trasformazioni
che modificarono radicalmente il volto di queste zone. Tali cambiamenti
non riguardarono soltanto la morfologia del territorio, ma interessarono
anche l'economia, la vita sociale, l'organizzazione politica e molti altri
settori. In pochi decenni si ebbero mutazioni che nemmeno secoli e secoli
di storia avevano prodotto. Negli anni precedenti alla scoperta dell'allume
Tolfa era ancora completamente feudale, í pochi abitanti riuniti
intorno alla rocca vivevano chiusi nella loro realtà senza nessun
tipo di relazione con l'esterno. Il livello culturale era per la maggior
parte estremamente basso. Ognuno si accontentava di coltivare quel poco
che era necessario alla famiglia e allo scambio delle merci di prima necessità.
La scoperta del minerale alluminoso e il successivo sviluppo dell'industria
dell'allume spinsero i papi a sostituirsi ai feudatari e a concedere privilegi
a questa regione improvvisamente divenuta fonte di ricchezze mai sospettate.
L'impresa dell'allume portò un notevole benessere alla popolazione
tolfetana a cui fu richiesto di aumentare la produzione di cereali, verdura,
carne e vino per soddisfare le necessità dei numerosi operai addetti
alla lavorazione dell'allume. Gli stessi toifetani poterono trovare nell'industria
una buona opportunità di impiego. In particolare le loro bestie
da soma furono utilizzate per il trasporto del legname necessario al fuoco
delle fornaci e per il trasporto del materiale alluminoso. La venuta dei
numerosi operai spinse i pontefici a provvedere all'assistenza spirituale
di questi. La costruzione della chiesa della Sughera ad opera del Chigi
fece affluire una comunità di dotti religiosi agostiniani che,
predicando e insegnando, contribuirono non poco ad elevare il livello
culturale, morale e sociale del paese. Nella produzione si abbandonò
il sistema feudale per avviarsi verso un sistema più moderno. Produrre
non più solo per se stesso e per la cerchia di persone con le quali
si viveva, ma anche in vista di un guadagno, per realizzare una fortuna.
Tutto ciò favorì un considerevole miglioramento nel livello
di vita. I popolani cominciarono ad uscire dalla cerchia delle mura e
a costruirsi abitazioni più comode fuori di essa. Fu così
che il centro del paese venne a spostarsi nella zona tra la chiesa della
Sughera e la rocca. Bastano questi brevi cenni a mostrare l'impatto che
l'impresa dell'allume ebbe sull'intera regione tolfetana.
Scopo principale del nostro studio è stato quello di affermare,
ancora una volta, l'importanza storica delle attività minerarie
svoltesi nel comprensorio tolfetano; di dimostrare come lo sfruttamento
delle risorse del sottosuolo non si limitò al solo allume ma coinvolse
molti altri minerali che per la loro copiosità spinsero il Ponzi
a definire l'area in questione un vero e proprio "gabinetto mineralogico".APPENDICE n. 1Atto di sottomissione del conte Ugolino a Corneto.
1201 marzo 13 ind. IV, Tolfa Vecchia.
Il conte Ugolino, con il consenso della moglie Sofia e dei figli Rainone
e Rainuccio, sottomette ai consoli e al popolo di Corneto, Tolfa Vecchia
e Monte Monastero, ut a presenti die in antea hbeatis potestatem faciendi
guerram et pacem contra omnes huiusmodi homines, eccetto il papa, l'imperatore
e il comune di Roma. Si obbliga a dare annualmente, nella ricorrenza di
S. Secondiano, un cero di dieci libbre e a pagare 1000 lire di denari
pisani ai figli del conte Guido in rate annuali 100 lire, da corrispondere
ogni festa della Madonna d'agosto, dando fideiussori sino alla concorrenza
di 300 lire e obbligando in garanzia per il resto Monte Monastero, il
cui castello consegnerà, in caso di inadempienza, a Pietro Malascorte
per il comune di Corneto, con facoltà al Comune medesimo di goderne
le rendite e di concederlo per detta somma a un cittadino cornetano. Cede
al Comune i suoi possedimenti di Centocelle, s'impegna a dare, a richiesta,
60 lire di pisani ai consoli di Cornetonella ricorrenza di S. Fortunato
e ad esentare i cornetani dal pagamento di qualsiasi diritto nelle sue
terre, restituendo quanto egli o i suoi hanno percepito dopo la morte
del conte Guido. Insieme con i figli Rainone e Rainuccio giura il sequitamento
nelle mani di Tommaso Ferr(ari), Tagliacozzo e Rogerio consoli cornetani
e si obbligava a farlo giurare ai propri figli e successori al compimento
del quattordicesimo anno di età, nonche a tutti i suoi uomini e
a coloro che verranno in futuro ad abitare nelle sue terre.
In Tolfa Vecchia, alla presenza di Simeone di Gerardo, Gezio di Giovanni
Villani, Bernardo di Ranuccio de Truncula, Crescenzio di Pietro Malascorte,,
Gerardo di Crescenzio, Gerardo di Giovanni di Vaccaro, Pietro Seioris,
Ventrone di Simeone, Rodolfo di Quintavalle, Bartolomeo di Pietro Tenti,
testi.
Rogito di Pietro, aule imperialis not., dai protocolli di Rollando giudice.
Copia autentica di Ildebrandino da Corneto, auct. alme Urb. pref not.
Il documento è contenuto nella "Margarita Cornetana"
Regesto dei Documenti, a cura di P. Supino, miscellanea della S.RS.P.,
Roma 1969, p. 52, doc. 2. Di questo documento esistono due copie in: Cod
Vat. 7144, ff. 1-2; Cod. Vat. 7931, ff. 108-109.
Il rogito è datato con lo stile dell'Incarnazione, secondo il calcolo
pisano: ".MCCII. inditione quarta, temporibus domini Innocentii pape
tertii, Romanoque imperio imperatore vacante, anno quarto".
APPENDICE n. 2Lettera scritta da Innocenzo IV a Pietro di Vico
il 3 maggio 1247.INNOCENTIUS EPISCOPUS etc. Dilectio filio...
Prefetto Urbis, salutem etc. Quia cuique pro meritis retribuzione convenit
congrua responderi, fideles et devotos ecclesie, maxime quos presentis
temporis examinavit necessitar, dignis decet remunerari premiis, et infidelium
ac indevotorum inconstantiam pena debita castigari, ut et illorum remuneratio
inducat alios ad ipsius ecclesie famulatum, et istorum indicta ceretis
ausum cohibeat delinquendi. Hinc est, quod cum Tuscanenses, Vetrallenses,
domini Tulfe veteris et eorum homines ecclesie Romane fidelitate relicta
tamquam filii degeneres, tibi, quem ab ipsius devotione prava sugestio
vel adversitas aliqua non subtraxit, dampna in Castris, vassallis et aliis
bonis tuis gravia irrogarint, nos, ne de illatis tibi offensis reliquantur
impunes, presentium auctoritate precepimus, ut omnia huiusmodi dampna
tibi ab eisdem Tuscanensibus, Vetrallensibus et dominis Tulfe veteris
vel occasione illorum illata, et que deinceps quandiu in infidelitate
perstiterunt, inferii contigerit, necnon et ablata omnia tibi satisfecerint
de premissis, ad gratiam ecclesie nulla tenus admittendis. Et qui iidem
Tuscanenses, Vetrallenses et domini Tulfe veteris te et alios ecclesie
prefate fideles impugnare ac offendere non desistunt, eadem tibi auctoritate
concedimus, ut de offensis illatis rebellibus ipsis, et etiam decetero
a te inferendis occasione huiusmodi non possis ab aliquo convenivi, de
quibus te duximus absolvendum. Ut autem fidei tue puritas semper clarius
elucescat, Nobilitatem tuam monemus, rogamus et hortamur astante mandantes,
quatenus eisdem haliis ecclesie rebellibus promptitudine ac fortitudine
spiritus premonitus resistes viriliter, in ipsius ecclesie devozione,
que te inter ceteros eius falios favore ac gratia proponit attollere speciali,
stabilis more solito permanendo. Datum Lugduni v. Nonas Maii, Pontificatus
nostri anno quarto.
In e. rn. Nobilibus viris Tulfe nove.
Il documento è contenuto in: A. THEINER, Codex..., op. cit., p.
123, doc. CCXXI.
Traduzione:
"...perciò siccome i Toscanesi, i Vetrallesi, i signori di
Tolfa Vecchia e i loro uomini, ribellatisi come figli degeneri, alla Romana
Chiesa, hanno recato offesa a te (Pietro di Vico) che ci sei rimasto fedele
anche in mezzo a prave suggestioni ed avversità, danneggiandoti
nei tuoi castelli, nei tuoi vassalli ed in altri tuoi beni. Noi, perché
tali offese non rimangano impunite, con l'autorità delle presenti
lettere, ordiniamo, che i detti Toscanesi, Vetrallesi e signori di Tolfa
Vecchia non siano in nessun modo riammessi in grazia della Chiesa fino
a che di tutti questi danni che essi o chi per essi ti possono aver arrecato
durante il tempo delle loro infedeltà non ti abbiano data pienissima
soddisfazione di tutto ciò che possono averti tolto non ti abbiano
restituito integralmente.
E siccome i predetti Toscanesi, Vetrallesi e signori di Tolfa Vecchia
non cessano ancora di offendere e di combattere i fedeli della Chiesa
diamo a te la medesima autorità di combattere e di offendere i
detti ribelli, condonandoti fin da ora i danni che hai ad essi arrecati
e quelli che occasionalmente potrai loro infliggere ancora, senza che
nessuno possa chiedertene conto".
APPENDICE n. 3
Avignone, 11 settembre 1328.Giovanni XXII si congratula con Manfredi Di Vico per
l'aiuto dato alla Chiesa contro i ribelli viterbesi.Nos. viro Manfredo prefecto Urbis. Ltanter audivimus
fili quod viterbiensium et aliorum rebellium Patrimonii b. Petri in Tuscia
presurnptuosam superbiam tamquam filius benedictionis abhorrens, ad eandem
humiliandam superbiam et rebellium ipsorum priterviam conterendam, diletto
filio Roberto de Albarupe archidiacono de Ceya in ecclesia Legionensi
cappellano nostro dicti Patrimonii rettori, constanter et viriliter astitisti
et assistere continue non desistis. Super quibus devotionem et.fidelitatem
tuam cum gratiarum actionibus plurimum in Domino commendantes, nobilitatem
tuam attencius exhortamur, quatenus premissa, que te Deo et ipsi Ecclesie
acceptiorem efficiunt merito, sic continuare de bono semper in melius
non postponas, quod ex hoc nostram et apostolice sedis benedictionem et
gratiam uberius valeas promereri. Dat. Avinion. II id. sept. anno H.
(Arch. Vatic., Reg. n. 114, f 116, doc. 1291).
Il documento è contenuto in: C. CALISSE, I Prefetti..., op. cit.,
p. 470. app. LXXXI.
APPENDICE n. 4Breve del 1 maggio 1330 dato da Avignone da papa
Giovanni XXII.IOHANNES EPISCOPUS ETC. Dilectis filiis... Rectori seu...
Vicerectori Patrimonii beati Petri in Tuscia, salutatem etc. Dilecti filii
Commune et homines castri Montisflasconis, nostri et Romane ecclesia fideles
ac peculiares, nobis humiliter supplicarunt, ut cum eis dilecti filii
Civitatis Viterbiensis, ac Cornetane et Tulfenove Communia, necnon communes
domini eiusdem Tulfenove, castrorum Tuscanem. et Viterbien. diocesum,
multa dampna et iniurias temeritate propria irrogarint, eadem Viterbiense
ac Cornetanum et Tulfenove Communia, et dominos predictos ad condignam
emendationem eisdem Communi et hominibus dícti Castri Montisflasconis
de dampnis, et iniuriis huiusmodi faciendam cogere, seu cogi facere auctoritate
apostolica dignaremur. Nos igitur petitionem eorum iuri consonam reputantes,
ipsorumque in hac parte supplicationibus inclinati, discretioni vestre
per apostolica scripta mandamus, quatenus vocatis, qui fuerint evocandi,
faciatis predictis, cum oportunum fuerit, simpliciter et de plano ac sine
strepitu et figura iudicii iusticie complementum, Contradictores auctoritate
nostra, appllatione remota, compescendo. Non obstante, si Viterbiensi,
Cornetano et Tulfanove Communibus, ac dominis predictis vel quibusvis
aliis communiter vel divisim a sede apostolica sit indultum, quod interdici,
suspendi vel excommunicari non possit per litteras apostolicas non facienti
plenam et expressam, ac de verbo ad verbum de indulto huiusmodi mentionem.
Datum Avinione Kalendis Maii, Pontificatus nostri anno quartodecimo.
Il documento è contenuto in: A. THEINER, Codex..., op. cit., p.
575, doc. DCCLI
APPENDICE n. 5Riportiamo qui di seguito una serie di documenti (ripresi
da BERARDOZZI, COLA, GALIMBERTI, "Lo sfruttamento... ", o. c.)
che testimoniano le riconferme del Vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria,
Monte Castagno e Valle Marina, fatte dai vari pontefici ai rappresentanti
della famiglia Orsini.
.Gli Orsini fecero la loro comparsa sui Monti della Tolfa agli inizi del
XV, quando Giovanni XXIII (1410-1415) infeudò Giovanni Orsini (fondatore
del ramo di Gravina) del Vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno
e Valle Marina.Appendice n. 5A
Il documento in questione (del 14 ottobre 1435) mostra l'investitura,
fatta da Eugenio IV (1431-1447), del Vicariato di Tolfa Nuova, Ferraria,
Monte Castagno e Valle Marina al prefetto Francesco Orsini figlio di Giovanni.
L'investitura era condizionata dal pagamento di un censo annuo di 100
libbre di cera per il giorno dei SS. Apostoli.Appendice n. 5B
Conferma dell'investitura a Francesco Orsini `pro se heredibus et successoribus
in perpetuum", fatta il 12 aprile 1451 da Niccolò V (1447-1455).Appendice n. 5C
Conferma del Vicariato di Tolfa Nuova... agli Orsini da parte di Callisto
III (1455-1458) nell'anno della sua elezione al soglio pontificio.Appendice n. 5D
Il documento ci dà l'elenco delle rocche appartenenti alla prefettura.
Tra queste è presente anche Tolfa Nuova.Appendice n. 5E
Sisto IV (1471-1484) ordina di restituire (22 agosto 1471) Tolfa Nuova
agli Orsini.Appendice n. 5F
Nel 1484 Innocenzo VIII (1484-1492), conferma il Vicariato di Tolfa Nuova...
per metà a Raimondo Orsini che aveva venduto, in precedenza, l'altra
metà all'ospedale di S. Spirito in Sassia.Appendice n. 5G
Conferma del Vicariato di Tolfa Nuova... a Francesco Orsini, duca di Gravina,
fatta da Alessandro VI nel 1492.Appendice n. 5LI
Leone X (1513-1521) conferma, nel 1513, la metà del Vicariato di
Tolfa Nuova, Ferraria, Monte Castagno e Valle Marina a Ferdinando Orsini
e fratelli, alle stesse condizioni imposte da Alessandro VI. E' questa
l'ultima menzione del "castrum" di Ferraria.
APPENDICE n. 7Sui rinvenimento dell'allume e successive vicende di
Tolfa.De Inventione Alumeriarum et quomodo
Tulpha ad Cameram pervenit.In quodam libro manuscripto latine apud Ad.m. Ill.em
D. Carolum de Castro filium Ioannis Fran.ci filij Ioannis de Castro Alumeriarum
Inventoris, filij celeberrimi Iuris Consulti Pauli de Castro, et Petrae
de Cerrinis de Corneto, neptis Petri de Ancarano, et Fratis Angeli de
pannorum Costantinopoli, qua Civitate capta a Turcis depredata fuerunt
omnia eius bona, unde Italiam reversus ivit Basileam ad Concilium, et
tenuit locum Depositarij pro Papa Eugenio; et contraxit amicitiam ibi
cum Enea de Piccolominis, qui fuit postea factum Pontifex et dictus Pius
2. dus. In suo Pontificatu fecit ipsum Ioannem Comisarium generalem super
proventibus Status Ecclesiastici.
Et cum Corneti esset, quoniam non desistebat lapides colligere, quos mineras
saperent, fuit sibi relatum, quod in montibus Tulphae erat quantitas minerarum,
et relatum id fuit a quodam Hebreo, et facta interrogatione Astronomica
per quendam Dominicum de Padua Astronomum, quem secum ducebat ut famulum,
et habito responso, quod in montibus illis proficeret, cogitationes suas
acceleravit ad Tulpham, et cum inter alios lapides colligere fecisset
per quemdam Teodorum alias Federicum de Hispalia eius stabularium de lapidibus
illius scopuli unde oritur fons qui hadie videtur in Alumeria Superiori,
de illis in Civitate vetula, prope portam quae respicit meriem in domo
Bonifatij alumen confecit; et putans quod Tulpha esset de pertinentijs
Corneti, quod alias creditum est ad Vitellescos, capitulavit cum Communitate
Corneti, et postea cum Dominis Tulphae, idest cum Ludovico, et Petro.
Quibus peractis ivit Romam, res Pontifici narravit, qui simul cum Cardinalibus
insomnia putabant, et ideo parum credebant ipsi loanni atque iterum ad
illum quaerens, ut loqueretur Pontifici, et iterum, atque iterum ipsi
rem declararet; tandem Pontifex multis in hac adhibitis diligentijs, et
experientijs, et utilitate rei maxime perspecta, christianis enim plus
300 M ducatos Camerae Iuris dabant quotannis lucrico tales merces, ipsi
Ioanni magisterium pro vigenti quinque annis libere concessit recognita
Camera per duos tertios, quo finito posset Camera Ap.lica locare ipsum
solvendo tamen decimas, et alia ipsi Ioanni prout ecc.
Fabricarunt eo tempore vigenti quinque annorum concessorum in principio
Alumen ipse Ioannes, Bartolomeus Framura Ianuensis, et in Socium receperunt
Carolum Caietanum, et postea in Socium etiam receperunt Petrum Cosimi
de Medicis Florentinum; Bartolomeum superadictum Petrum Cosimi de Medicis
Florentinum; Bartolomeum superadictum defunctum, et Ioannes de Tornabono
erat socius d.ti Petri; et successive fuit etiam appaltus Socius Paulus
Rucellaius, cuius negotia agebat Nicolaus de Castiglioneo, ex quo credo
remansisse Castiglionorum familia Tulphae, et obijt ipse ex esca carnis
Apri medicamentosi.
Alumina inferior vacabatur ille, in qua erant domus Caroli Caietani et
Alphonsi eius fratris, quibus successerunt lulius de Albertonibus, et
Ludovicum Marganus.
1483 Ludovicus de Angelis Cammerae Ap.licae Clericus, et Alumeriarum Gubernator
mandante Xisto quarto contulit se ad Alumerias, quo tempore segregata
sunt omnia loca, et silvae Alumeriarum ut puta le Sbroccate et fuit decretum
ne ibi, et alijs segregatis locis quis incideret, incenderetque.
Et anno 1496 factum est primus Custos Silvarum Petrus Palmaticus cum provisione
20 carlenorum pro quolibet mense, fuit ín compensatione segregati
Territorij data pars quaedam Communitati, et haminibus Tulphae, quae dicitur
le Buccinate, et annotata fuit ista compensatio per D. Fran.cum Cellium
eo tempore Cancellarium eiusdem communitatis; et eodem tempore fuit factum
decretum, ut Clerici Gubernatores Tulpharum saltem semel in Anno visitarent
eorum Gubernium.
1497 Fuit concessa licentia familiae de Castro edificandi furnum venae
ferri in ruinis Sanctae Severellae et etiam edificandi molendinum; et
est locus propre Centum Cellas. Ubi nota Civitatem Ventulam non esse Centum
Cellas a qua familia de Castro fuit cooperta. Tecta prius et fabricata
domus, in qua detinebant Sacerdoter Presbiterum.
On.ma Alba de Capitibus Listae Patavina uxor D. Ioannis de Castro inventoris
Alumeriarum venit ad Balnea Tulphae cum suo marito per iter Cerveteris,
saxi, Tulpham novam, et inde ad Balnea, ad quae erat ibi expectans cum
tentorijs uxor Ursi de Ursinis comitis Nolae, et ducis Ascolae, quae erat
soror D. d. Ludovici, et Petri Dominorum Tulphae, et quia Ludovicus habebat
tres filias, curaverunt diete mulieres ut nuberent omnes simul tribus
filijs Ioannis de Castro, et sic facta est Affinitas, ex qua affinitate
confractus est animus Caroli Caietani dictarum Alumeriarum inferiorum
olim participis in fabrica, sed semper infensus familiae de Castro.
Paulus 2.dus Pontifex tentaverat emere oppidum Tulphae ab ipsis dominis,
et cuidam Roccho, qui erat illis dominis carus obtulit beneficia, et dignitates
pro Dominico eius filio si negotium conficiebat; sed interim oppidani
sumpta occasione recusarunt solvere ipsis Dominis quamdam pensionem, et
quidam Terrayolus Trenta Soldi, qui originem traxerat a Corsis, et in
oppido habebat familiam potentem, adijt ipsum Carolum Caietanum asserens
ab oppidanis se missum, qui cupiebant defectionem. Carolus libenter haec
audivit et ad Pontíficem scripsit, et ipsi Terrayuolo, et aliis
de sua factione favorem praestitit. Papa non expectato certim nuncia misit
D.num de Albergatis Urbis Gubernatorem cum aliquibus equitibus, et peditibus
de sua propria custodia, putans se de facili oppidum recepturum.
Oppidani aliquot maxime familia illorum de Mozzellis, et de Cellis permanserunt
in fide accusantes praedictum Terrayuolum, et Carolum de levitate, et
perfidia collaudantes lese de Dominis Tulphae. Protonotarius Gubernator
Urbis hospitabatur a Carolo; et per suas litteras significavit veritatem
Pontifi praedictos equaliter accusando; unde credebatur Pontificem nil
aliud esse innovaturum. sed Gubernatorem ad villani revocatum.
At Pontifex qui paulo ante privaverat domus Anguillariae, et Savellorum
de Rignatio (?) cupiditate ductus misit exercitum peditum, et equitum
cum bombarda una, cuius diameter erat pedum duorum. Oppidani obsessi,
et multa mala passi praesertim incendium domorum, quae prius scandala
erant seditionem fecerunt et Arx tantum oppugnanda versabat; sed Domini
Arcis centiorem fecerunt cognatum eorum Ursum Ursinuin, significantes
ei omnia, et eo tempore bellum gerebat in Flaminia pro Florentinis contra
Malatestam, et erat Dux totius exercitus Ferdinandi regis Neapolis, et
ipse bello confecto se contulit ad Tulpham, et liberavit ipsam ab obsidione
cum aufugisset exercitus Pontificis non expectato exercitu Ursi Ursini,
et duravit bellum ad Tulpham a die 8.a mensis Augusti usque ad medium
mensis 8.bris eiusdem anni; quo tempore cum conduxisset Papa pro suo Duce
Neapulionem Ursinum, ipse Dux composuit pacem hoc pacto, quod Pontifex
solveret 18.000 ducatos Camerae Regyi Ferdinando, qui pro dictis pecunijs
dedit Dominis Tulphae unum Comitatum prope Dominium Ursi eorum cognati,
et reddebat ille Comitatus Proventum duorum millium ducatorum, et promunitionibus
arcis solvit Pontifex ducatos 400, quos solvit societas Petri de medicis,
et Petrus unus ex D.nis Tulphae Arcem consignavit D.no Lucae de Rubeis
nobili Romano, misso ad hoc a Summo Pontifice.
1494 Fuerunt latrocinia Corsorum per totem Patrimonium, et praesertim
in civitate Castri, qui multa horrenda mala perpetrabant.
1495 Dux Candiae invasit Bracchianum, et obsedit Triviniaum, et Bestiae
omnes,
1496 et animalia de Bracchiano fuerunt recepta, et conservata ab oppidanis
Tulphae ipsa custodiendo, et postea finito bello illa reddiderunt.
Pontifex tenebat in arte Tulphae castellanum cum provisione viginti ducatorum
camerae quolibet mense, quam Arcem concesserunt postea Pontifices Appaltatoribus
Alumeriarum, quorum primus fuit Augustinus Ghisius nobilis Senensis, qui
habuit arcem Anno 1502 et in ea tenebat quemdam N. de Sergandis pro Castellano
Civem Senensem, qui Ghisius postea dictam Arcem spoliavit et Armis, et
Bombardis, mittens ea ad portum Herculis, et Talomonem oppida sub suae
Patriae dominio posita; et in p.nti die extant Bombardae cum insignis
Dominorum Tulphae in d.tis oppidis, et hodie visuntur.
1499 Pestis horribilis invasit Tulpham.DIVERSACivitas Vetula non est Centum Cellas, ut Sistus V scribi
iussit in fonte ibi ducto; sed Centum Cellas proprie est ubi nunc sunt
reliquiae infia Sanctam Severellam, et Cornetum; et hoc non solum fama
publica testatur; sed sic dicunt Pius Papa 2.dus in suis Cronicis, Ioannes
Fran.cus de Castro in suis diurnalibus manu scriptis, colligitur ex itineribus
Antonij Pij, et aperte dicit Annius quidam historicus viterbiensis, et
alii quam multi, et praesertim in quibusdam monumentis repertis in quibusdam
monumentis repertis in tecto d.tae civitatis Centum Cellarum dirutae etc.
ubi fuit quodam tempore S. Cornelius Papa, et martin relegatus.
Tolfa nova credo quod fuerit prope forum Clodij, et quia circa ipsum erant
novem pagi, et Praefecturae, et antiquitas viarlun latarum selicibus pulcherrimis
constitutarum demonstrat nec non Tolomei Tabulae et aliorum. Ibi Sanctus
Protegenes martir fuit quodam tempore relegatus.Testo ripreso da: O. MORRA, Tolfa, profilo...,
pp. 59-62.
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