Ettore Pierrettori
LA TORFA DAL BARSOLO
Poesie in dialetto tolfetano
a cura di : Eugenio Bottacci, Giuseppe Morra, Angelo Pierantozzi
Introduzione
La pubblicazione di questa raccolta di versi in dialetto tolfetano potrebbe passare inosservata tra le tante promosse a vario titolo da Circoli, Enti pubblici e privati cittadini.
Essa merita invece, a nostro giudizio, un'attenta considerazione per due motivi: a) ci si trova di fronte ad una serie di componimenti non estemporanei od occasionali, ma permeati da una concezione e da una ispirazione poetica unitaria; b) il dialetto vi compare non come preziosismo o folklorismo linguistico, ma come mezzo espressivo necessario.
I risultati di questa ricerca sono conseguentemente rilevanti sia per quel che concerne la ricostruzione o rivisitazione di un mondo e di una cultura che rischia di perdersi nelle pieghe della storia, sia per un approccio corretto, un approccio che parte dal concreto, con le peculiarità espressive del nostro dialetto.
Dietro questi versi non c'è un letterato né solamente un cultore nostalgico del passato, ma una vita con tutte le sue molteplici e varie esperienze; c'è da dire semmai che il difficoltoso rapporto dell'A., e dei tolfetani in genere, con la lingua italiana, dovuto in parte allo scarso uso di questa nella realtà sociale del paese ed in parte retaggio di un angosciato rapporto con la scuola autoritaria dell'epoca, ha fatto sì che l'opera potesse essere concepita e realizzata solo in dialetto, unico mezzo possibile di comunicazione immediata.
Per ciò che concerne la biografia essenziale, diciamo brevemente che Ettore Pierrettori, nato ovviamente a Tolfa il 16/6/1927 da una famiglia di piccoli artigiani, ha vissuto la fanciullezza durante il "ventennio", l'adolescenza durante il 2° conflitto mondiale e la giovinezza nel periodo postbellico.
Tutto ciò contribuisce a spiegare sia il senso pratico che lo caratterizza e che trova la sua lontana origine nelle angustie e nelle dure necessità di una vita condotta in un clima di austera frugalità, se non di francescana povertà, sia la capacità di fantasticare e l'immaginazione ancora integre, che testimoniano di un bisogno, mai completamente soddisfatto, di evasione.
Passato nel dopoguerra attraverso le più svariate esperienze lavorative, ha poi conseguito il diploma di Geometra, per trovare una definitiva sistemazione come insegnante di Educazione Fisica; la raggiunta tranquillità economica ed il matrimonio non hanno frenato quel bisogno di socialità, di partecipazione attiva e fattiva alla vita della comunità che lo ha reso animatore instancabile di una miriade di iniziative, alcune delle quali di insostituibile valore (Banca tolfetana del Sangue), volte a ricreare quel senso della collettività messo in seria crisi dalle trasformazioni tumultuose e dalla distruzione del vecchio tessuto socio-economico, indotte dalla progressiva affermazione della società industriale e del "boom" economico.
La scoperta della poesia è avvenuta nell'A. in modo del tutto improvviso e fortuito; non ha infatti scritto un verso, né pensato di scriverlo, prima che, in un momento di intensa commozione, si sentisse spontaneamente, e diciamo pure presuntuosamente, spinto a farlo. Qualcuno potrebbe spiegare questo fatto ricorrendo alla teoria dell'origine mantica della poesia; a noi sembra, invece, che la cosa si possa spiegare più semplicemente se si tiene conto del fatto che il culto per la poesia "a braccio", per la battuta o l'arguzia "tirate" in rima è una caratteristica del nostro retroterra culturale popolano e contadino e, quindi, è facilmente spiegabile che tutti si sentano intenditori di poesia e siano in qualche modo "poeti".
In ogni caso questa scoperta è stata per Ettore come una rivelazione; una forte spinta interiore l'ha costretto ad affrontare un lavoro faticosissimo per chi, come lui, si è sentito sempre distante dai professionisti della penna o comunque non si era mai sognato di dover affrontare questioni di metrica o di stile. Si può pertanto dire che questa raccolta costituisca la testimonianza spirituale del suo modo di intendere la vita e del bisogno di risolvere, attraverso il vagheggiamento del passato, i problemi del presente.
Crediamo che la sua poesia scaturisca dall'ansia prorompente di dare un senso al vissuto, di analizzarlo, mettendone a fuoco i momenti umanamente più significativi; ciò spiega la scelta di alcuni temi che ricorrono costantemente e, soprattutto, l'uso del dialetto come unica forma possibile per vestire un contenuto altrimenti inenarrabile. La poesia sembra crescere su questo unico terreno di coltura, traendo un'ispirazione pressoché esclusiva dall'amore per la terra natale e dalla nostalgia per un mondo semplice, dai modelli culturali e comportamentali chiusi, ma stabili e certi, dai ruoli definiti e predeterminati dalla nascita, ma sicuri e privi della tensione esistenziale di oggi, dai rapporti umani standardizzati, ma gratificanti e tali da permettere di concepire e sopportare la fatica, la povertà e l'incertezza delle risorse come condizioni ineluttabili del vivere; ciò spiega riportati alla luce una cultura ed un modo di vita oggi agonizzanti, se non del tutto scomparsi.
Egli ha dunque spezzato una lancia a favore di una cultura rurale troppo spesso sottovalutata, riaffermandone il valore e prendendosi in questo modo una rivincita su quanti l'avevano relegata in posizione ancillare rispetto alla cultura ufficiale; lo spirito di questa rivincita abbandona però immediatamente il terreno del dibattito culturale per assumere accenti più strettamente personali: è la rivincita di chi, come l'A., ne ha sempre riconosciuto il ruolo fondamentale e l'immensa utilità pratica.
Alla società che ha prodotto questa cultura è rivolto, più che altrove, il suo sguardo ed anche quando il tema poetico non la riguarda direttamente, tuttavia si sente vibrare per essa una profonda simpatia.
Il mondo descritto è quello nel quale l'Autore ha vissuto la sua giovinezza dagli anni precedenti il II conflitto mondiale fino alla soglia degli anni '60. Di questo periodo egli dipinge un affresco che a volte assume il carattere della miniatura; la dovizia di particolari, con la quale descrive e puntualizza gli usi, le tecniche lavorative ed i momenti topici, contribuisce a documentare in maniera organica, anche sul piano storico e del costume, le peculiarità di questa cultura e del suo modo di produrre e di fruire.
Questa esigenza di documentazione, che costituisce un indubbio pregio della raccolta, nasce dalla consapevolezza dei caratteri particolari dell'economia agricola locale, anche in rapporto al contesto economico del periodo descritto. L'isolamento geografico, la natura impervia del terreno, i problemi connessi alla proprietà della terra, aggravati dal persistere dell'istituto giuridico dell'uso civico e della manomorta ecclesiastica, eredità pesante dell'Amministrazione pontificia, le difficoltà di adottare più moderne tecniche lavorative determinavano un'economia agricola di tipo chiuso, nella quale erano estremamente limitati lo scambio, la commercializzazione dei prodotti e la circolazione del denaro. Nel concreto ciò comportava un'economia familiare basata, per quanto possibile, sull'autosufficienza e quindi la necessità dell'acquisizione da parte di ognuno delle principali nozioni teoriche e pratiche proprie dei mestieri più disparati.
Allora in casa si faceva il pane, si risuolavano le scarpe, ci si adattava insomma a fare tutti quei lavori ed a produrre anche parte di quelle merci per cui oggi necessariamente ci rivolgiamo ad altri; era una vita dura, fatta quasi esclusivamente di lavoro nei campi, con lunghi periodi passati "a dormi' fòra". Il modo di vivere e di produrre comportava necessariamente una reciproca solidarietà, spingeva al rispetto dell'autorità e ad una religiosità sentita, ma, come in genere nelle culture contadine, quasi di tipo pagano, in cui la divinità era vista essenzialmente come protettrice delle attività economiche dagli «scherzi» di fattori imprevedibili e incontrollabili (maltempo, malattie del bestiame, disgrazie). La vita scorreva lenta, seguendo schemi fissi, attività periodicamente ricorrenti, feste che concedevano il meritato riposo, nelle quali il significato religioso si univa ad una esigenza ludica, di sfogo, di allegria, di partecipazione che era il naturale momento di pausa e di diversivo nelle asprezze del lavoro quotidiano. Testimonianza indiretta di questa organizzazione sociale era anche una struttura urbanistica raccolta, con abitazioni piccole e prive di servizi, nelle quali era normale dormire anche in quattro o cinque per camera. In questo modo vivevano Romèo de Bartòccia e l'Antenìsca e con essi la quasi totalità dei tolfetani, con le loro secolari usanze, le abitudini inveterate e gli schemi mentali cristallizzati.
Ad un mondo che così descritto perde gran parte del suo fascino l'A. si rivolge in continuazione, nel tentativo di recuperare la risposta ad un bisogno, che non è solo suo, di punti saldi di riferimento, di valori assoluti, di sicurezza, di pace, di serenità, di socialità, di autentico divertimento. Nonostante gli indubbi progressi materiali conseguiti in ogni campo dalla società industriale, il presente gli appare gravido di incertezze, di pericoli minacciosi per l'umanità, insoddisfacente sul piano dei rapporti sociali, futile benché ricco di molte possibilità di evasione, angoscioso per l'ampia gamma di scelte possibili che creano più tensioni che reali soddisfazioni.
La difficoltà, che anche ognuno di noi sente, di dare a questi problemi una risposta esauriente ed originale spiega l'importanza che alcuni aspetti del passato, poeticamente rivisitati e caricati del fascino del ricordo, assumono agli occhi dell'Autore.
In particolare vengono rivalutati gli elementi psicologicamente più gratificanti e che danno il senso della tranquillità e di un sicuro inserimento nella vita del paese: l'alto coefficiente di coesione sociale che tale modo di vivere consentiva, il diverso valore che allora avevano i rapporti umani e la solidarietà tra gli individui, il fatto che i problemi di un uomo fossero i problemi di tutti perché tutti incontravano gli stessi ostacoli ed identico per ognuno era il modo di superarli, i legami di parentela ed il vivere a contatto di gomito sia nel paese che in campagna e le "voci" che i confinanti si davano per sollevare un momento la schiena dal terreno, per consigliarsi a vicende e per scacciare la solitudine.
Pur avendo un fascino poetico indiscutibile ed un valore documentario di notevole importanza, questa ricostruzione non rispecchia fedelmente e completamente la realtà effettiva del periodo, tendendo, in quanto poesia di memoria, a privilegiarne gli aspetti positivi. Al di là del loro intrinseco valore, queste poesie possono quindi comportare il rischio di una visione parziale, e come tale distorta, del passato descritto liricamente e, soprattutto, il "pericolo", in particolare per le nuove generazioni, di ricercare in uno sterile vagheggiamento di un'età tramontata il superamento dei problemi dell'oggi.
Non possiamo infatti dimenticare le spinte verso nuove professioni, verso la certezza del lavoro e del reddito che ognuno di noi ha ricevuto a partire dagli anni '50, quando questo organico sistema socio-economico-culturale iniziò una irreversibile crisi, frantumato dall'impatto con il progressivo affermarsi della società industriale: segno indiscutibile, questo, di una fondamentale precarietà di quel "sistema" di vita che, in fondo, tutto bello e piacevole non doveva essere.
Quella fuga a cui noi giovani fummo di fatto costretti ci creò anche un atteggiamento negativo verso il passato che, inconsapevolmente, fummo portati a rimuovere, a dimenticare, spesso quasi ad odiare; è questo l'atteggiamento che va criticamente rivisto e corretto ed è anche in questo senso che riteniamo che queste poesie possano costituire un'occasione per tentare di sanare quella frattura che si è creata nella nostra storia, per conoscerla non in maniera apologetica o folkloristica, ma in maniera obiettiva e razionale.
Al di là di queste considerazioni critiche, non si può non riconoscere l'indubbio valore poetico e linguistico della raccolta. Colpisce immediatamente la capacità di rappresentazione pittorica dell'ambiente e dei personaggi, che vivono con esso quasi in simbiosi; l'ambiente non è visto come qualcosa da sfruttare e da sottoporre a rapina selvaggia, ma come parte integrante delle condizioni inamovibili in cui si svolge la vita grama di questa comunità. Esso, per quanto conservi sempre un carattere di potenza misteriosa che puòessere fonte di imprevisti pericoli, va comunque sondato e progressivamente conosciuto con costanza e pazienza, conservandone i segreti in tecniche codificate e tramandabili, fino a farne una presenza usuale ed amata; è da ciò che nasce l'amore per la terra natale, minuziosamente descritta nelle sue caratteristiche culturali ed ambientali.
"Le cantine del Bassàno, la fontana de la Lìzzera, 'l Belvedere, 'l Torione, 'l Convento de le Cappuccìne, la Ròcca" sono alcuni dei luoghi descritti con semplicità, ma anche con notevole efficacia, attraverso le pennellate amorose dell'Autore.
I personaggi sono colti in questo ambiente nel pieno delle loro attività, dei passatempi, delle feste, delle sofferenze con una ambivalente capacità di rappresentazione drammatica o comica, con una vena a volte ironica, a volte incline alla predicazione morale o alla considerazione sapienzale. Specie laddove l'A. ha conseguito una sperimentata perizia tecnica nell'uso del dialogo ("A la fontana de la Lìzzera", "La cursa de le cavalle pe' sant'Antògno abbate", "La tribbiatura") i personaggi sono di una freschezza e di una spontaneità difficilmente conseguibili.
Quelli tratteggiati con maggiore efficacia (Romèo de Bartòccia, Sergetto, Nino, Cammilletto, Greto', la sora Pà), più che caratterizzati da una loro autonoma dinamica psichica, sono "figure", tipi umani che nella loro fissità danno uno spaccato di tutta una organizzazione sociale; questa valenza collettiva dei personaggi è indirettamente ribadita dalla meticolosa descrizione dei riti, delle costumanze, delle attività.
Efficace e sapientemente colorita è la descrizione del "rito" del bere ne "La fraschetta d'inòro": "e manna via la schiuma... n'ave' fretta / co' 'n goccio sciacqua e le bicchiere avvìna, ché l'acqua bbòna è quella benedetta".
E come dimenticare la delicata raffigurazione del fare e del cuocere il pane in "Quanno commannàva la fornara" o della preparazione di un piatto tipico ("La trista") oppure di una costumanza (la "spesa" settimanale) in "Nde le bisacce e dentro a le catane"?
Non meno valida è la descrizione delle attività lavorative, che vengono tratteggiate nella loro rude essenzialità (la vangatura, la spicchiatura, la mietitura, la trebbiatura, ecc.) e con un realismo, a volte crudo, che assume accenti di rassegnato pessimismo o di velleitaria protesta egualitaria.
Le immagini di alcuni sonetti sono di intensa drammaticità: "stanno ècco qui come anime addannate / che scónteno le pene nde'sto monno / ...e a ogni picconata che te sfèrra / fa 'n fiòtto che più gnènte cià d'umano" ("Lo spicchiatore"); "la fronte è molla e de sudore gronna" ("'L vignaròlo"); "si appìcciche de pórvere e sudore, / si magne a pranso solo du' boccone / e si lavore al sole pe' tant'ore" ("La sapiènsa de 'n patre"); "se scórtica le piede 'n processione / dietro a Cristo che nde la bara giace" ("La processione del Vennardì santo").
Di fronte alla sofferenza, al bisogno, alla fatica, che sembrano essere il pane quotidiano della società descritta, l'A. assume atteggiamenti che possono apparire contraddittori.
A volte appare dominato dal pessimismo più nero: "ma sempre al bene è preferito '1 male / e come passa 'l giorno de Natale / smorsàmo le candele all'alberèllo / e tutto aridivènta tale e quale" ("Le promesse de Natale"); "e, peggio de Caino coll'agnèllo, / scannàmo pure no' 'l nostro fratello: / ndove guarde va tutto a scatafasce!"
("Se continua a rubbà …mo pure 'n chiesa").
Spesso la sfiducia nel presente e nel futuro si trasforma in invettiva contro il progresso tecnologico ("ma 'n prèscia e alato vinne 'sto progresso / che cambiò tutto, pure '1 lume a mano, / ... ma come sempre 'l peggio vène apprèsso" in "La tribbiatura"; "... che succederà / quanno sarà finito '1 garburante? / ... Tutte sò' mute e tutte sò' 'gnorante" in "'L travàjo"), evidenziando chiaramente le insicurezze, le paure e la diffidenza verso il nuovo che giocano un ruolo fondamentale nel provocare frequenti variazioni di umore nell'animo dell'Autore.
A volte questa forma di misoneismo lo spinge a tentazioni di tipo autoritario ("La pedagoggìa", "Terra a le contadine", "'L focaraccio de la Madonna de Loreto").
Peraltro l'insoddisfazione del presente, il senso del decadimento sociale e l'immagine di un progresso che gli appare come un bulldozer che spazza via tutto suscitano in lui ingenui slanci di rifondazione millenaristica dell'umanità: "n' potrebbe '1 Bambinello 'sto Natale / arifà 'l monno da le fonnazione, / arimpastàcce e facce tutt'uguale?" ("La pascipèquera'); "Signore, ascórta 'n pò' 'st'invocazione: / a chi vò pace, dalle 'n pò' de pace!" ("La processione del Vennardì santo").
Raramente si possono notare nella raccolta momenti di pacato e fiducioso ottimismo: "nne 'sto momento te s'arifà 'l còre / e la vita te fa 'n'antra 'mpressione / ... la gioventù 'ripensa a fa' l'amore" ("'L caréggio"), "La viggìja de natale".
Ma al di là dei contenuti ideologici, più o meno discutibili, ci preme sottolineare i valori più propriamente poetici della raccolta. Essa, oltre alla già accennata capacità di rappresentazione delle situazioni e dei personaggi, evidenzia nell'A. doti di inventiva e di evocazione fantastica. Gli esempi che si possono addurre sono innumerevoli; specie quando egli descrive usanze ed attività ricorrenti, le immagini si formano sotto gli occhi del lettore con una immediatezza che solo il vissuto può consentire in qualche modo di ricreare. Alla piena riuscita di questa raffigurazione quasi filmica del passato concorrono con estrema efficacia i paragoni e le similitudini, il dialogo, il linguaggio.
I paragoni e le similitudini, nella loro diversa struttura, sono tutti tratti dalle esperienze di vita del mondo descritto e sono di una forza espressiva che difficilmente è dato di trovare in pubblicazioni "minori": "sparì come 'na bolla de sapone / che schiòppa e rèste llì come 'n babbèo" ("La tribbiatura"); "co' quella bocca che schiumava bava / come 'n cavallo che 'mpàstica biada" ("'L travàjo"); ".. è callo com'al forno, / gocciate come torde 'mpirottate" ("Le metitore col rifreddore"); "è come 'n ciòcco che ce casca 'n tòno" ("'L trapianto"); "come nde l'incannato 'l pequeraro / pe' carosa' le pèquere 'mpastora, / cossì faceva, quann'ero scolaro, / pe' strascinamme a la pettinatora" ("Davante a la pettinatora"); "col vellutino dentr'a 'na balletta / tutta sbucata che sortìva fòra / come 'l carcàgno fa da 'na carsetta" ("Tempo de presèpio").
I dialoghi hanno spesso una funzione puramente strumentale; dove ciò non accade sono di una vitalità e di una vivacità raramente raggiungibili. Graziosamente realistico è il quadretto de "A la fontana de la Lìzzera", in cui sembra quasi di essere lì ad assistere al battibecco delle due "lavannàre".
Di una immediatezza quasi fumettistica, che ricorda il "Fili de pute, traìte... falìte de rètro co' lo palo..." dell'affresco altomedioevale nella chiesa di San Clemente in Roma, è l'inizio de "La tribbiatura": "A le vèntele!... Quella corda accórta!... / Tu méttece più ffòrsa nne le mano!... / N' vedete che la tribbia s'arivòrta?!... / Spignéte che fra 'n pò' saremo al piano!".
Concorrono ad accrescere il valore poetico della raccolta le valenze espressive del dialetto, che l'A. fa vibrare in tutta la gamma delle sue tonalità.
Egli riesce a far convivere, senza che l'afflato poetico ne risulti
attenuato, toni aspri e dolci, come in "La Ròcca accappannata" ("e quanno 'n terra scròcchia 'na saetta, / che schiara tutto co' 'na gran lampata"), in cui alla potenza icastica del primo verso si contrappone la gelida calma gravida di sinistro stupore del secondo.
In alcuni casi le asperità acustiche del dialetto contribuiscono a rendere in modo ancora più adeguato immagini di crudo realismo: "annò a strucià la faccia su le sasse" ("'L travàjo"); "sul sercio 'l ferro sguilla e fa la fiàra" ("La cursa de le cavalle pe' sant'Antògno abbate"): "ma 'nvece se 'ntrippò 'n pò' più de 'n pòrco" ("Gnòcco e le maccarone de Natale): "c'è chi magna poco e c'è chi schiòppa" ("La coppa all'ùrtimo").
In altri il dialetto consente all'A. di rendere felicemente quadretti di idillica vita familiare, campestre o paesana: "'ntanto che ve 'mpanate 'n sarciccetto" ("Meno companatico e più pane"); "c'è 'l bròcquelo lessato e 'n torroncèllo / facémese 'na bella tombelata" ("La viggìja de Natale"); "'Ntorno al cammino, co' 'n bel fòco acceso / de staggionato cerro che bruciava, / llì, da 'na parte, 'l cane stava steso / co' 'n gatto 'n gròppa che se riscallava" ("Fatte de guerra"), "La ricotta” “La carosa” “Quanno commannava la fornara", "Guardanno dal barsòlo", "Quanno se giocava co' le nòccele de pèrsica", ecc.
In altri casi, infine, è da notare soprattutto la forza espressiva di certi termini, in gran parte legati al loro primitivismo onomatopeico, chiara manifestazione linguistica di una società chiusa, che riescono a dare un tono al verso stesso o all'intera frase: "scanàja a sera le terre spicchiate" ("Lo spicchiatore"); "e nazzicànno 'ntanto s'aripòsa / ... bira la tòppia e a posto pò' la posa" ("'L vignaròlo"); "sverte nde 'l tròcco 'nnarono a sgrufà" ("La ricotta"); "'n paro sta a 'pporià gregne sul parchetto" ("La tribbiatura"). Oltre a svolgere un ruolo essenziale nella coloritura del verso questi verbi hanno in sé una tale capacità di aderenza alle azioni da trasformarsi direttamente in immagine.
Lo stesso si può dire, anche se per la loro funzione nel discorso ciò risulta meno, per aggettivi come "'mpetorato, annacciarìto, arruzzenìto".
Meglio, più che nelle singole parole, è dato cogliere le possibilità espressive del dialetto nei modi di dire, nelle immagini e nei paragoni tipici del luogo: "la moje sta a cazzòla ... la rastrijéraè troppo bassa ... la vanga ammazza e 'l picchio t'assottèrra ... qui se lavora troppo e a poca stòzza … ha da parti' a brijòzzo … pe' covà / sée mèjo de 'na lòcca padovana … Ceciarèlli 'rivava come gnènte ".
Di particolare suggestione sono le immagini di alcuni animali colti nella peculiarità della loro funzione o del loro modo di essere: "'l bòvo... lèmme lèmme arivortàva 'n prato" ("L travàjo"); "la capra ... sarta nne 'l tajo e rósica le cacchie" ("La carosa'); "la cecala se fa la su' cantata, / la pèquera, belànno, va a mareggio / ...
‘l sumàro … spetazzànno ciarrancava" ("'L caréggio").
Sebbene l'A. abbia fatto uno sforzo non comune per scrivere "organicamente" in dialetto, la raccolta evidenzia una inarrestabile "corruzione" linguistica; prescindendo dai rari casi in cui vengono adottati termini non dialettali per esigenze metriche o di rima (ad es. "fretta" per "prèscia", "maiale" per "pòrco", "a la chetichèlla" per "de 'nguattóne", "mercante" per "compratore"), non si possono non registrare parole "spia", che sfuggono alla sua penna e che rivelano una evidente degradazione del dialetto (ad es. "quann'anche" per "pure si", "secchièllo" per "bidoncèllo", "evento" per "fatto", "perfetta" per "bbòna", "mente" per "testa, ciarvèllo", "delizia" per contentezza”, “all’istante” per "llì pper llì").
È chiaro che ormai la lingua, o meglio il gergo, dei mezzi di comunicazione di massa, insieme alla sempre più rapida integrazione delle comunità e delle culture locali con le realtà tipiche del mondo moderno, stanno distruggendo il dialetto. Ciò appare ancora più evidente se si tengono presenti i termini e le espressioni che hanno ancora un largo spazio nella raccolta, ma che nell'odierno dialetto appaiono marginalizzate o desuete; infatti espressioni come "'l pòro 'ngegnere, bella stretta" e termini come "stòzza, appòrieme, scanàja, annoiate, rinnaccià, annacciarìto, strina, l'allecconìveno, alluccate, avvettate, schiòppa, scròcchia" tendono ad essere sostituiti con i loro equivalenti in lingua. Altri sono destinati a morire per il venire meno delle situazioni, delle attività o degli strumenti da essi significati: "ara, corte, precòrio, incannato, patentino, monnarèlla, calà l'archette, carrùquela, trocchetto, buzzichetto, móndelo, cartassùga, callamaro, schifo, pónguelo, frocette, travàjo, pettinatora, fojetta", ecc.
Ci rendiamo conto che questo tentativo di analisi dell'opera non è sufficiente per cogliere pienamente la poesia che vi aleggia al di sopra dei valori contenutistici, linguistici o formali e che certamente la bellezza o la forza del verso trascendono il taglio critico della
nostra lettura.
A nostro giudizio però non si può sottacere che, al di là dei suoi pregi poetici, la raccolta assume un valore di documento e come tale, oltre a costituire un contributo alla più generale e recente rivalutazione delle culture "subalterne", può rappresentare una stimolante occasione per un tentativo di ricostruzione della storia e delle espressioni culturali e linguistiche di una "gente" dimenticata.
Eugenio Bottacci
Giuseppe Morra
Angelo Pierantozzi
Tolfa, ottobre 1981
Senza nessuna pretesa di spiegare le origini storiche o i collegamenti del dialetto tolfetano con determinati ceppi linguistici, lavoro che richiederebbe una apposita ricerca di notevole impegno, illustriamo qui di seguito le sue caratteristiche principali e le soluzioni tecniche adottate per rendere la lettura aderente quanto più è possibile alla pronuncia di tutti i giorni.
I principali aspetti caratteristici di questa "lingua" sono:
I principali aspetti caratteristici di questa "lingua" sono:
- l'uso esclusivo del genere femminile nel plurale di tutte le parole, anche di quelle di genere maschile ("'l cane", pl. "le cane"; "'l sasso, pl. "le sasse", ecc.);
- la trasformazione dei suoni interposti -co- e -go- in -que- e -gue- (pecora = "pèquera"; pungolo = "pónguelo", ecc.);
- l'uso della -i- consonantica (j) al posto del gruppo consonantico -gl- (taglio = "tajo"; aglio = "ajo", ecc.);
- la trasformazione del gruppo consonantico -nd- in -nn-, soprattutto nel gerundio;
- l'uso molto frequente della -n- rafforzativa (dove = "ndove"; già = "ngià"; nel = "nne 'l", ecc.);
infine un uso frequentissimo di contrazioni ed elisioni (può ="pò"; vuole = "vò"; viene = "vène", ecc.).
Per quanto riguarda le soluzioni ortografiche adottate, è necessario prestare molta attenzione agli accenti delle vocali -e- ed -o- (è -ò, suono aperto; é - ó, suono chiuso) ed all'apocope ('); nelle parole tronche questa indica che l'accento cade sempre sull'ultima sillaba e che il suono è chiuso per -e- ed -o-, tranne nei casi in cui l'accento aperto è espressamente indicato sull'ultima sillaba o su sillabe precedenti ("èsse'" = essere, ecc.).
Le vocali -e- ed -o- delle sillabe non accentate devono essere pronunciate con il suono chiuso, tranne nei casi in cui la grafia è identica a quella in lingua, richiedendo così l'uso della pronuncia corrente.
Nei termini dialettali ad indicare il troncamento è stato usato l'accento anziché l'apocope.
Si presti attenzione all'uso della consonante -n- preceduta o seguita dall'apocope e si intenda come segue:
'n = un, in
n = non
Forniamo infine un elenco delle espressioni verbali e dei termini più spesso ricorrenti per evitare un eccessivo ricorso alla notazione:
quarchi = qualche pròpio = proprio
'n antro, 'n'antra = un altro, un'altra
ò = o, oppure nne 'l = nel
nde '1= nel (dentro)
vò = egli vuole - io vado
vòe, vònno = vuoi, vogliono
adè, adèra, adèreno = è, era, erano
pò, pònno = egli può, essi possono
sò' = io sono, essi sono
adàe da = devi
il verbo "avere" è sempre preceduto dalla sillaba ci- (ciò, ciavévo = io ho, io avevo, ecc.)
pò' = poco - poi
Per altri termini e modi di dire tipici si rimanda alle Note in calce a ciascuna poesia.
Ettore Pierrettori è nato a Tolfa (RM) il 16/6/1927.
Passato, nel dopoguerra, attraverso le più svariate attività lavorative, ha poi conseguito il diploma di Geometra ed in seguito, ottenuto il titolo I.S.E.F., ha trovato una definitiva sistemazione come insegnante di Educazione fisica; è attualmente in pensione.
Ha scoperto la poesia quasi all'improvviso, alla fine degli anni '70, come risposta all'ansia prorompente di dare un senso al vissuto, di analizzarlo, mettendone a fuoco i momenti umanamente più significativi.
Il mondo descritto nelle sue composizioni è quello nel quale egli ha vissuto la sua giovinezza, negli anni precedenti il II conflitto mondiale, fino alla soglia degli anni '60.
L'uso del dialetto tolfetano non si presenta come preziosismo o folklorismo linguistico, ma come mezzo espressivo necessario a rappresentare una realtà altrimenti inenarrabile. Nel 1982, per i tipi del Gruppo Editoriale Forma di Torino, nella Collana «Biblioteca degli scrittori in dialetto e lingue altre», diretta da Tullio De Mauro e Maurizio Pallante, ha pubblicato «La Tòrfa dal barsòlo», che ha ottenuto un lusinghiero successo di critica e di pubblico.
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