La «cappanna»
In fondo a questa sezione di sonetti, l'autore ritiene opportuno proporre una breve scheda che possa servire ad inquadrare, da un punto di vista storico e delle tradizioni popolari, il concetto antropologico ed ambientale nel quale ruotano personaggi, paesaggi della memoria, riferimenti, lavori ed abitudini ormai dimenticate.
Bisogna premettere che, secondo la tradizione agricola del passato, l'uomo lavorava nei campi e la donna si occupava della casa e di tutte le incombenze domestiche e familiari, oltre a collaborare al lavoro agricolo del marito.
Si determinava, quindi, una precisa e netta divisione spaziale, che era anche una divisione di competenze: la casa alla donna; la «cappanna», la stalla e la cantina all'uomo.
La «cappanna», costruita in campagna, serviva al contadino sia per dormirvi, perché trascorreva gran parte della settimana lì, sia per riporvi gli attrezzi necessari ai lavori del podere.
La stalla, situata alla periferia del paese, serviva per il ricovero dell'asino e di altri animali utili all'economia agricola (maiale, galline, conigli, etc...); la cantina serviva, invece, per la produzione e la conservazione del vino e per riporvi altri utensili utili per la casa.
La capanna aveva diverse forme, a seconda dell'uso che se ne doveva fare. Vi era quindi la capanna per il «pequeraro», la capanna per il «carbonaro», la capanna «dormitorio» (V. «'L lamento del zi' Leo'» a pag. 31), che veniva costruita dalla locale Università Agraria per i suoi utenti, ai quali dietro pagamento del «terratico» venivano assegnate, per due anni, «quote per la sementa», cioè parte del terreno di sua proprietà situata a «Santonsino», alle «Carbonare», a «Valliccetta», a «Vargioncose», etc...
Altro tipo di capanna era quella per il ricovero degli animali (cavallo, mulo e somaro) che, di solito, aveva una forma rettangolare con le pareti verticali di una altezza variabile da mt. 2 a mt. 2,50, ed era sormontata dalla caratteristica copertura a schiena d'asino.
Questa doveva prevedere il «posto» per il fieno, il «posto» col «serciato», sul quale veniva collocata la «magnatora» e la «rastrijera», il «posto» per il deposito dell'«imbasto», delle «ciste» e altri mezzi per il lavoro del podere.
In questa scheda prendiamo, ad esempio, la costruzione di una capanna di un modesto agricoltore con un piccolo nucleo familiare.
Il «posto» per la sua costruzione era una «spianata» a ridosso dei venti dominanti della zona; un posto che fosse lontano dagli alberi, per evitare la caduta dei fulmini, e bene esposto al sole.
Stabilita la grandezza, da 2 a 3 mt. di raggio, si «scorticava» il terreno privandolo delle zolle superficiali e, piantando un picchetto nella zona centrale con una corda (la «capezza» o «l'ingiàcquelo»), si tracciava la circonferenza di base e con il piccone si scavava un solco, «carraccio», non tanto profondo, dove venivano piantati gli assi portanti, le «filagne» o «pedagnòle».
Per quanto riguarda il materiale da impiegare nella costruzione della capanna erano ideali le «filagne» di castagno, che potevano recuperarsi nella «palara», bosco ceduo che veniva tagliato periodicamente sotto il controllo delle Guardie Forestali.
La parte più grossa, il piede della «pedagna», costituiva il «passone», che serviva e serve tuttora per l'edilizia e per la costruzione di recinti (circa mt. 2,50 di altezza); la parte superiore più «fina» e più lunga è la «filagna»: Andava bene, comunque, qualsiasi altra pianta a seconda della «macchia» più vicina al podere. Tolta la corteccia, «monnata» e bruciata la parte da interrare (in questo modo il legno, tagliato a luna calante, durava più a lungo), gli assi così ricavati venivano conficcati nel solco, distanti l'uno dall'altro da 70 a 80 cm.
Regolata l'altezza, si riunivano e venivano legate le punte facendo in modo che la parte curva, già esistente o creata artificialmente, della «filagna» si venisse a trovare all'esterno per dare un assetto rotondo e più snello alla capanna.
Gli assi portanti (filagne) si fermavano utilizzando «le vimmine», rami lunghi e flessibili e di una certa consistenza, di ornello, castagno, «nocchio» o «crògnelo», etc..., che venivano fissati con legacci di «sarcio» (salice) orizzontalmente e paralleli ad una distanza di circa 40-50 cm. tra di loro.
Prima di ricoprire questa intelaiatura veniva fissata la porta, che quasi sempre veniva aperta a levante per far entrare i primi raggi del sole; non doveva essere tanto alta, perché prendesse il meno possibile acqua e vento. Messa a punto la porta con questi accorgimenti, si potevano incominciare a sistemare sull'intelaiatura i fasci di «cataluccia» partendo dal basso e sovrapponendoli via via, proprio come si usano le tegole del tetto, per far scorrere esternamente l'acqua piovana.
Quando si tagliava il «canneto», in gennaio-febbraio, e sempre a luna calante, dopo aver scelto le canne più grosse, «le scontre», per «palare» la vigna, si mettevano da parte quelle che dovevano servire nell'orto per le piante rampicanti, fagioli, piselli, pomodori etc...; la parte rimanente, più sottile e da scarto, «la cataluccia» o «cannuccia», veniva usata anche per questi lavori.Per la copertura della «cappanna» si adoperava anche la ginestra o «lo stoppio» (stoppia) sradicato e raccolto in mazzetti, e fissati con lo stesso sistema della cannuccia, a partire dal basso in alto, e sovrapposti. Questi elementi venivano fissati legando con il «sarcio», che è il «punto», al vimine orizzontale interno opposto ad uno esterno e fermati con diversi «punti».All'interno si assestava una o due «rapazzole», (giacigli), e nel centro un «lastrone», sasso liscio e di forma abbastanza grande, sul quale si accendeva il fuoco, e infine per «divozzione» sul culmine della «cappanna» veniva posta una piccola croce di legno.
«'L solengo»
(Il re della macchia tosco-laziale)
Tra i mammiferi selvatici dei suini, «cinghiale», chiamasi «solengo» il maschio adulto che abitualmente vive solitario. Può raggiungere un'età variabile tra i 15-20 anni; si «sbranca», si isola dal branco, quando non è più adatto alla riproduzione, oppure quando, anche all'età di due anni, viene allontanato di forza dal branco dai maschi di circa 5-6 mesi.
Vive nella macchia folta; allo scoperto è diffidente; mangia dove non sente la presenza di altri animali, cibandosi di erbe e ghiande, nonché di rettili dei quali è gran divoratore. Quando scarseggia questa alimentazione si nutre di tuberi e radici.
Caratteristiche principali:
II «solengo» maremmano pesa circa 60 kg.; oggi, con l'immissione di altre razze, in modo particolare quella ungherese, può arrivare anche a 80-90 kg. Tarchiato, con la testa lunga e stretta, orecchie erette, ha per difesa quattro grossi canini, due nella mascella superiore e due in quella inferiore, molto pronunciati, conformati a zanne, che possono arrivare ad una lunghezza di 10-15 cm. e che sono usati come micidiale arma d'attacco.
La parte anteriore del corpo è robusta, mentre più piccola è la parte posteriore. La linea del corpo è curva verso il basso ed è ricoperta di setole lunghe, nere e brizzolate di grigio-giallastre. Le setole, ancora oggi, vengono usate dai calzolai con funzione di aghi. Dure e flessibili, vengono facilmente innestate nella parte estrema dello spago, precedentemente incatramato, potendo così penetrare nel foro praticato dalla lesina. Nella cucitura doppia, che viene praticata all'interno della tomaia, è quasi impossibile usare un ago rigido.
Il «solengo» nelle spalle presenta delle zone, «piastre», di pelle ruvida e senza pelo. Tutto il corpo è ricoperto da una cotenna callosa e spessa, la «codica».
Si pensa che sia questa la parte che il cinghiale offre alla vipera per il micidiale morso, zona perforabile con difficoltà, e dove il veleno iniettato può diffondersi a stento essendo la zona essenzialmente priva di vasi capillari.
La caccia al «solengo» o «cacciarella»
Ancora oggi, a parte l'uso di fucili a ripetizione e di cartucce più potenti, la «cacciarella» si svolge con il metodo tradizionale. Ci sono diverse «società», con nomi che si tramandano di generazione in generazione e nomi moderni. Le gerarchie interne sono sempre le stesse, il capocaccia, i canai, i battitori, gli ospiti...
Individuato nella macchia il «maneggio», il pascolo abituale del «solengo», il capocaccia decide la data della «cacciarella» e la zona della macchia da occupare per la battuta. Per questa operazione la zona viene prenotata picchettando diversi punti perimetrali con bivacchi di due o tre cacciatori, che si alternano nei turni di guardia per diversi giorni e notti generalmente intorno ad un fuoco, che oltre a riscaldare indica ad altre società la zona prenotata.
All'alba del giorno stabilito, il capomacchia sistema le «poste» nei punti dove i cani dovrebbero indirizzare il cinghiale e in tutti gli altri punti dove si pensa che l'animale potrebbe dirigersi; se c'è un ospite di riguardo si cerca di «appostarlo» in una zona favorevole per l'abbattimento.
La caccia al «solengo» si fa con i cani «da seguita» segugi, cani particolarmente addestrati a questo tipo di caccia. Questi si lasciano abbaiare a fermo ed a lungo. Se i cani sono molto aggressivi e si avvicinano troppo al «solengo», questi reagisce ed attacca avendo spesso la meglio e producendo ferite il più delle volte mortali (sventra e sbrana).
Il «solengo» rimanendo nella «lestra», suo covo abituale, è costretto dai canai e dai battitori, che urlano e sparano in aria con fucili caricati con cartucce a salve, o facendo esplodere mortaretti, ad abbandonarla ed a dirigersi verso le poste, dove è atteso dai cacciatori.
Normalmente questa operazione, che riesce bene per i cinghiali abbrancati, è, invece, difficoltosa per la caccia al «solengo»; quindi i «canai» ed i cani con molta cautela si avvicinano all'animale che sta a «vento buono» (sotto vento), con il vento in faccia, e i cacciatori possono così sparare al cinghiale nel suo covo, nella «lestra».
Appena ucciso, la prima operazione che si deve fare è evirarlo ed asportarne la vescica per non inquinare le carni; lo si fa annusare ripetutamente ai cani, per togliere loro la paura della bestia: Si chiude così la «cacciarella».
Una volta il «trofeo» si portava in paese a dorso di somaro o mulo, e il suo arrivo veniva annunciato con spari di cartucce a salve. Oggi i cacciatori arrivano in paese con le macchine, cosa che è meno spettacolare. Appesa la preda in bella mostra in qualche norcineria, viene successivamente sezionata e divisa tra i soci.
Al cacciatore che ha ucciso il «solengo» spettano di diritto la «corata» e la testa, nel caso che voglia imbalsamarla.
Durante gli incontri abituali dei cacciatori nelle osterie, intorno ad un buon bicchiere di vino, si continuava a parlare a lungo del «solengo», delle ferite trovate sul corpo e delle varie palle e pallettoni che aveva ricevuto nelle precedenti battute; e, naturalmente, più se ne erano trovate, più «importante» diventava l'animale abbattuto.
«La patta»
La patta serviva, e serve tutt'ora, in modo particolare agli agricoltori, per conoscere i giorni della luna, più esattamente quelli del primo quarto, luna crescente, e quelli dell'ultimo quarto, luna calante. Il termine esatto è «epatta».
L'epatta è l'età della Luna al primo gennaio di ogni anno, cioè il numero dei giorni trascorsi dall'ultimo novilunio.
Rappresenta il numero dei giorni da aggiungere all'anno lunare per renderlo uguale a quello solare e serve per calcolare la data della Pasqua e delle altre feste mobili del calendario liturgico: l'Ascensione, la Pentecoste, il Corpus Domini. (Il novilunio è il giorno o il tempo corrispondente alla fase in cui la Luna rivolge alla Terra la faccia non illuminata).
Il termine «patta», anche se non rigorosamente scientifico, in questo caso rende l'idea della parità, di pareggiare un qualche cosa. La «patta», infatti, è il risultato o punteggio pari nel gioco: fare «pari e patta», pareggiare; e da qui tanti termini dialettali, «hae pattato, è patta, è da pattare»; e nel gioco della «morra»: «come state?, è patta», «avemo pattato» etc...
Fatta questa premessa, che sicuramente non serviva al contadino per sapere solamente se la Luna era in fase calante o crescente, diciamo che gli serviva invece per sapere se poteva seminare il prezzemolo, l'aglio, la cipolla; ... se poteva travasare ed imbottigliare il vino, se poteva tagliare il legname o le canne etc. etc.
Il sistema è del tutto empirico, fondato sui dati dell'esperienza; quindi estraneo al rigore scientifico, ma non per questo sconsigliabile da attuare.
Il contadino sapeva, per esempio, che l'anno astronomico inizia dal mese di marzo, che il ciclo della Luna compie 29 giorni, ma non supera 30; conosceva bene i detti popolari, «gobba a ponente luna crescente» «gobba a levante luna calante»; sapeva che, guardando la luna e prolungando in basso le punte estreme del quarto visibile, se formava una «p» era nel primo quarto; che prolungando le due punte in alto, se andava a formare una «d» era invece all'ultimo quarto. «Premier e dernier» per i francesi.
Ma tutto questo evidentemente per gli intenditori non era abbastanza e calcolavano «la patta» con metodo sufficientemente preciso. Sbagliare «la piantina», la semina di ortaggi vari, nell'economia famigliare significava perdere un mese di tempo, aspettare la nuova fase lunare e perdere la semenza, di cui l'ortolano era geloso.
«Sor' Agu', tiràteme la patta!» era questa la richiesta che si faceva alle persone più esperte, (tirare sta per ricavare, calcolare) per farsi dire i giorni della Luna.
Al giorno del mese in cui ci si trovava, si deve aggiungere, il «capo mese», il numero dei mesi che intercorrono tra quello interessato e il mese di marzo; al ricavato si aggiunge l'epatta, l'età della Luna al primo gennaio, ottenendo così la posizione della Luna. Se il numero ottenuto è superiore a 30, bisogna sottrarre il trenta.
Il calcolo dell'età della Luna, al primo gennaio di ogni anno, veniva e viene tuttora tramandato in generazione in generazione aumentandolo, ogni anno, di undici e togliendo trenta quando supera questa cifra.
Per maggiore chiarezza facciamo qui di seguito un esempio: vogliamo sapere, oggi, 16 giugno 1994, quanti giorni ha la Luna. Sapendo che per il 1994 il numero della «patta» è 16, perché nel 1993 era 5 (5 + 11 = 16), per il 1 995 sarà 27, cioè (16 + 11 = 27). Aggiungendo al 16 giugno 4 (il «capo mese» a partire da marzo), avremo 20 (16 + 4 = 20); aggiungendo, ancora a questo numero «la patta», il 1 6, avremo 6 (20+ 16= 36 - 30 = 6). Oggi, 16 giugno 1994, la Luna si trova nel primo quarto, ha 6 giorni ed è nella fase crescente. Il calcolo, alquanto laborioso, è sicuramente interessante; forse abbiamo fatto cosa gradita a tanti concittadini e forestieri.
Con tutti i mezzi di comunicazione che, oggi, abbiamo a disposizione questo calcolo può sembrare una cosa da «museo» quasi ridicola; ma se ci portiamo indietro, anche di 50 anni, e pensiamo a quando nelle case ancora non c'era la luce elettrica, quando non c'erano i giornali, i calendari etc., questo conteggio era una cosa molto utile.
Una mia vicina di casa, l'Antenisca, quando metteva le uova sotto la «lòcca», la chioccia, per avere le pollastrelle, prendeva le uova che erano state fecondate durante la fase calante, mentre per avere una quantità maggiore di galletti prendeva le uova che erano state fecondate con la luna crescente.
Tutt'ora c'è chi consiglia alle giovani coppie di fecondare l'ovulo materno con la Luna crescente per avere un maschietto e viceversa; non ci credete? E' una prova che potete sempre fare... Così, per curiosità!
La cantina
Tutti sanno che la cantina è quel locale, per lo più interrato o seminterrato, adibito alla lavorazione del vino. Molti conoscono la pigiatrice, la macchina usata per la pigiatura meccanica delle uve; pochi sono, invece, quelli informati sulla «pestatura», operazione antichissima, che si perde nella notte dei tempi e che tratta della frantumazione delle uve mediante il loro ripetuto calpestamento, eseguito dal «pestatore» a piedi scalzi.
Questo sistema, ancora oggi usato da pochi e per piccole quantità, anche se più lungo e dispendioso di energia umana, è però migliore di quello praticato con le macchine in quanto gli acidi contenuti nel «raspo», il grappolo dell'uva senza i chicchi, non vengono mescolati al mosto; infatti il «raspo» non viene lacerato dai piedi del «pestatore», così come avviene, invece, con la pigiatrice.
Ma prima di continuare ad esporre come avviene la lavorazione dell'uva, parliamo della cantina e dei vari attrezzi in essa contenuti.
Generalmente, e comunque a seconda della grandezza del locale, entrando si notano due file di botti di grandezze diverse, che possono variare da 5 a 11 ql., sistemate sui «sedimi», che vengono installati in prossimità dei muri laterali della cantina. Il «sedime», da sedile o palchetto, è formato da due travi di legno, ben robuste, distanti tra loro 50-70 cm., sorrette da piedistalli, generalmente in muratura; il tutto alto 50 cm. dal pavimento.
Sul «sedime» le botti vengono adagiate orizzontalmente, quando sono colme di vino; stanno in piedi, su uno dei fondi, quando sono vuote o durante la «pestatura».
Per la lavorazione e la conservazione del vino, altri recipienti che troviamo in cantina sono:
il «caratello» (2-4 ql.), il «caratelletto» (circa 2 ql.); l'uno e l'altro vengono generalmente usati per conservare il vino «'n grotte» durante il periodo estivo;
la «starella», tinozza, recipiente di legno, di forma analoga a quella del tino, ma più larga e più bassa: viene posta sotto la botte per raccogliere il mosto, durante la «pestatura», oppure il vino durante la «svinatura» e le «tramute»;
la «svinarola», una botte senza uno dei due fondi: è sistemata sul pavimento per raccogliere momentaneamente il mosto; il «mastello»: è un recipiente di legno di 2 o 3 litri, con una doga sporgente per consentire un facile utilizzo.
Nella cantina troviamo altri contenitori impiegati per il trasporto del vino: il barile, il cui contenuto non va oltre i 60 lt., e mezzo barile; la «barlozza», di 15-20 lt.; la «barlozzetta» e il biconcio, «bigonzo». Il numero di questi ultimi varia in rapporto all'estensione del vigneto in quanto servono soprattutto per la vendemmia, la «sdivignatura».
Per travasare il mosto dalla «svinarola» alla botte è necessario «l'imbottatore», recipiente di legno a forma rettangolare leggermente svasata in alto, con due piedi sagomati per aderire alla superficie curva delle botti, dotato di un cannello metallico, simile a quello di un grosso imbuto. Esso è munito di una retina, che ha la funzione di filtro per semi, gusci e chicchi non spremuti. «L'imbottatore» si introduce nel cocchiume, foro praticato su una doga della botte in corrispondenza del diametro massimo; foro che in seguito viene chiuso ermeticamente con il «coccone», tappo di sughero, per la conservazione del vino fino alla prima tramuta.
Sempre in cantina trova posto una scaletta o scalèo simile a un panchetto con tre o quattro ripiani, più larghi del normale, lunghi e robusti (1,20-1,50 m.) tanto da sostenere il peso di due persone con un «bigonzo» pieno di mosto da versare nella botte. Troviamo anche vari panni impermeabili che si sistemano tra la botte e la «starella» o tra la «starella» e la «svinarola», ossia tra due diversi recipienti, perché non venga versato il «prelibato nettare» durante le varie operazioni.
Servono, ancora, in cantina altre piccole cose come la stoppa, il cemento, lo zolfo in polvere, la schiumarola, l'imbuto grosso e l'imbutino, vari martelli tipo mazzetta per stringere i cerchi, il «battifonno», legno sagomato ad «L», che, introdotto all'interno della botte dal cocchiume, aiuta il cantiniere a sistemare nell'apposita guida, praticata nella parte superiore di ogni doga, il «fonno» mobile, il quale è stato rimosso prima della vendemmia. Durante la «pestatura» sono, tuttavia, necessari altri utensili che non stiamo qui ad enumerare.
Diversi giorni prima della vendemmia inizia la sistemazione delle botti. «Scanajata», stimata la quantità d'uva da raccogliere, si portano fuori della cantina le botti necessarie, e, una alla volta dopo averle «sfonnate» (cioè tolto il fondo, nel quale non c'è il foro per applicarvi «la cannella»), si puliscono bene all'interno, doga per doga con un «raschietto» (o coltello) cercando di non portare via il tartaro e gli altri sali minerali che vengono depositati dal vino anno per anno.
Le botti si lavano, «se stregneno le cerchie» allentatisi quando è stato tolto il fondo, e si dispongono verticalmente lungo la strada adiecente i muri della cantina; sul fondo si mette poi uno strato d'acqua in maniera che venga assorbita lentamente e dal fondo e dalle doghe stesse.
Qualche giorno prima della vendemmia le botti, così «stagnate», vengono sistemate sul «sedime», una accanto all'altra, in posizione verticale, lasciando uno spazio sufficiente per poter osservare se il liquido fuoriesce da qualche fessura tra una doga e l'altra.
Va poi controllata la pendenza, che deve essere sempre leggermente in avanti per far scendere nella «starella» il «mosto», senza che si disperda. Per finire, nel foro, dove in seguito sarà sistemata la cannella, si mette il «bastone», che è una pertica bene appuntita e ricoperta di canapa per avere una perfetta aderenza al foro stesso.
Questo «bastone» che, come vedremo in seguito ha la funzione di rubinetto e di filtro, è leggermente più lungo della botte ed è fermato ad essa con un martello od altri pesi, in maniera che non si muova facilmente quando si scarica l'uva con «le bigonze».
In pochi giorni di «sdivignatura», vendemmia, le botti sono tutte riempite d'uva, «bene accormate»; e, intanto che il «pestatore» si prepara (un tempo indossava lunghe mutande bianche, legate alle caviglie), il cantiniere allenta leggermente il bastone per fare cadere nella «starella» con una certa regolarità il mosto.
Generalmente le uve venivano mischiate, bianche e nere, ottenendo così il classico e rinomato «rosatello tolfetano». Quando il mosto che si era prodotto durante la «sdivignatura» era tutto colato, il pestatore saliva sulla botte ed iniziava a pigiare l'uva, «a pestà».
Lentamente, sfregando i grappoli fra le caviglie, si comprimeva uno strato di uva corrispondente più o meno all'altezza di una gamba (dal piede al ginocchio); così facendo, e «riposannose ogni tantino», in tre o quattro «passate» si arrivava al fondo della botte, «se sfonnava». Terminata questa operazione, il mosto della «svinarola» si rimetteva dentro la botte, dopo aver chiuso per bene il foro d'uscita con il «bastone».
Da questo momento il mosto iniziava a bollire. «La bollitura» durava da tre a sette giorni, più o meno, secondo l'uva e la qualità di vino che si voleva ottenere, più dolce e chiaro o più nero e forte. Durante questi giorni le vinacce, che a mano a mano salivano in superficie, o venivano quotidianamente riimmerse nel mosto oppure si lasciavano stare. In quest'ultimo caso, però, dato che al contatto dell'aria «prendevano d'aceto», si doveva fare bene attenzione a separarle al momento della svinatura.
Questo era il momento più bello in quanto si poteva assaporare il vino nuovo (anche se «per gnente maturo») che accompagnava una buona «acquacotta col baccalà e le patate».
Continuando ad allentare, sempre con molta avvertenza, il «bastone», si lasciava cadere il mosto nella «starella» e da qui si metteva, con il «mastello», nella «svinarola». Quando il mosto scendeva «bello chiaro», limpido, se ne riempiva un «bigonzo» ed era quello destinato ad essere assaggiato dai visitatori, o regalato agli amici o alle «persone di riguardo» o al frate cercatore del convento dei Cappuccini.
Una volta che la botte era «bello che scolata», si toglieva il bastone, si piegava in avanti per togliere le vinacce da portare alla torchiatura, si metteva in terra, e fuori della cantina dopo averla pulita, senza tuttavia usare acqua, si «formava» cioè si metteva a posto il fondo tolto precedentemente, usando il «battifonno», e si «stregneveno le cerchie» battendo su uno scalpello per non rovinare le doghe.
Infine si versava all'interno della botte circa un «mastello» di vino bollito per vedere se essa «sfiatava» e, se dalle sue fessure usciva del vapore, venivano inzeppate con cotone o con stoppa e ricoperte, poi, con cemento o zolfo liquido.
La botte era pronta per essere «'mpostata», sistemata orizzontalmente tra i due travi del «sedime», sul quale veniva fermata con le apposite «zeppe» (cunei di legno).
Dopo essere stata riempita, si lasciava bollire ancora per qualche giorno, come si fa tutt'oggi; si faceva «schiumare» e si chiudeva col «coccone» ricoperto di cemento. Si riapriva «pe' san Martino» quando «ogni mosto è vino».
Tradizioni agricole di Tolfa
(«'1 terratico», «la sementa», «l'ara» e «la communèlla»)
L'economia, tra le due guerre, a Tolfa, era prevalentemente basata sulla pastorizia, (allevamento di pecore, capre, mucche da latte, vacche, sia di stalla che allo stato brado, buoi da lavoro, etc.) e sull'agricoltura (semina di grano, avena, orzo e favetta).Mentre per la prima era possibile ricavare subito l'equivalente in denaro, vendendo in qualsiasi momento o lo stesso bestiame o i prodotti da esso derivati, (latte, formaggi, ricotta, etc.), nell'agricoltura si doveva aspettare l'esito del raccolto annuale.Il grano era, in quei tempi, la moneta corrente, ad incominciare dalla concessione biennale del terreno per la «sementa» (la semina), che si prendeva o dalla locale Università Agraria (Ente di interesse locale che amministra il patrimonio di proprietà pubblica gravato dagli usi civici, cioè i diritti di uso del territorio riservati alla popolazione residente nel comune di Tolfa. Questi diritti di uso hanno perso oggi gran parte della loro importanza economica, ma per secoli hanno costituito una forma vitale di utilizzazione economica della terra), o da privati cittadini, proprietari terrieri.
Il contadino s'impegnava a dare 1/6 o 1/7 del raccolto al privato; quasi sempre 1/5 all'U.A. (prima degli anni quaranta questa consuetudine era molto più «strozzina» per il bracciante, che doveva, infatti, dare da 5 a 7 ql. a rubbio), cosa che avveniva di solito, al momento della trebbiatura, nell'aia, «ara», nella quale era sempre presente l'incaricato dell'Ente, il quale controllava l'addetto alla «bocchetta», alle dipendenze del proprietario della trebbia.Trebbiata «la mèta», costituita da «gregne carrùquelate» nell'aia, (che venivano accatastate in un campo limitrofo e pianeggiante, dando loro la forma o di trullo, o a «barcone capo volto» se i covoni erano di una quantità superiore), un prolungato fischio, azionato dal motorista, avvisava tutti gli «addetti ai lavori» che si tenessero pronti per passare ad un'altra «mèta». Era questo il momento in cui subentrava l'incaricato dell'U.A. o del «privato» per riscuotere il «terratico», cioè la quantità di grano pattuita per la concessione del terreno.Questa operazione portava via subito una «bella fetta» del raccolto. Bisognava poi aggiungere la soluzione di tutte le altre spese sostenute dalla famiglia durante l'arco dell'anno, perché tutto si prendeva a «buffo», con il patto che si sarebbe pagato «a riccorta», (alla raccolta): «Antogné', me fate buffo? Pagherò a raccorto!». Più o meno era sempre questa la richiesta che si faceva ai vari commercianti. Si trattava dell'antica forma del baratto.
Al «ferraro» (il fabbro), per consuetudine si davano, per tutto l'anno, due «stara» di grano (staia da 13,500 kg.) per la ferratura di un somaro; quattro «stara» si davano, invece, per la ferratura di «un parecchio de bove» (le unghie dei buoi da lavoro venivano protette con piastre di ferro inchiodate; e per la loro ferratura veniva usata una particolare armatura in travi di legno, il «travajo», in cui si facevano entrare i buoi o i cavalli particolarmente riottosi, per ferrarli dopo averli immobilizzati). Altro grano era dovuto sempre al «ferraro» per la riparazione del «picchio» (piccone a due tagli) e dei vari zappetti.
Da tutto questo si capisce bene che, dopo avere saldato tutti i debiti contratti durante l'anno, di grano ne rimaneva ben poco. Si racconta che qualche contadino, in particolari annate di scarsa produzione, abbia rivolto ai vari creditori il desiderio, ultimo rimasto, di baciare il suo prodotto: «almeno fatemelo bacià».Ora cerchiamo di capire come procedeva l'agricoltore che doveva provvedere alla semina, «a la sementa». Iniziamo col dire che per una famiglia media si calcolava che la quantità di grano sufficiente per l'annata fosse di circa 2 ql. a persona, che 1 ql. seminato rendeva in media 7 ql., eccezionalmente 9-10 ql.; ma in qualche brutta annata o in terreni ormai sfruttati, specie quelli dei proprietari privati, il grano seminato poteva rendere solamente 3 ql. Tenendo presente le spese da affrontare, se, per esempio, c'era qualche figlia da maritare, e, considerando qualche piccolo imprevisto, il contadino decideva «quante stare de terra le serviveno».
Nell'Agro romano l'unità di misura terriera era lo «staro» corrispondente a mq. 1.155,50; i suoi multipli erano il sacco (8 «stara»), corrispondente a mq. 9.242, e il rubbio (16 «stara»), corrispondente a mq. 18.484. Il sottomultiplo dello «staro» era il quarto o quartuccio mq. 288 (1/4 di «staro»).
Oltre che unità di misura terriera lo «staro» era anche unità di peso. Uno «staro» come unità di peso equivaleva a kg. 13,500; in uno «staro de terra» (mq. 1.155,50) si seminava uno «staro de grano» (circa 15 kg.); 1 ql. di grano da seminare era sufficiente per 7 «stara de terra»; 120 kg. (un sacco) per 8 «stara de terra»; 240 kg. (2 «sacche de grano») per un «rubbio de terra» (16 «stara»); ma era sempre necessario qualche cosa in più, e allora si aggiungeva ai 2 sacchi di grano 1 staro e mezzo (circa 20 kg.).
Fino agli anni '60 l'avvicendamento delle colture nei terreni di proprietà dell'U.A. veniva praticato per zona o quarti, («le quarte»); alcuni di questi erano: «Santonsino», «le Grille», «le Pantanelle», «le Macchie», «'l Cappannone», «1 Termine», «le Garbonare», «Vargioncose» etc. La tenuta della «Chiaruccia» era di Alibrandi, «'1 Casalone» del marchese Sacchetti, La «Fiorotta» di Olivieri, la tenuta di «Rota», la quale aveva al massimo una ventina di utenti, del marchese Lepri.
Ogni quarto (o zona) aveva l'avvicendamento delle seguenti colture: il primo anno veniva seminato grano, orzo, favetta etc. sulla «maggese»; il secondo anno il terreno era a «corte», cioè senza la «spicchiatura» o aratura, cosa che era indispensabile, invece, per il terreno a «maggese». Nello stesso quarto il terzo anno si poteva praticare anche la terza semina «biscorte», senza lavorazione profonda. Dopo che il «quarto» era stato sfruttato per due anni, per i quattro anni successivi veniva lasciato a riposare e utilizzato a pascolo.
Una parte del quarto, lasciato a riposo, veniva venduta per il pascolo delle pecore, le altri parti venivano destinate a «mosceria» per il rimanente bestiame (cavalli, asini, vacche e maiali).
I punti migliori di ogni quarto (o zona) venivano riservati infine, per il pascolo invernale: «la bandita». Queste zone venivano, infatti, riguardate per tutto il periodo autunnale perché servissero da pascolo nell'inverno.
Date queste consuetudini, che il contadino conosceva, egli non aveva altro da fare che prenotarsi per avere «la parte» da «sementà». Ogni «parte» era di solito di 4 stare, che diventavano 6 quando il quarto era più esteso come, per esempio, a «Santonsino», alle «Grille» e alle «Pantanelle».
Ogni quarto era suddiviso in varie parti («le parte»), che venivano segnate con picchetti, «la posta», mentre «la controposta» era costituita da un punto di riferimento che poteva essere un albero, un rudere, un punto riconoscibile facilmente «imbiffato», cioè segnato con «le biffe» (di solito canne) o con un solco dell'aratro.
Tutto era facile quando i due estremi di riferimento erano visibili, ma alquanto laborioso quando tra di due punti, distanti tra di loro, c'erano dossi o altri ostacoli naturali. Per questo si ricorreva ad esperti, «persone pratiche». Era nota l'esperienza di Marco Barboni (siamo negli anni trenta), un «bovaro» che con il suo aratro tracciava solchi che rasentavano la perfezione. Si evitavano così discussioni tra confinanti.
L'agricoltore con un piccolo raggiro poteva avere dall'Agraria una o due parte in più, ma doveva ricorrere al prestito della parte da qualche utente che non seminava (commerciante, artigiano, insegnante, detti «le paìne»), in cambio di qualche regalino, e al momento del sorteggio ('1 numeretto da estrarre nel cappello), sempre con qualche accomodamento con l'occasionale consigliere dell'U.A., poteva fare in modo che le parti venissero estratte confinanti, «a confine».
Nei quarti o zone padronali non tutti i terreni erano, però, fertili come quelli dell'U.A. C'erano, infatti, superfici di terra non omogenea. Poteva così ad un utente toccare una «parte» fertile ed a un altro una «parte» meno fertile. Per ovviare a questo inconveniente si ricorreva alla «communèlla»; dopo anni di lunga esperienza, di ogni quarto si conosceva quale era la «parte» produttiva e quale quella che rendeva di meno; pertanto si provvedeva a dividere la «parte» migliore e la «parte» peggiore per lo stesso numero di utenti: al momento del raccolto, poi, il grano dell'una e dell'altra parte, si «accomunava» all'«ara», nella stessa «meta», ed il terratico si pagava sui quintali di grano che «sortìveno da la bocchetta».
L'insalatina di campagna
«L'insalata nun è bella, si nun c'è la pimpinella», altro nome della salvastrella, erba aromatica delle rosacee, comune nei prati incolti, con foglie ovali a margine seghettato, particolarmente ricercata per mescolarla alle insalatine di campagna. Ho sentito questo detto per la prima volta, qui, in Toscana; al mio paese, a Tolfa, è un'erba che non si mette nel miscuglio delle insalatine, o perlomeno sono poche le persone che la conoscono.Come a Tolfa non si raccoglie il radicchione, il favagello, e tante altre buone erbette, così qui, a Grosseto, anche se l'ombrellino, «l'oiosa», si conosce, nella «misticanza» non viene utilizzata, forse, per l'odore intenso che emana; qualche piantina, infatti, sarebbe sufficiente per aromatizzare un'intera borsa di erbette varie.«L'oiosa» è un'erba che si può mangiare solamente cruda, cotta assume un brutto colore giallastro e cambia completamente di sapore.Prima di passare alla descrizione delle varie gustosissime erbette di campagna è bene dire qualche cosa utile per la raccolta.In ogni campo, incolto da qualche anno, si possono trovare numerosissimi esemplari; oltre cinquanta sono quelle che io conosco abbastanza. Si consiglia di non raccogliere piante di nessun genere in quei prati dove da poco hanno pascolato pecore e capre; mangiare le erbe crude può provocare la febbre maltese. E' bene evitare di raccogliere erbe lungo un corso d'acqua che possa sembrare inquinato; per esempio, il crescione o «piscialletto» deve mangiarsi cotto, anche se perde tutto il suo caratteristico sapore.
Altro importante suggerimento è quello di non raccogliere, cosa che fanno molti, la cicoria ed altre erbe sui bordi delle strade; il piombo residuo delle benzine si deposita abbondantemente sulle foglioline delle piante, inquinandole pericolosamente. Tutti sappiamo quanto costano le verdure dal nostro fruttivendolo; queste «care» erbette raccolte in campagna sono, invece, gratuite; ed il loro ritrovamento procura una certa soddisfazione, a parte poi il benessere che ne ricaviamo stando all'aria aperta per qualche ora.
Altro utile consiglio è di raccoglierne la quantità necessaria all'uso, onde evitare lo spreco di queste preziose erbe; inoltre non bisogna asportare tutto il ceppo, ma lasciare sempre qualche germoglio, «ricacciaticcio»; non si devono raccogliere le piante che ancora hanno i semi attaccati agli steli.Se vogliamo fare una «minestra» non dobbiamo prendere, come abbiamo già detto, «l'oiosa» e il crescione. Per le «acquacotte» (zuppe di verdure) sono utili cicorie e «burraggine». Per le insalatine da fare con il «pisto» utilizziamo «'l raponzelo», «la ruchetta», «'l boccone del prete», e così via.Chiariamo che cos'è il «pisto» (pesto). Si tratta di un preparato che si ottiene pestando nel mortaio, «'l pestasale» aglio, peperoncino piccante, capperi e alici, il tutto diluito con olio e aceto. Le quantità del pesto da utilizzare varia a seconda dell'insalata da condire, che deve essere bene asciutta e precedentemente salata; «insalata poco sale e assae annoiata» (poco sale e molto olio), è un detto che va sempre ricordato.Versato il pesto sulla «insalatina di campagna», non deve essere servita subito, ma va lasciata macerare, «s'ha da 'ntimorì», per una ventina di minuti.
Riconosciamo che «vène» un po' pesante da digerire, ma, se usiamo l'aglio selvatico al posto di quello coltivato, ci accorgeremo che i suoi bulbi risultano più gustosi e digeribili.
Diverse sono le varietà di erbette spontanee da mettere nelle nostre insalatine di campagna.La «regina» di tutte le erbette di campagna è il «raponzelo», raponzolo o raperonzolo, della famiglia delle campanulacee con foglie spatolate, fiori azzurri o lilla a grappoli. E' particolarmente ricercato per la radice carnosa, bianca, simile a quella della rapa, ma di sapore molto più gustoso e delicato. (V. nota n. 4 pag. 152).Altro elemento è l'aglio, della famiglia delle liliacee, o porraccio, che ha fiori bianchi, a grappoli, conosciuto e considerato dagli antichi greci come pianta dei morti; la sua radice è gustosissima e digeribile.Si aggiunge, poi, la «cicerbita» pianta erbacea delle composite, meglio conosciuta come «crespigno», ricca di lattice; fiori sono di colore giallo arancio. Le foglie ruvide e pelose vanno dal verde chiaro al verde scuro, variamente colorate di rosso. La cicerbita è buona sia per le insalatine che per le minestre o «acquacotte».Poco c'è da dire sulla cicoria, il radicchio, presente ovunque, riconoscibile a tutti dai fiori azzurro-pallido; è buona sia cruda che cotta. Le radici, debitamente tostate, venivano usate come surrogato del caffè.Una pianta perenne acquatica è il crescione, (piscialletto); ottimo crudo, ma anche cotto; anzi, dato che è ormai impossibile trovare corsi d'acqua non inquinati, cuocerlo è l'unico modo per mettersi al sicuro. Ricco di vitamine A, B, C, E, di sapore piccante, si mangiava crudo appena colto.Del favagello qualche cosa abbiamo già detto; è una pianta che infesta i prati e i campi, facilmente riconoscibile per le sue foglie cuoriformi, simili a quelle delle fave, e i suoi fiori gialli. Le piante giovani sono ottime nell'insalatine; i boccioli, quando sono ancora chiusi, si possono conservare come i capperi; schiusi è meglio non adoperarli.Il lattughino, terracrepolo o «caccialepre», è una pianta molto diffusa lungo il mare, sulla sabbia, lungo le strade o tra i ruderi; è buona sia cotta che cruda, e i suoi bocci, come quelli del favagello e del «pisciacane», si possono conservare ed usare come i capperi.
La minutina, erba stella, da noi conosciuta come «la barba da frate» o «barba de capra», cresce spontaneamente ovunque; è molto più gustosa quella selvatica che quella che si semina nell'orto.La porcellana, volgarmente è detta «porcacchia»; le sue foglie si possono aggiungere alle salse verdi; i rametti, quelli giovani, sono buoni «fritti dorati».La ruchetta, o rughetta, si può confondere con la rucola; perché entrambe hanno le stesse caratteristiche ed entrambe sono commestibili; la prima si trova nei campi abbandonati; la rucola anche tra i ruderi; molto usata da noi, nel Lazio, anche per sughi e salse.II taràssaco, o dente di leone, noi lo conosciamo meglio come «pisciacane». Come la cicoria è buono in tutte le maniere, crudo e cotto; i bocci ancora chiusi possono usarsi come i capperi; la radice tostata e macinata è un buon surrogato del caffè.La valerianella, o gallinella, «'1 boccone del papa», è buona anche da sola; per il sapore delicato ed inconfondibile può essere usata per «smorsare» altre erbe selvatiche dal sapore più forte e spiccato, come per esempio la rughetta.A termine di questo breve elenco, perché le piante selvatiche da poter adoperare sono molte di più, consigliamo, prima di portare a tavola le insalatine di campagna col «pisto», di guarnirle, per esempio, con i fiori color ciclamino dell'albero di Giuda (che troviamo in abbondanza lungo la strada che dalla «Nocchia» arriva a Santa Severa); con i fiori azzuri della cicoria; con i fiori rosavioletto della malva, unitamente alle sue foglioline ancora giovani e un po' chiuse; con qualche margheritina, le pratoline dai fiori bianchi; con i giovani frutti dell'olmo, «le madonnelle»; con qualche petalo di papavero rosso sparso qua e là; e, per chiudere proprio in bellezza, si può aggiungere qualche piantina di violetta (le viole mammole).
'L pìcquelo
«Te sèe fatto morì... '1 pìcquelo 'n mano!». L'immagine è tratta dal gioco del «pìcquelo», la trottola, giocattolo molto comune, di forma panciuta al centro, ma affusolata alla base; fatto ruotare velocemente sul suo asse verticale dà, al massimo della velocità, l'impressione di essere in quiete; poi, rallentando il moto per via degli attriti, si inclina sull'asse, cade e si ferma.In commercio se ne trovavano di vari tipi, finementi lavorati e diversamente colorati, ma i più ricercati erano quelli che uscivano dal tornio del giovane Alfiero Teodori, meglio conosciuto come «Maghini», (piccolo mago), nomignolo, forse, derivato dal fatto della sua abilità di lavorare al tornio.Alfiero, nella «botteguccia» del padre Archimede, posta ai piedi della torre dell'orologio comunale («su pe' la strada de Sant'Eggidio»), in via Frangipane, ne costruiva di tutte le forme, usando vari tipi di legno e dando al giocattolo caratteristiche diverse a secondo dell'uso che se ne doveva fare. Vari erano, infatti, «le gioche» che si potevano fare col «pìcquelo». I più comuni erano a «durarella», a «spaccarella», di abilità e destrezza, o «a sorde», (soldi).Il legno usato per fabbricare il «pìcquelo» era generalmente il «crògnelo», corniòlo o corgnòlo, legno durissimo, ben stagionato. (Il legno usato in commercio era molto più dolce e, quindi, facilmente deteriorabile).
Il «pìcquelo» era composto da una punta di ferro, da una parte centrale conica e da una parte superiore leggermente bombata. La punta di ferro era abilmente lavorata dal «ferraro» locale, sempre preferita alle punte che si trovavano in commercio. Queste punte venivano generalmente ricavate da un chiodo, di quelli che servivano, e che servono tuttora, per ferrare i quadrupedi come somari, muli e cavalli, opportunamente snellito (simile ad una goccia d'acqua) e conficcato nella parte affusolata della base, dopo essere stato arroventato. La parte centrale del «pìcquelo» aveva incisi dei solchi concentrici, più o meno profondi, che servivano per avvolgere il «toccatore», lo spago o funicella necessaria per la messa in moto del giocattolo. «Tirando» (lanciando) la trottola con un abile e brusco movimento del braccio, e trattenendo, mediante un nodo, una delle estremità della funicella tra due dita (indice e medio) della mano, essa girava velocemente intorno al suo asse verticale.
Qualsiasi spazio era idoneo per il gioco del «pìcquelo»; era preferibile, però, un terreno liscio e compatto. Si poteva giocare da soli o a coppia o con più compagni.Giocare a «durarella» era semplice; due o più ragazzi lanciavano il «pìcquelo» contemporaneamente e vinceva quello la cui trottola si fermava per ultima.A «spaccarella» si giocava in due; in questo gioco, oltre all'abilità dei giocatori, si evidenziava la robustezza del «picquelo». Dopo aver fatta la «conta» per stabilire chi doveva «spaccare» o chi doveva subire lo «spacco», il primo dei ragazzi faceva girare la sua trottola e il secondo doveva tentare di centrarla, facendo conficcare la punta del suo «picquelo» sulla calotta dell'altro, e provocarne la rottura, cosa non facile. Quelli di «fabbrica», erano i più soggetti a spaccarsi in due pezzi.Il gioco di abilità o di destrezza consisteva nel lanciare il «picquelo» in aria e farlo posare, mentre era in moto, sul palmo della mano, senza farlo cadere in terra.
Anche in questo gioco vinceva chi riusciva a «durare di più». La posta in palio era costituita, quasi sempre, da bottoni, «ciocce» (piccoli frammenti di piatti decorati e colorati) o palline. «Quelle più grannicélle», (dopo la quinta elementare molti erano quelli che si avviavano ad apprendere un mestiere presso una bottega artigiana in cambio di una paga, («paghetta»), che poteva essere quindicinale o settimanale) giocavano, invece, a soldi. La posta in palio era un soldo (5 / 100) di lira, due soldi (10/100), un nicheletto (20/100, quattro soldi), mezza lira (50/100, 10 soldi), una lira, e qualche volta si arrivava a puntare anche le cinque lire d'argento (l'aquilone). Questo gioco era semplice (forse un po' meno semplice da spiegare). Consisteva nello spingere, con la punta del «pìcquelo», grazie alla sua forza di rotazione, le monete oltre una linea che delimitava il campo di gioco. Queste, una o più per partecipante, costituivano la posta in gioco e venivano sistemate a pila («castello o castelletto») ad una distanza di qualche passo dalla linea di fondo e, a turno, si tentava di spingerle al di là della linea stessa; premio la vincita della moneta.Naturalmente il giocatore andava, via via, incontro a delle difficoltà, e incontrava la prima nel momento in cui doveva avvolgere «'1 toccatore» alla trottola. Ognuno aveva una sua tecnica personale, ma quasi tutte si somigliavano: dopo aver bagnata con la saliva la punta dello spago, questo si arrotolava alla trottola per tutta la parte centrale, iniziando dalla punta di ferro, facendo attenzione che fosse ben stretto e che non ci fossero degli accavallamenti, causa di una minore spinta iniziale e, di conseguenza, di una minore velocità; quindi di una minore durata nella sua corsa di rotazione.Altra difficoltà si incontrava quando si doveva raccogliere il «pìcquelo» da terra, cosa che avveniva facendolo passare, in movimento, attraverso due dita (il mignolo e l'anulare o l'indice e il medio) per farlo arrivare sulla palma della mano ed, infine, quando, con millimetrica precisione, la trottola doveva essere scagliata contro la moneta, facendo in modo che la punta andasse a toccarne il bordo e, spinta dalla forza di rotazione del giocattolo, si spostasse oltre la linea di fondo.Un altro sistema per spostare le monete, e mandarle fuori della linea di fondo, era la «culata», che consisteva nel colpire le monete, esattamente sul bordo, con la parte panciuta della trottola. Questo colpo si otteneva con un procedimento che riusciva a pochi, ma che era assai efficace, tanto che al primo giocatore, scelto dalla «conta», era proibito colpire con la «culata» la pila delle monete, in quanto con un sol colpo, bene assestato, avrebbe potuto mandare fuori l'intera posta.Il rovescio della medaglia di questo tiro era naturalmente l'arresto immediato del «pìcquelo»; quindi ogni giocatore lo riservava per ultimo, nel momento in cui si accorgeva che la trottola, per i continui attriti sul terreno e sulla mano, rallentava il suo moto rotatorio («nazzicava», «iniziava la nàzzica»), evento che precedeva la fine della corsa. Il giocatore che perdeva questa opportunità, la migliore per vincere, veniva «preso 'n giro», dai compagni e dai numerosi spettatori, in quanto «s'era fatto morì '1 pìcquelo 'n mano».
NOTA LESSICALE
Senza nessuna pretesa di spiegare le origini storiche o i collegamenti del dialetto tolfetano con determinati ceppi lin guistici, lavoro che richiederebbe una apposita ricerca di note vole impegno, illustriamo qui di seguito le sue caratteristiche principali e le soluzioni tecniche adottate per rendere la lettura aderente quanto più è possibile alla pronuncia di tutti i giorni.
I principali aspetti caratteristici di questa «lingua» sono:
— l'uso esclusivo del genere femminile nel plurale di tutte le parole, anche di quelle di genere maschile («'l cane», pl. «le cane»; «l sasso», pl. «le sasse», ecc.);
— la trasformazione dei suoni interposti -co- e -go- in -que- e -gue- (pecora = «pèquera»; pungolo = «pónguelo» ecc.);
— l'uso della -i- consonantica (j) al posto del gruppo consonantico -gl- (taglio = «tajo»; aglio = «ajo», ecc.);
— la trasformazione del gruppo consonantico -nd- in -nn-, soprattutto nel gerundio;
— l'uso molto frequente della -n- rafforzativa (dove = «ndove»; già = «ngià»; nel = «nne '1», ecc.);
— infine un uso frequentissimo di contrazioni ed elisioni (può = «pò»; vuole = «vò»; viene = «vène», ecc.).
Per quanto riguarda le soluzioni ortografiche adottate, è necessario prestare molta attenzione agli accenti delle vocali -e-ed -o- (è - ò, suono aperto; é - ó, suono chiuso) ed all'apocope ('); nelle parole tronche questa indica che l'accento cade sempre sull'ultima sillaba e che il suono è chiuso per -e- ed -o-, tranne nei casi in cui l'accento aperto è espressamente indicato sull'ultima sillaba o su sillabe precedenti («èsse'» = essere, ecc.).
Le vocali -e- ed -o- delle sillabe non accentate devono essere pronunciate con il suono chiuso, tranne nei casi in cui la grafia è identica a quella in lingua, richiedendo così l'uso della pronuncia corrente.
Nei termini dialettali ad indicare il troncamento è stato usato l'accento anziché l'apocope.
Si presti attenzione all'uso della consonante -n- preceduta o seguita dall'apocope e si intenda come segue:
'n = un, in
n' = non
Forniamo infine un elenco delle espressioni verbali e dei termini più spesso ricorrenti per evitare un eccessivo ricorso alla notazione:
quarchi = qualche
pròpio = proprio
'n antro, 'n'antra = un altro, un'altra
vòe, vònno = vuoi, vogliono
adè, adèra, adèreno = è, era, erano pò, pònno = egli può, essi possono
nne '1 = nel
nde '1 = nel (dentro)
vò = egli vuole - io vado
so' = io sono, essi sono
adàe da = devi
il verbo «avere» è sempre preceduto dalla sillaba ci- (ciò, ciavévo = io ho, io avevo, ecc.)
po' = poco-poi
Per altri termini e modi di dire tipici si rimanda alle Note in calce a ciascuna poesia.
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