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Quello che non ottennero le esortazioni e le censure ecclesiastiche (gli Appiano ne facevano sì poco conto da non arrendersi nemmeno ai ripetuti inviti di Sisto IV perché si presentassero dinanzi a lui a giustificarsi (96); ma ciò sarà forse stato effetto di prudenza, più che di protervia), l'ottenne invece, almeno in parte, la potenza dell'oro. Il fatto non risulta dalle bolle pontificie, bensì dai libri di conto della Crociata sotto Innocenzo VIII. Questo papa aveva finito per intendersi coi due fratelli cadetti del signore di Piombino, Gerardo e Belisario, usufruttuari della tenuta di Montione (97), e stipulava con essi una convenzione, della quale non conosciamo i termini e la sostanza, ma solo il capitolo (98) per cui la Camera apostolica si obbligava di pagare a Gerardo e Belisario la ingente somma di duemila ducati all' anno; prezzo, indubbiamente, della rinuncia de' due fratelli ai vantaggi delle loro allumiere. Si aggiungano, a questo non piccolo aggravio, le spese che la Camera doveva sostenere per tacitare le pretese dei vescovi di Massa (99); quelle che saranno derivate da simili trattative della S. Sede coi comuni di Massa e di Siena (100) per impedire la con correnza, che anche codeste città potevano opporre al commercio dell'allume della Tolfa; quelle causate dalla necessità di far cessare la produzione delle miniere napoletane; e si comprenderà quale onerosa e difficile impresa fosse questo monopolio papale, che pretendeva di soffocare l'attività industriale e commerciale degli altri paesi nello stesso genere di produzione. Dai molteplici e complessi dibattiti con gli Stati italiani possessori di giacimenti del prezioso minerale, il Papato doveva necessariamente passare a questioni interminabili e ad atti di violenza ne' riguardi con altri Stati dell' Occidente, dove più attiva era l'industria alimentatrice del commercio dell'allume della Crociata; dacché a questo era indispensabile un campo smisurato di diffusione, per trovare compenso alle enormi spese.

V.

Nel ricercare le vicende della politica commerciale dei papi in rapporto ai paesi che, non possedendo miniere di allumite, avevano fino allora trafficato gli allumi provenienti dall'Oriente, converrà che incominciamo dai due maggiori centri del commercio marittimo nel Mediterraneo, Genova e Venezia.
Già si é visto come i Genovesi, privati del monopolio delle miniere di Oriente dalla conquista ottomana, si adoperassero a far rivivere l'industria dell'allume nei paesi d'Italia, dov'essa era in altri tempi fiorita, è accaparrassero parimenti il commercio del prodotto delle allumiere papali fin dal tempo della scoperta di Giovanni da Castro: le due prime Società appaltatrici dell'allume di Tolfa erano di mercatanti della repubblica ligure, la quale aveva dato altresì alla nuova industria mineraria il primo organizzatore in quel Biagio Spinola che godette, insieme ad Eliano della stessa cospicua casata genovese, largo favore presso la Sede papale (101), con cui ambedue gli Spinola trattarono grossi affari nel commercio suddetto; e ad esso parteciperanno anche più tardi i mercanti di Genova, come si vedrà nel seguito di questa trattazione. Ma nessuna notizia abbiam rintracciata di trattative della Camera apostolica col governo della repubblica per assicurare l'osservanza del monopolio pontificio su quell'importantissimo mercato; mentre ci fa dubitare, che al divieto papale di trafficare altri allumi che quelli prodotti dalle miniere tolfetane si contravvenisse anche a Genova, la petizione presentata nel 1466 dai mercanti tedeschi residenti in quella città al governatore ducale e agli anziani, per ottenere diminuzione dei dazi che gravavano sulle merci da essi condotte a Genova per la via di mare, fra le quali é espressamente nominato l'allume (102): merce che non proveniva per certo dalle allumiere papali, perché i libri di conto di cotesta azienda mai ci rivelano contratti con mercatanti alemanni. Ci conferma invece nell'opinione, che lo sfruttamento e il commercio del prodotto delle ricche miniere di Focea andasse del tutto perduto per i Genovesi dopo la conquista turca dell'isola di Scio, il fatto che nel 1480 Sisto IV accordava ai Maonesi di Scio, combattenti con gravi. sacrifizi per la difesa di quella terra, un ingente sussidio, levato dai proventi delle allumiere papali (103). I denari della « Crociata » non sarebbero stati; convien credere, destinati ad aiutare una Compagnia che avesse esercitato lo stesso commercio, a danno della Camera apostolica e in dispregio dei decreti pontifici.
Singolare importanza ebbe il commercio dell'allume a Venezia, all'infuori dei traffici della repubblica con le terre del suo dominio e coi paesi d'oltr'alpe; poiché codesto prodotto minerario veniva. largamente adoperato nella Laguna, in una industria fiorentissima dei Veneziani, la vetraria. Nel 1275 la Signoria proibiva la esportazione dalla città dell'allume, necessario all'Arte, dei fioleri (104). Al principio del secolo XIII, ne venne invece vietato, non sappiamo per quale ragione, l' uso ai lavoratori del vetro; gran quantità di tal merce giaceva allora nei depositi dei vetrai, ai quali il governo dové concedere di venderlo ed esportarlo (105). La strana proibizione fu però tolta in seguito, poiché nel 1469, al tempo che comincia il secol d'oro della vetraria veneziana, la Signoria vietava nuovamente, a petizione dei vetrai, che si esportasse l'allume, specialmente quello depositato nel Fondaco dei Tedeschi, donde veniva estratto clandestinamente e portato fuori di Venezia, per servire all'Arte dei saponai (106). Ed é di codesto tempo la impresa iniziata da mercanti veneziani, cui già accennammo, di sfruttare i giacimenti di allumite ne' domini del duca del Tirolo (107); mentre altri Veneziani si erano assicurati gli appalti dell'allume d'Oriente, specialmente quello delle miniere di Focea, un tempo esercitate dai Maonesi di Scio. « E' Veneziani chol «Gran Turco tenevano », scrive Benedetto Dei nel 1461, «e avevano gli allumi di Foglie (Focea) ». È di un Veneziano appaltatore di allumi a Costantinopoli, finalmente, la nota, preziosa relazione sui pericoli che incombevano alla sua patria da parte degli Ottomani e sulla urgenza di provvedere alle difese (108), da lui inviata alla Signoria di Venezia nel 1466.
Venezia poteva, quindi, essere una eccellente piazza per lo smercio degli allumi tolfetani, non solo in grazia del consumo che di questo prodotto faceva l'industria veneziana, ma altresì per la vastissima espansione dei traffici di quella città con i paesi di Terraferma; ed é naturale che la Camera papale provvedesse a raccogliere grande quantità di allumi della Crociata in Venezia, che fu, dopo Bruges, il principal deposito di codesta merce fuori dello Stato pontificio (109). Ma non é da credere che il mercato veneziano si aprisse facilmente all'intrapresa mercantile della Santa Sede, dati i grossi interessi che nel commercio dell'allume avevano, come si é detto, i cittadini della Serenissima; e ci par ragionevole supporre che Paolo II abbia trovato più d'un contrasto da superare, anche per tal cagione, col governo della sua patria, i cui rapporti col papa Barbo furono, come si sa, frequentemente turbati da gravi dissidi. Comunque fosse di ciò, noi non abbiamo notizie sul traffico degli allumi papali nella città delle lagune, anteriori a quelle che ci offrono i capitoli di un contratto, stipulato il I° febbraio 1469 a Roma tra il vicecamerlengo Vianesio Albergati, in nome dei commissari generali della Crociata, e il « nobil homo « mesier Bartholomeo Zorzi da Vinesia, quondam mesier «Luca » (110). Questi acquistava dalla Camera papale diciottomila cantari di allume, che si dovevano estrarre nello spazio di tre anni, seimila cantari ogni anno, dai depositi della merce esistenti in Venezia. Messer Bartolomeo si obbligava a pagare alla Camera il prezzo di tre ducati per cantaro, oltre le spese dei noli, dello scarico e del dazio « overo « gabelle de l'entrata della terra de Venetia » (111), mentre acquistava il diritto di vendita esclusiva dell'allume papale in Venezia e nel suo dominio, in tutta la rimanente regione padana, eccettuate le terre soggette alla Chiesa, e nei paesi tedeschi (112). A garanzia dei diritti dell'acquirente, la Camera prometteva di non vendere né far vendere, per tutta la durata del contratto, il prodotto delle allumiere di Tolfa (in Venetia né in alcuno altro locho pertinente al dicto apalto », e di tener chiuso ne' magazzini l'allume già trasportato, nonché quello che avesse fatto nel frattempo navigare fino alla città di San Marco.
Ebbe realmente effetto codesta convenzione per lo smercio dei grossi depositi dell'allume papale? Ce ne fa dubitare la risoluzione, presa nell'anno seguente da Paolo II, di donare alla Repubblica tutta la merce che la Camera papale teneva chiusa nei magazzini di Venezia, in seguito ad accordi stipulati a Roma dal pontefice con gli ambasciatori veneziani. Nessuno accenno al precedente contratto con Bartolomeo Giorgi (la cui esecuzione avrebbe necessariamente dovuto essere considerata nella cessione fatta al governo veneziano) si contiene nei capitoli di quella convenzione, della quale abbiamo indiretta notizia dalle istruzioni che Paolo II inviava, per la esecuzione dei patti conchiusi, all'abate del monastero di S. Gregorio di Venezia, Bartolomeo Paruta, alle cure del quale era affidata l'amministrazione degli allumi tolfetani in quella città.
Scriveva, adunque, il pontefice al suo fido abate il 7 luglio del I470 (113), che volendo egli soccorrere gli sforzi con cui Venezia si apprestava a sostenere l'assedio posto dai Turchi a Negroponte, aveva deciso di « condonare et assignare omnem aluminis nostri quantitatem, non parvi « sane precii, in tua cura et custodia existentem » alla Repubblica. Il Paruta doveva farne la consegna, non appena il governo veneziano avesse eseguiti i patti seguenti, sti-pulati fra il papa e gli ambasciatori: pagare tutte le spese sostenute dal Paruta per lo scarico e il carico della merce, per le gabelle e per il deposito dell'allume in Venezia, in tutto 3540 ducati (114); versare a Domenico di Pietro du-cati 11,575, dovutigli dalla Camera per noli e vettura della merce suddetta; obbligarsi a sodisfare la Società appaltatrice delle allumiere di Tolfa, nello spazio di quattro anni, della terza parte del prezzo dell'allume da essa fabbricato; e parimenti provvedere al pagamento delle indennità dovute, secondo la nota convenzione, al re di Napoli per l'allume papale da vendere a Venezia. Venezia si obbligava, inoltre, a vendere l'allume di Tolfa al prezzo di 25 ducati ogni mille libbre (e in ogni caso non meno di 22 ducati, se tal riduzione paresse necessaria ad affrettarne lo smercio), e prometteva di limitare il commercio ai mercati delle terre proprie, di Lombardia e di Romagna e alla Germania, per via di terra soltanto: escluso in generale il traffico in Occidente per via di mare, e specialmente in Fiandra e in Inghilterra (115). Per sua parte, la Camera apostolica prometteva di tener chiusa nei magazzini la merce, ch'essa avesse a spedire durante i quattro anni successivi a Venezia.
Mentre adempieva al fine, cui erano stati devoluti i proventi dell'allume papale, destinando alla difesa di Negroponte i depositi di tal merce in Venezia, Paolo II risolveva in pari tempo le difficoltà che ne ostacolavano il commercio nei domini della Serenissima, abbandonandolo nelle mani del governo veneziano. I negoziati che avevano condotto ai patti testé ricordati, continuarono anche dopo il luglio, fra gli ambasciatori della Repubblica e il papa, il quale dava notizia al Paruta, con breve del 2 novembre dello stesso anno, di nuovi accordi intervenuti fra lui e i Veneziani, a cui veniva concesso di sodisfare la Società appaltatrice delle miniere di Tolfa, anziché nel tempo prescritto di quattro anni, in rate corrispondenti alla quantità di allume che si fosse venduto ogni anno, fino a consumazione della merce donata da Paolo II; questi aveva in compenso ottenuto che Venezia vietasse con pubblico editto il commercio di allumi d'altra provenienza ne' propri domini, finché vi rimanesse allume papale invenduto (116). Quest'ultima clausola costituisce, a parer nostro, non dubbia prova, che agli anatemi papali contro chi introduceva nel traffico dei paesi cattolici allumi provenienti da altre parti, che dalle allumiere pontificie, non si era dato troppo ascolto dalla potente Repubblica, innanzi all'accordo di cui parliamo ; e che anche in seguito il divieto venne solo temporaneamente osservato, e in tali circostanze, che la esclusione degli allumi orientali tornava, in certo modo, a immediato vantaggio del commercio veneziano.
Simili procedimenti della politica di Venezia in riguardo al monopolio papale degli allumi non può recar meraviglia, chi pensi alla fermezza con cui la Repubblica di San Marco resistette in ogni tempo a qualunque pretesa della Santa Sede, che fosse contraria agli interessi economici dei propri sudditi. Paolo II ebbe, del resto, a sostenere nuovi contrasti (117), prima di morire, col governo della Serenissima per la esecuzione di codesta convenzione; ed é lecito il dubbio che essa abbia avuto pieno effetto sotto il successore di lui nella sovranità della Chiesa (118). 

VI.

Passiamo ora ad esaminare le vicende del monopolio papale nei paesi di Occidente: nelle Fiandre anzitutto, il cui mercato, per cagion delle fiorentissime industrie tessili di quella regione, dové attirare, prima di ogni altro l'attenzione e gli sforzi dei commissari della Crociata.
Delle trattative col duca di Borgogna, signore di codeste provincie, non possediamo notizie anteriori alla primavera del 1466. È del marzo di questo anno la bolla papale di credenziali al subdiacono Luca de Tolentis (119) mandato da Paolo II a Filippo il Buono: si può tuttavia ritenere che la S. Sede avesse iniziate ancor prima le pratiche per imporre il monopolio alla ricca e industre regione, e che l'invio di un messo speciale fosse conseguenza delle difficoltà ivi incontrate nel raggiungere l'intento. A nulla infatti approdavano le trattative del Tolenti col duca Filippo; e lunga e laboriosa fu l'opera dell'inviato papale presso il nuovo principe, Carlo il Temerario. La convenzione venne finalmente stipulata e firmata il 4 maggio 1468 (120).
In virtù di codesto trattato, che doveva valere per dodici anni, non si sarebbe comperato nelle Fiandre (« in nostris « dominiis iacentibus in partibus septentrionis ») altro allume che quello della Crociata, che si vendeva in Bruges presso la Compagnia di Tomaso Portinari e soci (i Medici), o presso i commissari del papa, al prezzo di libre quattro e mezza (circa 18 ducati) la carica (121). Il duca si obbligava a pubblicare ne' suoi Stati il divieto di trafficare altri allumi non solo, ma altresì di adoperare nella tintura dei panni e delle pelli le sostanze e misture che in quel tempo s'usava di sostituire agli allumi (122); in compenso della pubblicazione del bando, la Camera apostolica rilascierebbe al duca 6 soldi (1/4 di libra) per ciascun cantaro di merce venduta. Il papa aveva ottenuto patti vantaggiosi, più che non avesse sperato (123) ; ma la convenzione conteneva una clausola pericolosa: se nei paesi limitrofi alle Fiandre si fosse venduto allume della Crociata, o di qualsiasi altra provenienza, per un prezzo inferiore a quello stabilito in questo contratto, il duca si riterrebbe sciolto da esso, qualora la Camera non accordasse la corrispondente diminuzione nel prezzo di vendita per le provincie fiamminghe.
Ma un'altra, più grave difficoltà impediva la pronta esecuzione del contratto. Il Temerario, che a fatica si era indotto a vincolare la libertà dei commerci ne' suoi dominii, aveva concesso a tutti i sudditi, poco tempo innanzi alla conclusione dell' accordo suddetto, di introdurre nel paese allumi « de toutes maniéres, de quelque part, climat ou ré gions qu'ils soient » (124). Così avvenne, che all'atto della convenzione colla S. Sede, i depositi del prezioso prodotto nelle Fiandre fossero talmente abbondanti, da giustificare la richiesta fatta al principio del 1469 dal duca al papa, di una dilazione di diciotto mesi per l'entrata in esecuzione del contratto. Paolo II fu costretto di annuire, contentandosi che alla Crociata fosse devoluta una piccola parte del ricavato della vendita di allumi forestieri (quattro soldi per carica), e che il Temerario impedisse la ulteriore introduzione di essi nelle sue terre (125). Frattanto, enormi quantità del prodotto delle allumiere di Tolfa si trasportavano da Civitavecchia a Bruges (126), in attesa che la mercanzia pontificia potesse entrare e dominare in quel mercato. Ma trascorso il termine di 18 mesi, e non ancora smaltita la merce forestiera, la Camera papale doveva consentire a una nuova dilazione di sei mesi: passarono anche questi, e il monopolio degli allumi della Crociata non entrava tuttavia in vigore (127). Fu allora, nel febbraio del 1471, che il pontefice, stanco del lungo e pernicioso indugio, malcontento del contegno di Tomaso Portinari al quale, come capo della società mercantile dei Medici in Fiandra, era affidato il deposito e lo smercio dell'allume papale, decideva d'inviare colà un plenipotenziario perché risolvesse la difficile questione.
L'uomo di fiducia del papa fu Tomaso de Vincenti da Fano. La bolla di nomina a commissario della Crociata e della Camera nelle Fiandre (128) accenna al danno gravissimo recato agli interessi della Crociata dalle « non modicae « hactenus habitae negligentiae » nell'applicazione dei patti convenuti col duca di Borgogna; e commette al De Vincenti di prendere in consegna l'allume papale giacente nei suoi domini (129) e procedere senza indugio alla vendita giusta la convenzione suddetta, esigendo dal duca la rigorosa osservanza dei patti, specialmente in quanto concerneva la esclusione dell'allume forestiero dal commercio fiammingo.     
La partenza di messer Tomaso, accompagnato da un Fiorentino pratico della mercatura in quelle parti, Carlo Martelli, era stabilita per la fine di febbraio (130); ma venne poi differita di qualche mese (131). Egli si trattenne in Fiandra durante tutto l'anno in corso, e la primavera del 1472 (132). Pare che il De Vincenti riuscisse ad eseguire felicemente il mandato, se si deve giudicare dalla nuova, imponente spedizione di allumi tolfetani che nell'autunno del '71 avevano navigato alla volta di Fiandra (133); non rimase però, in ogni modo, lungamente esclusa da codesto commercio la Compagnia del Portinari e soci, poiché i Medici di Roma (altra filiale della potentissima Casa mercantile e bancaria fiorentina) ebbero ben presto nelle lor mani, per le vicende che esaminiamo più innanzi, la vendita esclusiva degli allumi papali in tutto l'Occidente.
È certo, tuttavia, che il monopolio pontificio ebbe ad incontrare nel commercio fiammingo ostinate avversità, sino alla fine del regno di Carlo il Temerario (134) e che i contrasti continuarono anche dopo la morte di questi (1477), quando la parte più industre e doviziosa dello Stato borgognone passò sotto il dominio degli Absburgo. Nel 1478 scoppiava violento, come si vedrà più innanzi, tra Sisto IV e i Medici di Firenze il contrasto politico, ch'ebbe immediata ripercussione nei rapporti economici fra le due potenze; e, se la scomunica papale non raggiunse l'effetto di sottrarre immediatamente e totalmente il commercio degli allumi all'attività della compagnia Medicea di Bruges (135), gravissimo danno dové derivare, in ogni modo, da quei contrasti all'ordinato e proficuo andamento di codesto traffico nei paesi fiamminghi e in tutto l'Occidente. Filippo il Bello d'Austria, il quale resse le Fiandre ne' primi anni del secolo XVl, finì per far dichiarare da un comitato di cittadini di Bruges che, essendo stato nuovamente elevato il prezzo della merce della Crociata, era necessario ritornare ai mercati di Oriente (136). L'allume di Tolfa venne in conseguenza confiscato e alienato; il che provocò contro i violatori dei privilegi e degli interessi della S. Sede gli anatemi di Giulio II(137), sotto il cui pontificato la difesa del monopolio diveniva sempre più ardua, così nelle provincie fiamminghe come nella vicina Inghilterra.
I negoziati per la introduzione di esso nel regno d'Oltremanica ebbero principio contemporaneamente a quelli iniziati nelle Fiandre. A Londra fu inviato qual commissario il vescovo di Lucca, messer Stefano Trenta, la cui presenza nella capitale inglese é accertata dall'estate del 1466 all'autunno dell'anno seguente, nei libri dell'amministrazione della Crociata (138). Ma niuna traccia si trova in essi di convenzioni stipulate tra il re Enrico V e l'inviato papale, a cui erasi dato incarico di stringere col sovrano d'Inghilterra gli stessi patti che doveva concludere il de Tolenti col duca di Borgogna (139): soltanto, nelle trattative corse nel I469 per la vendita dell'allume di Tolfa a Venezia, che abbiam riferite di sopra (140), é parola di « intelligenze » col re Enrico, per rispetto alle quali Paolo II escludeva quel regno dai territori nei quali era lecito agli appaltatori veneziani di diffondere la merce papale. Che gli allumi della Crociata avessero esito in quel torno di tempo, sui mercati inglesi, é infatti dimostrato dalla contrattazione di ingenti quantità di minerali, che nell'agosto del 1467 la Crociata si obbligava di spedire in più tempi in Inghilterra al mercante genovese Meliaduce Cicala (141): quello stesso che fu in Roma, sotto la protezione di Sisto IV, assai potente mercante e banchiere.
Si deve credere che la vendita avrà continuato per conto ed opera dei Medici, i quali tenevano a Londra una filiale che negoziava in stretta unione con la Società medicea di Bruges, quando vennero affidati a quest'ultima i maggiori depositi di codesto prodotto nell'Occidente (142). Ma che il monopolio papale siasi realmente stabilito nei dominii inglesi (dove i traffici si resero oltremodo difficili in quell'epoca di incessanti e disastrose lotte civili), sembra da escludere in ogni modo. Durante il regno di Enrico VII, che pacificò il paese e lo avviò al mirabile risorgimento economico del secolo XVI, abbiamo prove che spedizioni di allume tolfetano si diressero, per effetto di speciali concessioni regie, alla volta dei mercati d'Oltremanica (143) ; ma é noto altresì, come Enrico VII desse una volta incarico alla Compagnia fiorentina di Antonio Gualtierotti (144), di acquistare tal merce nei paesi degl'Infedeli, ad onta dei divieti papali, e come Giulio II dovesse intervenire scomunicando commercianti italiani e inglesi, che avevano portato in quel regno i prodotti delle allumiere d'Oriente (145).
Assai scarse sono le informazioni che abbiam potuto raccogliere sul nostro argomento per quel che riguarda la Francia. I registri della depositeria della Crociata ci mostrano bensì come le navi cariche di allume che salpavano da Civitavecchia si dirigevano anche ai lidi di Provenza (146), e del commercio con Aigues-mortes parlano anche i contratti stipulati dalla Camera apostolica con gli appaltatori (147): ma sono notizie ristrette ai paesi bagnati dal Mediterraneo, degli anni anteriori al 1481, prima che la Provenza entrasse a far parte dei domini della corona di Francia. Di trattative col re Luigi XI (1461-1485) per estendere al suo regno il monopolio pontificio, nessuna traccia, fuorché la notizia che nel 1467, al tempo in cui fervevano le pratiche per imporre il prodotto di Tolfa ai mercati di Fiandra e d'Inghilterra, anche presso il re di Francia veniva spedito un oratore papale « pro negociis Cruciatae »: ma non é certo che si trattasse del commercio degli allumi e non d' altri interessi della S. Sede per la difesa della fede (148).
È naturale, del resto, che la impresa economica della S. Sede non abbia trovato terreno favorevole nel regno di Francia. Anzitutto, lo stato delle industrie francesi era in quel tempo ben poco progredito, in confronto agli altri Stati occidentali, a cui furon specialmente rivolte le cure dei papi in questo riguardo. Le ininterrotte, aspre controversie che turbarono i rapporti di Luigi XI con Pio II e Paolo II dovevano essere, d'altra parte, ostacoli gravi alla conclusione di accordi commerciali con l'astuto ed energico sovrano il quale, intento a promuovere il risorgimento economico della Francia, e ad imprimere allo sfruttamento delle miniere ne' suoi domini uno slancio sino allora sconosciuto (149), non sarà stato incline ad aprire quei mercati ad un commercio, di cui la S. Sede profittava a discapito del commercio e dell'industria delle nazioni sottoposte al suo monopolio. Al fine del Quattrocento eransi scoperte ed attivate anche in Francia miniere di allumite, e il re Luigi XII colpiva con dazi fortissimi l'allume forestiero, di qualunque provenienza si fosse, a difesa della produzione nazionale (150) : con ciò restava gravemente colpito il traffico degli allumi tolfetani anche nei porti di Provenza, soggetti in quel tempo alla monarchia dei Valois.
Non abbiamo modo di affermare, che l'attività della Camera papale per la diffusione dell'allume siasi esplicata nei paesi della regione Iberica. Il fatto, che di spedizioni di tal merce dal porto di Civitavecchia alla volta di Spagna non appare traccia nei libri di conto della Crociata ci fa, invece, supporre che quei mercati rimanessero chiusi alla impresa pontificia, almen durante il secolo xv. Si sa che la Spagna partecipò largamente, nel medioevo, al commercio del prezioso minerale : sia che esso si estraesse da quei monti, sia che la denominazione di « allume di Castiglia »(151) indicasse soltanto la provenienza dai mercati iberici, dove la merce veniva trasportata dai vicini paesi di produzione dell'Africa settentrionale (152). Commercianti spagnuoli esercitano, al tempo che lavoravano le allumiere di Tolfa, il contrabbando dell'allume negli Stati occidentali sottoposti al monopolio papale: come quel mercante catalano ch'ebbe, già si é visto, la merce catturata dal duca di Borgogna, e i due Spagnuoli che trasportavano. alla corte d'Inghilterra. gli allumi di Piombino (153). È quindi probabile, che il monopolio abbia trovato nella penisola dei Pirenei terreno ancor meno propizio che nella vicina regione francese.
Tacciono del pari, i documenti pontifici, intorno al traffico degli allumi di Tolfa in Germania. Nel contratto stipulato da Paolo II col veneziano Bartolomeo Zorzi nel 1469 era bensì compreso il « dominio de lo Imperadore » (154) fra le terre su cui il Zorzi poteva estendere i suoi traffici; ma le successive convenzioni tra la S. Sede e i Medici limitavano esplicitamente ai domini della Sere-nissima il campo riservato allo smercio dell'allume papale depositato in Venezia (155). E poiché riuscirebbe difficile ammettere che i Medici abbiano introdotto il minerale, ch'era loro consegnato a Civitavecchia, nei paesi d'oltr'Alpi per via di terra, converrà ritenere che la Germania (se fu essa pure, ma non sembra probabile, soggetta al monopolio) abbia trafficato anche per questo prodotto con Bruges, sede principale del commercio anseatico nelle Fiandre.
VII.
Il sistema degli appalti, che la S. Sede aveva introdotto fin da principio nello esercizio delle miniere tolfetane, non tardò ad essere applicato, per necessità finanziarie e per opportunità di ordine tecnico, anche al traffico del loro prodotto. E la vastissima impresa mercantile veniva in pochi anni assorbita dalla attività della più potente associazione commerciale che vantasse in quel tempo l'Italia, la Compagnia dei Medici, della cui storia il monopolio degli allumi papali costituisce un episodio fra i più interessanti e cospicui.
Fin dagli inizi dello sfruttamento delle miniere di Tolfa, i Medici di Firenze compaiono fra gli acquirenti degli allumi della Crociata, per vistose partite di merce. Al primo acquisto di venticinquemila cantari, avvenuto nell'aprile del 1463, seguiva a brevissima distanza, nel giugno suc-cessivo, un'altra compera di ventimila cantari (156). Vero é che i compratori non venivano immediatamente in possesso della merce acquistata: si sa che una delle due partite, forse la seconda, fu consegnata soltanto dopo la morte di Pio II (157). Ma intanto i Medici, sborsando in anticipazione le ingenti somme, che erano necessarie allo sviluppo della nuova industria mineraria, accaparravano alla propria vastissima azienda mercantile il prodotto delle allumiere tolfetane, il cui commercio non tarderà a cadere completamente nelle lor mani. A tale intento ebbero i Medici spianata la via dall'assunzione al pontificato di Paolo II, che affidava alla potente Casa fiorentina la depositeria generale della Camera, tenuta sotto Pio II dal senese Ambrogio Spannocchi; e creava in pari tempo la Società filiale dei Medici di Roma (di cui stava a capo il cognato di Piero de' Medici, Giovanni Tornabuoni) depositaria del tesoro della Crociata (158), quasi unicamente costituito dai proventi delle allumiere. La nuova condizione facilitava per certo l'azione diretta della Società nel commercio degli allumi di Tolfa: benché esso corresse una volta pericolo, nei primi mesi del regno di Paolo II, quando questi minacciò di romperla con l'amica repubblica fiorentina e coi Medici a cagione della eredità del cardinale Scarampo, arcivescovo di quella città, del quale il pontefice voleva appropriarsi le grandi ricchezze, e specialmente la famosa suppellettile artistica e preziosa (159).
Ma la questione della eredità Scarampo, accesa nella primavera del 1465, fu presto composta con soddisfazione del papa e dei Fiorentini (160); e i Medici poteron tornare indisturbati agli affari con la Camera apostolica, e conchiudere coi commissari generali della Crociata, il I° aprile dell'anno seguente, una convenzione (161) per la quale in luogo di Bartolomeo Framura, appaltatore delle miniere tolfetane insieme a Giovanni da Castro e a Carlo Gaetani, entravano nella Società costruttrice degli allumi i Medici depositari della Crociata, rimanendo a questi ultimi: specialmente riservata la facoltà di vendere in tutta la cristianità, per conto della Camera, il prodotto delle allumiere (162).
All'esercizio delle miniere e della vendita degli allumi papali per opera dei Medici, nuova e forte diramazione della colossale azienda mercantile fiorentina, non dovettero essere estranei la industria delle miniere d'allume di Volterra e il commercio del minerale che veniva scavato e lavorato, negli anni immediatamente precedenti al 1470, in quella regione. La storia delle allumiere volterrane é comunemente nota, essendo state le loro vicende strettamente collegate alla sorte di quel Comune: esso cadeva sotto la dominazione di Firenze in seguito a una guerra, che fu detta appunto degli allumi, perché causata dal desiderio della repubblica d'impadronirsi di quelle cave, la cui produzione era necessario alimento alla più fiorente industria fiorentina, quella della lana (163). Su Lorenzo de' Medici, che si diceva interessato nei profitti della Compagnia assuntrice delle miniere di Volterra, si fa ricadere la colpa di avere spinta, con intrighi, la comunità Volterrana alla guerra che la ridusse (18 giugno 1472), traverso memorabili crudeltà, in potere dello Stato asservito alla Signoria medicea. Forse, non ebbe il Magnifico diretta partecipazione nell'esercizio di quelle allumiere prima della guerra, né dopo la conquista, allorquando le cave volterrane furon sottoposte all'Arte della lana che le appaltava all'esercizio privato (164); ma non può cader dubbio che il commercio degli allumi di Volterra non venisse nella dipendenza dei Medici appaltatori delle cave di Tolfa. Riteniamo quindi effetto del timore, che le miniere volterrane (di cui si credeva, allora, inesauribile la vena) impedissero il campo al prodotto di Tolfa, la vendita fatta dai commissari della Crociata, già nell' aprile del 1471, di settantamila cantari di allume ai Medici e soci di Roma, con facoltà di smerciarlo « per tutto il mondo « excepto Venezia e il suo dominio » e con l'obbligo per la Camera papale di non spedire, né vendere allumi in altri luoghi fuorché a Venezia, purché i Medici si obbligassero a non comperare né vendere, durante i quattro anni che durava il contratto, altra merce che quella della Crociata (165).
Frattanto, a Firenze si deliberavano dai governanti; nel 1472 e al principio dell' anno seguente, sempre núove agevolazioni per la diffusione dell'allume volterrano, concedendone la libera esportazione .per via di mare, e colpendo con gravi dazi l'entrata nei domini della repubblica della merce forestiera, senza alcun riguardo per gli allumi della Crociata (166). Eppure, il profiitto delle cave volterrane doveva in codesto tempo annunciarsi (vedremo la cagione più oltre) assai poco abbondante e promettente per l'avvenire. Si dovrà dunque ravvisare anche in codesti provvedimenti l'effetto di manovre dei Medici: per viemmeglio signoreggiare il commercio del prodotto delle miniere di Tolfa? Certo é, che Sisto IV (167), succeduto nel settembre 1471 a Paolo II, erasi affrettato a cedere ai Medici, un anno appena dopo la vendita stipulata dal suo predecessore, altrettanta quantità di merce, con gli stessi patti del contratto precedente (168).
Con codesti grandiosi acquisti i Medici assicuravano ai loro traffici per più anni la produzione delle allumiere tolfetane, nel tempo che la fortuna delle cave di Volterra decadeva rapidamente e le industrie fiorentine erano mi-nacciate dall'improvviso esaurimento di quelle vene alluminose. Nel 1473 il lavoro nelle miniere volterrane era sospeso, a cagione della scarsezza e della cattiva qualità della pietra, tantoché la repubblica dové sciogliere l'Arte della lana dall'impegno di fornire, sui proventi dell'appalto, quattromila ducati all'anno al Monte comune. Si é dubitato, che la deficenza del minerale fosse un pretesto inventato dal Magnifico, il quale voleva eliminare ogni concorrenza all'allume di Tolfa: ma l'attestazione di Antonio Giugni, che aveva l'appalto di quelle miniere, non permette di dubitare che lo stato delle cave in codest'epoca rendesse veramente disastrosa la impresa (169). Le allumiere di Volterra furono, del resto, pochi anni appresso abbandonate del tutto (170).
Non per questo mutava la vantaggiosa situazione della Società dei Medici nel commercio dell'allume papale. Alla fine del 1474 Sisto IV Si vedeva costretto ad abbandonare nelle mani della Compagnia tutta la merce « venduta e non « venduta », che la Camera possedeva nei paesi occidentali, al prezzo di un ducato per cantaro, oltre alla consueta « tara » del tre per cento e alla regalia di cinquemila cantari di minerale « per discrezione » ai compratori. Nel proemio della convenzione, si giustifica la vendita a sì vile condizione con la enormità del credito che i Medici vantavano con la Crociata, con l'abbondanza degli allumi forestieri « che in grandissima quantità pullulavano ogni giorno dalle varie allumiere, negli altri paesi » e con la difficoltà di riscuotere il denaro dai compratori « respecto che le ditte sono facte « men bone, per le guerre et tribulatione intervenute nel « paese de là»(171). Come si vede, la nuova convenzione finiva di asservire a Lorenzo e ai suoi soci la impresa economica della S. Sede; essa mostra in quali gravissime distrette versassero le finanze pontificie e quanto avvilito fosse in quel momento il mercato degli allumi, specialmente nelle Fiandre. Se fossero note nei loro particolari le trattative che condussero a questa onerosa dedizione dell'amministrazione papale alla supremazia bancaria del Magnifico, e le vicende tutte dei rapporti finanziari tra la Società Medicea e la Camera papale in codesto tempo, gran luce ne verrebbe alla storia, pur sempre incerta, del fiero contrasto tra il battagliero pontefice e la repubblica dominata dai Medici.
Nel 1474 giova ricordarlo, le relazioni tra Sisto IV e i Medici già facevano presentire la rottura, ch'ebbe il suo clamoroso epilogo nella congiura dei Pazzi e nella conseguente guerra tra il papa e Firenze. Lorenzo de' Medici e Francesco de' Pazzi erano in quel tempo a capo delle due principali case bancarie di Firenze, e tale preminente posizione essi mantenevano in Roma tra i numerosi banchieri e mercatanti fiorentini stabiliti nel quartiere dei Banchi (172). È noto, come la rivalità fra le due potenti famiglie fosse economica oltreché politica: fors'anzi, la lotta era passata nel campo politico da quello commerciale; e il papa forniva nuova esca agli odii togliendo, nel 1476, alla Compagnia medicea diretta da Giovanni Tornabuoni la gestione degli affari pecuniari della Crociata per trasferirla ai due fratelli di messer Francesco, Guglielmo e Giovanni de' Pazzi (173).
Il 18 aprile del 1478 avveniva in Firenze il sanguinoso attentato contro i Medici, che costò la vita a Francesco de' Pazzi, la prigionia a Giovanni e l'esilio al maggiore dei tre fratelli, Guglielmo (174). E non trovò salvezza la grande famiglia, incalzata dalla vendetta medicea, nemmen sotto l'egida dell'amico pontefice. Nell'atto stesso che questi lanciava contro il Magnifico la scomunica, la quale ebbe per conseguenza la confisca di tutti i beni della sua casa, quindi degli allumi papali a lui ceduti in Occidente (175), anche i Pazzi venivano allontanati dall'amministrazione della Crociata (176) per volontà dello stesso pontefice, interessato a togliere ogni apparenza di complicità propria nella congiura : benché egli mantenesse anche in seguito, con altri mezzi, ai perseguitati la sua protezione (177).
La depositeria degli allumi passò ad una società genovese, intitolata a Visconte Cicala e Domenico Centurione (178); e i Medici dovettero attendere lungamente prima che la loro azienda mercantile di Roma, gravemente colpita dalla lotta tra Firenze e la Chiesa, riprendesse un regolare assetto. Sisto IV si era nel dicembre del 1480 rappacificato coi Fiorentini e li aveva prosciolti dalla scomunica, ma solo nella primavera dell'anno seguente Giovanni Tornabuoni poteva partecipare al Magnifico che i rapporti tra la Casa bancaria medicea e la S. Sede prendevano finalmente una buona piega, affacciandosi la speranza di poter regolare con la Camera gli affari pecuniari (179); e alla fine dell' anno il Tornabuoni doveva ancora tenersi pago di buone promesse (180). Si ha quindi da ritenere che i conti pendenti tra la Società dei Medici e la Camera papale (fra i quali teneva certamente un posto principalissimo la ragione degli allumi sequestrati) fossero definiti solo alla fine del regno del Della Rovere, e al principio del papato d'Innocenzo VIII, il quale ridiede al Magnifico la depositeria e l'appalto delle miniere. La scomparsa dei registri di questa amministrazione durante gli anni dal 1486 al 1488 c'impedisce di stabilire la data del ritorno dei Medici a capo di essa; sappiamo soltanto che alla fine del 1485 la depositeria era sempre in mano dei Centurioni di Genova (181), e che nei mandati dell'anno 1489 figurano quali depositari i Medici, sino al I° di giugno. Sotto questa data appare una nuova società assuntrice della confezione e della vendita degli allumi, quella dei genovesi Nicolò e Paolo Gentili (182), a cui subentreranno un'altra volta, negli ultimi anni del pontificato d'Innocenzo, i Centurioni (183). Oramai, col favore de' due papi liguri, l'azienda economica della Crociata rientrava nell'orbita dell'attività commerciale di Genova, di cui era stata tributaria ne' suoi primi inizi.
Ma, benché i Medici perdessero la concessione delle miniere e l'amministrazione degli affari pecuniari della Crociata, non venne meno alla loro vasta impresa mercantile lo smercio degli allumi papali. La Società medicea rimaneva tuttavia creditrice per somme fortissime della Camera apostolica, la quale dovette sacrificare alla estinzione del debito gran parte della merce fabbricata a Tolfa. Negli ultimi mesi del 1489 ben ventitremila cantari di allume si consegnavano in Civitavecchia ai Medici (184) « ad libitum eorum quocumque placuerit portanda et enaviganda, in deductionem maioris summae eidem Societati debitae » ; e ingenti quantità di codesto prodotto passarono in possesso della potente Compagnia anche negli anni seguenti, sino alla fine del pontificato di Innocenzo VIII (185), la quale segna altresì il termine della vita del Magnifico e delle relazioni di affari tra la S. Sede e la casa Medicea.

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