LA CASETTA DI TARTANELLA
Tolfa, li 7 marzo 1991
Sono pochi metri quadrati, non arriva a quaranta e pure in quello spazio non una ma più famiglie trovano rifugio, conforto, speranza. Ieri una superficie coperta, con porta e finestre, oggi uno spazio abbandonato senza tetto, senza infissi: sono rimaste le mura dure, quadrate e squadrate di pietra decise a non morire. E’ la CASETTA DI TARTANELLA, sulla rotabile Nocchia - S. Anzino, alle falde dei Monti dell'Acquatosta, tra Valleascetta e le Macchie, riparata dai venti. Lì in quella casetta, disegnata
dal primo "architetto" di questa terra per rappresentare la più piccola abitazione: quattro mura, un tetto, un fil di fumo, intere generazioni di tolfetani convissero. E nella convivenza fatta di fatica e sudore trovarono la gioia e la forza di vivere lavorando la terra dall'alba al tramonto. Lì cucinarono i pasti frugali della povertà gentile, lì sognarono raccolti abbondanti, lì sorrisero e piansero nel segreto dell'anima forte e contadina, nelle notti d'autunno, d'inverno e di primavera, d'estate. Di giorno, lontani dalla casetta, erano a "spicchiare" o cavar pietre, d'agosto; a zappare e seminare di novembre e dicembre; a fare "monnarella e terranera" di gennaio e febbraio; a mietere, carrucolare e trebbiare il grano nei mesi di luglio e agosto. Un anno intero, intervallato da periodi d'attesa, per un'attività che si chiamava FARE LA SEMINA.
A produrre quel grano senza il quale non si andava al molino, non si faceva il pane, e senza il pane nella madia era la fame nera. Bisognava raccogliere, avere il raccolto, senza il quale non si poteva pagare i debiti. Invece col raccolto i debiti venivano cancellati, il credito veniva rinnovato. La vita scorreva nella sua durezza, nella sua povertà, nella sua onestà. E le semine, nella grande maggioranza, venivano fatte sui terreni dell'Università Agrarie di Tolfa, che assegnavano le quote di terreno alle famiglie.
Alle quali veniva richiesto il versamento del "terratico" consistente nel pagamento in natura di un sesto del grano prodotto. Le parti che venivano assegnate erano piccole quote, uno staro, cioè mille e cento metri quadrati, sul quale si poteva seminare quindici chili di grano: UNO STARO DI GRANO PER UNO STARO DI TERRA. E bisognava zappare la quota ricevuta in semina e più zappe, zappatori c'erano in famiglia tante più quote si potevano zappare, perché chi non sapeva o poteva fare la semina, lasciava la propria quota ala famiglia numerosa. A volte si poteva ovviare alla zappatura con l'aratura mediante buoi, ma allora bisognava pagare il "boattiere-bifolco", che era un personaggio importante, quasi un signore, nella conduzione delle semine collettive e private a Tolfa. Avere un paio di buoi significava essere un possidente, traguardo che a volte si raggiungeva se il raccolto era andato bene, ossia se le quote seminate erano state diverse e molte le braccia a seminare. Queste cose che ho scritto tornavano nella mia mente, l'altro giorno nella Casetta di Tartanella, che meriterebbe di essere ristrutturata. Perché una storia lunga di dolori, di fatiche, di amore, di civiltà, di cultura non può essere cancellata. Guai a quel popolo, a quella società, a quella comunità, a quella famiglia, a quell'uomo in una sola parola, che vuole seppellire il suo passato, la sua storia. Sarebbe una cosa contro natura, non avrebbe una guida sicura per l'avvenire. E siamo sicuri che il ricordo della Casetta di Tartanella farà breccia nel cuore degli amministratori attuali dell'Università Agraria. E il poeta che nell'anno di grazia 1980 scriveva questi versi: "Concerto canoro/ di passere selvagge/ nella brughiera/ la sera d'estate/. Viatico gentile/ alla casetta abbandonata/ di Tartanella/", dovrà ripensare un sonetto nuovo, per quella stanza, per quella Casetta, ricostruita.
|