Index

Archeologia

Walter Bianchi

Walter Bianchi "Velsina"
 
Pagina 1 Pagina 2 Pagina 3 Pagina 5

La vera origine delnomen (già cognomen) dei Frangipani romani (nonchè, evidentemente, di quello degli omonimi di Tolfa) appare invece chiaramente attestata da una loro attività specifica per la quale ebbero a segnalarsi tra tutte le antiche famiglie nobili di Roma. Si tratta dello scempio che essi notoriamente perpetrarono dei monumenti della città eterna, come testimoniano, tra l'altro, l'ex tempio di Giano detto nel medioevo Torre di Cencio Frangipane (cfr. Mirabilia Urbis in F. Gregorovius, Storia di Roma cit., 111 (VIII), pag. 166); la loro "Turris Cartularia" presso l'arco di Tito (E Gregorovius, St. di R. cit., III (VIII), pag. 280) e soprattutto il Colosseo, divenuto di loro proprietà e da essi trasformato distruggendolo in parte in castello (F. Gregorovius, St. di R. cit. 111 (VIII), pagg. 209, 302). Dovette essere, quindi, proprio lo scempio di cose pagane a far contraddistinguere, in antico, la predetta famiglia col nomignolo (poi trasformatosi in cognome) di Frangipagani divenuto in seguito, per sincope mediana, Frangipani. La legittimità linguistica della sparizione, dal vocabolo pagani, della sillaba ga è attestata dalla sparizione della stessa sillaba previa trasformazione in ge nel vocabolo latino omologo pagensis nel termine italiano paesenonchè nel francese e nello spagnolo pays che da pagensis derivano.Il prospettato "iter linguistico "pagane(i) pane(ì)" onde da "Frangipagani" si pervenne a "Frangipani" ? potrebbe altresì trovare riscontro nel cognome  Mezzopane  sopracitato qualora in "Mezzo" potesse ravvisarsi una corruzione di Mazza (=ammazza). Intal caso il cognome Mezzopane (portato, come Frangipane, da antichi signori di Tolfa) significherebbe, in base a quanto sopra argomentato, per Frangipani, ?ammazza pagani, espressione, questa, concettualmente corrispondente al nomignolo spagnolo Mata Moros dato nel sec. XV a vari cavalieri distintisi nella lunga lotta contro gli Arabi (Moros) che occupavano la Spagna. E' noto che, durante la decennale anarchia seguita al breve regno di Clefi, di Romani Italiani), pagani e non, ne furono uccisi molti (cfr. la Storìa dei Longobardi di Paolo Diacono). Ma potrebbe anche ritenersi che il cognomen "Mezzo pa(ga)ne" contraddistinguesse una famiglia che viveva ed operava in mezzo a luoghi (ex) pagani, ossia, cerchiamo di chiarire, in mezzo al discendenti degli antichi abitanti dei Novern Pagi''. Questa nostra ipotesi può certamente apparire suggestiva,ossia atta a suggestionare senza avallo di prova alcuna. Noi, però, trascurando questa probabile interpretazione, osiamo prospettare l'ipotesi medesima. Ma, pur prescindendo da questi riferimenti di carattere linguistico (dei quali è qui cenno, rapido ed incompleto, solo adabundantiam) l'autenticità storica dell' interpretazione Frangi pa(ga)ni prospettata per il cognome Frangipani apparirà chiara, oltre che alla luce di quanto sopra esposto circa la vera origine del gentilizio, anche e soprattutto considerando che alla nutrita "presenza di "Angèli" (e quindi di diavoli paggani) in Roma ed in Tolfa, nel medioevo, fece sintomatico riscontro una parallela presenza di Frangipani in entrambi i luoghi e solo in quelli. Nella zona dei Monti dellaTolfa il paganesimo ha serbato, del resto, tracce non soltanto, come si è visto, nei nomi degli antichi signori locali, bensì anche in qualche toponimo. Il Monte Paganello, situato non lontano dal Monte Monastero (finitimo al territorio di Tolfa: cft. Guida d'Italia cit., carta a pag. 112) e soprattutto la Selva Pagana (probabilmente ubicata nei paraggi) della quale fu signore il genero del conte Farulfo signore di Monte Monastero (cfr. Giuseppe Cola, op. cit., pag. 60) potrebbero infatti costituire indizi al riguardo tenendo però congiuntamente presenti le argomentazioni che precedono onde stabilire una peculiarità rispetto ad altre zone d'Italia ove risultano attestati toponimi similari.Sulla base delle considerazioni sopra esposte, sembra, in verità piuttosto arduo negare l'esistenza, in antico, tra i Monti della Tolfa, d'un centro molto importante della religione pagana. Che questo fosse Volsimi Veteres oppure il celebre Fanum Voltumnae" (da molti studiosi ritenuto finitimo alla predetta città) non può essere detto con certezza assoluta ma con buona probabilità di essere nel vero sicuramente sì.
Torna su
5. Nel saggio intitolato Il bronzo finale in Italia, a cura di G. Peroni (ediz. De Donato, 1980) figura, a pag. 94, una rappresentazione del Lazio (odiemo) con indicazioni dei siti nei quali sono stati rinvenuti insediamenti e sepolture dell'età del bronzo e della prima metà dei ferro nella regione.
Da tale rappresentazione risulta che gli agglomerati più fitti dei predetti siti sono quelli indicati (con cerchietti) sui Monti della Tolfa seguiti da quelli indicati (allo stesso modo) sui Colli Albani. Sul primo dei due comprensori risultano individuati ben 200 (circa) insediamenti e sepolture dei quali quasi la metà di epoca protostorica (cfr. G. Peroni, op. cit., pag. 93). E' un fatto di enorme importanza archeologica ma appare ancora più enorme l'assenza (o quasi) di deduzioni d'ordìne storico dal fatto medesimo. Sul minore dei due predetti aggregati (quello dei Colli Albani) sorse, come sappiamo, ed in epoca protovillanoviana la potente città di Alba dalla quale parte dei cittadini scese come pure sappiamo in epoca successiva, ai sette colli del Tevere a fondarvi Roma. Il maggiore dei due aggregati (di insediamenti e sepolture) sopra citati (quello dei Monti della Tolfa), secondo alcuni studiosi, fu l"'omphalos"  (ossia "l'ombelico" dei gruppi che dettero origine, nei siti di Cere e di Tarquinia, ad insediamenti dell'età del Ferro, villanoviani, e quindi ai grandi centri di epoca storica (sic A. Naso, La necropoli etrusca di Pian della Conserva, Gruppo Archeologico romano, 1980, pag. 98). A questo punto si pone una domanda. Dobbiamo proprio credere che gli aggregati di insediamenti protovillanoviani dei Monti della Tolfa non abbiano dato origine, in quell'epoca, ad alcun grande centro così come ad Alba avevano dato origine i coevi insediamenti dei Colli Albani? Noi a questa domanda siamo fortemente inclini a rispondere negativamente per ragioni geologiche, storiche ed economiche. Infatti, se sui Colli Albani, privi (allora) di grandi risorse naturali, era sorta la potente Alba, appare logicamente indubbio che, a maggior ragione, sarebbe dovuta sorgere nella stessa epoca (protovillanoviana) una grande città tra i Monti dellaTolfa, ricchissimi di minerali dai quali scaturivano allora con la possibilità di fabbricare utensili moderni,armi ed aes rude la ricchezza e, quindi, la potenza politico militare. Era indubbiamente logico che chi abitava (in capanne) in mezzo ai minerali, lì, si costruisse una "urbs" (= un orbis ossia un centro abitato circondato da un recinto di mura) al fine di difendere da aggressioni altrui la propria esclusiva ricchezza. Tra i (circa) 200 insediamenti dei Monti della Tolta cui si è sopra accennato, uno e precisamente quello contrassegnato col numero 139 alla pagina 98 dei citato lavoro a cura del Peroni è ubicato nella località detta La codata delle macine in territorio del Comune di Allumiere (Roma) confinante col territorio del Comune di Tolfa (Roma). Secondo Plinio (St. Nat. XXXVI, 18), come è noto, la macina venne inventata a Volsinii (Veteres, ovviamente). Alcune macine, a detta del naturalista, si sarebbero messe a girare da sole. E' chiaro che ogni accostamento col toponimo Codata delle macine è privo di qualsiasi valore al fine di provare l'ubicazione di Volsinii nella relativa zona. Il predetto toponimo può però costituire un indizio ove si consideri:
1) che proprio nel territorio ove sospettiamo sita l'antica Volsinii città d'origine, teste Plinio, della macina si sia conservato un tale, strano, peculiare nome di località;
2) che codata, in italiano, vale accodata parlando di bestie da soma attaccate l'una alla coda dell'altra: è quindi lecito ipotizzare che anticamente molte macine si trasportassero (ed esportassero) da quel luogo (prossimo ai ruderi di ''Tolfa Nuova ora detta La Tolfaccia).

6. Ma a Volsinii (Veteres, ovviamente) non nacque solo la macina. Vi nacque anche Elio Sejano, celebre prefetto del Pretorio al tempo dell'imperatore Tiberio (cfr. Tacito, Annali ... ).
Ebbene, nella zona in esame e precisamente nel territorio del Comune di Canale Monterano (Roma), finitimo al Comune di Tolfa (Roma), esiste, ben conservato, un imponente ponte romano detto il ponte di Sejano'' (ed anche del diavolo: per quest'ultima denominazione cfr. quanto sul diavolo si è osservato in precedenza; su tale ponte cfr. A. Stefanini, "Il ponte di Sejano o del D.,estr. dal Boll. dell'Ass. Archeol. Centumcellae, Civitavecchia, anno IV, n. 4, 1962-63). Si tratta d'un ponte lungo ben 90 metri, alto fino a 12 m. e largo 6 m., ornato d'un parapetto di cui restano varie lastre (A. Stefanini, op. cit.). Al riguardo A. Naso (in La necropoli etrusca di Pian della Conserva cit., pag. 104) osserva che" L'imponenza di quest'opera monumentale, considerata di età tardo repubblicana (Wetter) o Imperiale (sic Stefanini, op. cit.), per il basolato che la corona, sembra ingiustificata, specie in una zona come questa (sottol. nostra). Questa osservazione significa, in sostanza, questo: dato che nella zona non risulta essere mai esistita una grande città (od un centro religioso, diciamo noi, meta di affollati pellegrinaggi), perchè mai i Romani vi costruirono un'opera così imponente ed attraversante, per di più, un leggero avvallamento percorso da un torrentello? Ma a noi sembra più logico ipotizzare il contrario! Proprio l'esistenza d'un'opera così imponente induce veementemente a supporre che la stessa su cui passava una strada romana dalla quale restano cospicui tratti ? servisse a collegare Roma con un centro molto importante e quindi molto frequentato. Il Naso, al fine (lodevole) di trovare una spiegazione dell'imponenza dell'opera, suppone che il ponte non potesse servire che al trasporto del legname di farnia (varietà di quercia) di cui è ricco il territorio. Tale ipotesi solo astrattamente logica, in verità sembra però costituire una (classica) lectio difficilior rispetto all'ipotesi relativa all'esistenza d'un grande centro servito da sì grande ponte. La lectio difficilior prospettata dal Naso sembra, per di più, contrastare con le lastre (parzialmente conservate) del parapetto duplice, coronante il ponte in questione (cfr., per le lastre, A. Stefanini, op. cit.). Un ponte più rozzo doveva infatti sembrare più che sufficiente all'ipotizzato trasporto del legname di farnia. L'ipotesi più probabile rimane quindi proprio quella scartata "a priori dal Naso: l'esistenza, nel paraggi del grande ponte d'un importante centro. Che questo fosse Volsinii (Veteres) (o meglio il sito di tale città ancora così denominato in epoca imperiale) non si può affermare con certezza. Ma ragionevolmente supporlo sì ove si consideri, in aggiunta a quanto si è già osservato, il  'nomen del volsiniese Sejano portato tuttora dal ponte nonchè ad abundantiam il "prenome" dello stesso Elio, identico guarda caso a quello che, in base alla nostra ricostruzione, portava il "Sacerdos" sepolto nel territorio di Tolfa (vedi sopra): forse Elio era un prenome diffuso nella zona di Volsimi ed in quella di Tolfa, sempre che sia lecito ritenere che si trattasse di due zone territoriali diverse.
Torna su
__________________________________________________
1 ) Cfr. ciò che sullo "status di Prefettura è stato detto all'inizio dei cap. III.
2) Ossia attingendo al "De veterum verborum significatione di P. Festo(?)
4) La costruzione della cappella di S. Michele sulla Mole Adriana risalirebbe all'ottavo secolo (F. Gregorovius, op. cit., Vol. I (L. III), p. 309) mentre già nel 509 l'Arcangelo era apparso sulla Mole stessa facendo, come è noto, cessare, rinfoderando la spada, una pestilenza. Anche se con tale apparizione viene generalmente spiegato il culto del Santo sulla predetta Mole ma la "paganità" del luogo dell'apparizione non può non apparire sintomatica è tuttavia evidente che, per ciò che concerne la cappella dedicata allo stesso Santo sul Mausoleo d'Augusto, l'unica spiegazione plausibile è quella fornita nel testo.
       
 

CAPITOLO VII

1. A Nelle pagine che precedono crediamo di aver fornito concreti indizi circa l'identificazione dei sito dei Volsinii Veteres in zona diversa da quelle di Orvieto odi Bolsena ed abbiamo anche prospettato l'opportunità di ricercare il predetto sito nell'ambito del complesso montuoso denominato "Monti della Tolfa". Riteniamo però di dover aggiungere alcune considerazioni a quanto in precedenza argomentato.In merito a ciò che riguarda, in particolare, il problema relativo all'altra Clusium" e quello relativo all'identificazione con i monti dellaTolfa della selva Ciminia (o di quella parte di essa) invasa dai Romani nel 310 A.C., osserviamo qui quanto segue: Come si è già accennato nel cap. IV (par. 5), secondo Polibio, la città che latinamente era chiamata "Clusium" era ubicata a tre giorni di viaggio da Roma. Secondo Erodoto ("Storie", IV, 101, trad. Gina Calzavara, C. Signorelli edit., pag. 64) "una giornata di cammino . . corrisponde a 200 stadi". Poichè lo stadio greco corrisponde a 625 piedi romani e cioè (essendo il p. romano = a circa m. 0,29) a circa metri 184, in un giomo di viaggio, per lo storico di Alicarnasso, potevano percorrersi Km 36,800 (184 x 200). Quindi Clusium, per Polibio, distava da Roma 110, 979 chilometri e non può essere, per tale motivo, identificata con l'odierna Chiusi la quale dista da Roma, come è noto, 160 chilometri. Proprio tre giorni (pernottamenti a Monterosi ed a Sutri compresi) impiegò come ogni viaggiatore nel '500, Annibal Caro (cfr. il cap. IV) per giungere da Roma a Tolfa in quanto questo centro non era allora collegato da strade carrozzabili nè con Sutri (via Cassia) nè con Civitavecchia (via Aurelia). Tale situazione viaria doveva essere indubbiamente identica a quella dell'epoca repubblicana romana, dei 310 A.C., in particolare, anno in cui venne invasa dalla cavalleria di Q. Fabio Massimo Rulliano la "Silva Ciminia". Nel 310 A.C. nella zona non c'erano ancorale strade costruite durante l'impero le quali, all'epoca del Caro (sec. XVI) non erano più, da tempo, agibili. Sutri, che fu, nel cinquecento, "porta" di Tolfa per Annibal Caro, era stata, nel 310 A.C., teste Livio, "velut claustra Euritrae" per i Romani (cfr. Livio, IX, 32:"...Sutrio, quae urbs, socia Romanis, velut claustra Euritrae erat" = "Sutri ... città che, alleata dei R. era come una porta d'Etruria"). Per secoli la Parrocchia di Tolfa appartenne alla Diocesi di Sutri. Ma molti secoli prima, durante l'era dei paganesimo, La Dea Nortia (nel cui tempio volsimese, teste Livio (VII, 3) veniva infisso annualmente un chiodo) era adorata, come c'informa lo scrittore paleocristiano Tertulliano, sia a Volsinii che a Sutri. All'identità di culto pagano che "gemellò" in epoca classica Sutri e Volsinii corrisponde perfettamente, guarda caso! un'identità sia pure amministrativa di culto cristiano tra Sutri e Tolfa: infatti che, come gli studiosi della materia sanno, le diocesi cristiane furono delimitate sulla falsariga delle delimitazioni amministrative dell'Impero Romano, almeno nella maggior parte dei casi.  Ma Sutri prescindendo dalla Dea Nortia che la collega con Volsinii fu, come è noto, l'epicentro di molte battaglie che videro, in antico, Etruschi e Romani contendersi questa "Porta" d'Etruria (e nell'epoca postclassica "porta" di Tolfa; v. sopra) i primi per chiuderla ed i secondi per aprirla. Nel 310 A.C. i Romani la spalancarono entrando nella selva ciminia (sita ad ovest di di Sutri; cfr. il cap. IV). Ma ci siamo già chiesti che cosa "rinchiudeva" di tanto importante quella selva? Crediamo che la risposta a questa non oziosa domanda sia stata data, congiuntamente, da Livio e da Plinio.
B. Nel cap. 35 dei libro IX Livio ci narra che gli Etruschi, battuti, nel 310 A.C., presso Sutri dalla fanteria Romana, "... fuga effusa, castra repetunt. Sed equites romani, praevecti per obliqua campi, quum se fugientibus obtulissent, omisso ad castra itinere, montes petunt. Inde inermi paene agmine ac vexato vulneribus in silvam ciminiam penetratum. Romanus, multis millibus Etruscorum caesis, duodequadraginta signis militaribus captis, castris etiam hostium cum praeda ingenti potitur. Tum de persequendo hoste agitari coeptum. "
Segue, nel cap. 36 dello stesso libro IX, il celebre passo ove è definita "horrenda" la selva ciminia, passo che, nella sua intenzionale drammaticità, contribuisce a consegnare alla storia l'ardita galoppata della cavalleria romana. Di una storica impresa dei cavalieri romani, tanto grande da essere all'origine del nome assegnato agli stessi per un lungo periodo, è menzione in Plinio (Storia naturale, XXXIII, 35): "(Equites romani) "Celeres" sub Romulo regibusque sunt appellati, deinde "Flexuntes", postea "Trossuli" cum oppidum in Tuscis citraVolsini op. VIII sine ullo peditum adiumento cepissent eius vocabuli, idque duravit ultra C. Graccum " (= "(I cavalieri romani) sotto Romolo ed i re furono chiamati Celeres", in seguito "Flexuntes", poi 'Trossuli" dato che avevano conquistato, senza alcun aiuto di  fatti, una città, sita, in Etruria, 8 miglia (romane: = km. 11,829) al di quà (ovv. rispetto a Roma) di Volsinii, di quel nome e quel l'appellativo durò oltre (i tempi di) Caio Gracco ...... Considerando che Volsinii venne distrutta nel 264 A.C. e che Livio non menziona imprese belliche, attribuibili specificatamente alla cavalleria romana, anteriori al 310 A.C. nonchè paragonabili, per importanza, a quella compiuta in quell'anno nella selva ciminia, è da ritenersi molto probabile, anche alla luce del particolare risalto dato all'evento dallo storico padovano, che la conquista di 'Trossula" sia avvenuta nel corso di tale campagna bellica. Se è vero, come riteniamo, che la selva ciminia invasa dai Romani era ad occidente di Sutri (cfr. quanto esposto nel prec. cap. IV), Volsinii, sita 12 miglia oltre 'Trossula" (rispetto a Roma), doveva essere ubicata nella zona dei Monti della Tolfa.
Torna su  
C. Alle considerazioni di cui al prec. cap. IV in ordine a Porsenna (re "Clusium" per Livio, di Volsinii per Plinio, con potente flotta a disposizione ecc.), va aggiunto quanto segue: In nessun passo di Livio le azioni svolte dagli abitanti di "Clusium" (di quella Clusium che non si chiama "prima" "Camars": cfr. cap. IV) risultano incompatibili con quelle espletate dagli abitanti di Volsinii, onde nulla osta, sul piano esegetico, all'identificazione dei primi con i secondi.    Riteniamo comunque che, anche prescindendo da tale identificazione, quanto è già stato detto, nel precedente cap. IV, delle navi che il virgiliano re Osinio guidò a soccorrere Enea "dai lidi "Chiusini" nonchè del porto "di Giano Clusio" cfr. anche il cap. V) e della flotta di Porsenna, possa essere sufficiente ad identificare nel mancato restauratore della monarchia romana il capo della federazione etrusca sedente in Volsinii ed avente a disposizione quello che per i motivi in precedenza da noi esposti (cfr. il cap. V, par. 4) dovette essere il porto (l'unico "naturale" in Etruria) di quella città: il porto di "(Giano) Clusium". In quanto regnava su tale centro portuale (base della flotta mobilitata contro la repubblica romana) Porsenna è detto da Livio "re di Clusium". In quanto regnava (anche) sui Volsimii, sita "tra giogaie boscose", teste Giovenale, e per tale motivo esposta ai fulmini, Porsenna, che ne evocò uno per domare il "mostro "Volta" (cfr. cap. IV), è detto da Plinio "re di Volsinii". In quanto fece "venire navi da tutte le parti" contro Roma (Livio, II, II) deve ritenersi che Porsenna fosse (in quell'epoca) il capo (elettivo) della confederazione. Solo in tale veste egli, anzichè insistere sulla restaurazione della monarchia in Roma richiestagli dallo spodestato Tarquinio il Superbo, potè chiedere ai Romani ed ottenere, senza suscitare sdegnata meraviglia in questi ultimi, la restituzione ai Veienti dei territorio ad essi sottratto (Livio, II, 13), restituzione alla quale il re della lontana Chiusi (quella che prima si chiamava "Camars": cfr. Livio, X, 25) non poteva certo essere minimamente interessato. D. A quanto accennato nel precedente cap. IV (par. I) a proposito dell'invasione del territorio romano effettuata dai Volsiniesi nel 392 A.C. (Livio, V, 31-32) vanno aggiunte, ai fini dell'identificazione dei sito di Volsinii Veteres, le seguenti argomentazioni. Livio ci narra che all'esercito di Volsinii si era unito, per tale invasione, l'esercito di "Salpinum", città questa, che, sulla base della narrazione liviana, viene generalmente ubicata dagli studiosi in luogo prossimo a Volsinii. Dalla vicinanza di Salpinum a Volsinii discendono ulteriori elementi di giudizio ai fini dell'ubicazione delle due città. Prima di esporli (sinteticamente) occorre però tener per "acquisita" l'ubicazione presso il "porto di Giano S. Agostino" (sito di poco a nord ovest di Civitavecchia) della pelasgica "Pisa" menzionata da Catone (in Dioniso d'Alic.) nelle sue "Origini" (cfr. prec. cap. V, 3 nonchè l'appendice specifica al pres. saggio). Sul sito (pianeggiante) di "quella" "Pisa" gravita il complesso montuoso detto attualmente "Monti della Tolfa" ma, anticamente e per tutto il medioevo (almeno) chiamato "Mons Pisanus" ossia 1a zona montuosa di Pisa" (cfr. i passi citati nonchè Velsina", Bianchi, Roma, 1978). Ciò premesso occorre tener presente che, secondo Plinio, fu un "Pisacus Tirreni", ossia un abitante di "Pisa" (o del circondario di questa) figlio di Tirreno, ad inventare la tromba di bronzo (Pl. St. Nat., VII, 201). Tenuto presente che i Greci denominarono, come è noto, questa tromba "salpinx", nome che è chiaramente connesso con quello della città etrusca di Salpinum, appare evidente che tale centro, alla luce della notizia pliniana, doveva essere ubicato nel circondario della Pisa pelasgica sopra menzionata così come nel circondario medesimo, ossia nel territorio dell'ex prefettura claudia, doveva essere situata anche Volsinii che a Salpinum era vicina. E. A quanto esposto in precedenza in ordine a Porsenna vanno aggiunte alcune considerazioni relative alla tomba di quel re quale ci è stata descritta da Plinio (St. Naturale XXXVI, 13) sulla base delle notizie fornite da Varrone.  Si trattava, come è noto, d'una costruzione (sita nella città di "Clusium": ma v. sopra riguardo al toponimo) larga 300 piedi per ogni lato ed alta 50, sotto le cui fondamenta era un intricato labirinto. Su tale costruzione erano 5 piramidi (4 agli angoli ed una al centro) di 75 piedi di base e 150 piedi d'altezza. Sulla cima di ciascuna piramide era posto un disco di bronzo dal quale pendevano campanelle che suonavano al soffiare del vento. Sul predetto disco si alzavano altre quatro piramidi (alte ciascuna 100 piedi) e sopra un piano posto in cima a queste 5 piramidi ancora di altezza imprecisata.A Plinio sembrò strana follia l'aver costruito questo strano monumento. Varrone ( cui attinge il naturalista) troppo minutamente lo descrive per non averlo visto (cfr. nello stesso senso W. Keller "La civiltà etrusca", Garzanti, p. 198), onde l'esistenza in antico della singolare costruzione deve ritenersi certa. Ma nè Varrone nè Plinio nè i modemi studiosi si sono domandati che cosa quel mausoleo volesse simboleggiare. il costruttore, infatti, qualcosa dovette pur simboleggiare. E' la piramide, come appare evidente, l'elemento più caratteristico della tomba di Porsenna. Al riguardo non può non osservarsi che sono 50 le piramidi del mausoleo e che proprio 50 sono le città dell'Etruria elencate nel decreto dell'Imperatore Augusto (contando per una Fiesole e Firenze, inesistente quest'ultima ai tempi di Porsenna e considerando un centro unico i "Novem Pagi praefectura Claudia Foroclodi") seguito da Plinio nella sua descrizione dell'Italia
Torna su (St. Nat. 111, 50 seg.). Ma vogliamo soprattutto osservare che, qualora, con le 50 piramidi avesse inteso simboleggiare (oltre che le 50 città d'Etruria sulle quali dominava, almeno di diritto, Porsenna quale capo della Confederazione etrusca) anche (e principalmente) il paesaggio della zona (1) in cui era ubicata la capitale confederale, ossia Volsinii (perchè lì deve pensarsi che fosse sepolto un tal personaggio) occorre tener presente che l'elemento più caratteristico del territorio (di Tolfa) nel quale noi supponiamo ubicata quell'antichissima città è costituito appunto da una serie di piramidi (grandi e piccole) e di altri picchi di roccia. "I Romani" scriveva nell'ottocento l'illustre civitavecchiese Pietro Manzi "venendo quivi (a Civitavecchia) .... (e) proseguendo fino alle Allumiere ed alla Tolfia, godrebbero di tanto svariati aspetti di monti, colline, valli e tal misti, di tratto in tratto, con piramidi, coni ed altre figure di lave granitose che in quella loro nudità fanno si bel contrasto con il verde delle boscaglie, in mezzo alle quali s'innalzano, che gli è malagevole vedere ed immaginare contrada più incantatrice (da p. Manzi, "Stato antico ed attuale dei porto, città e provincia di Civitavecchia", Prato, 1837, p. 59, riportato in "I santuari della regione di Tolfa" di F.M. Mignanti, a cura di 0. Morra, Cremonese ed. Roma, 1936). L'ambiente in cui sorgeva, dunque, poteva essere simboleggiato dal mausoleo di Porsenna. Abbiamo anche visto quale ambiente naturale poteva essere simboleggiato. Ma è chiaro che al solo fine di rappresentare artisticamente una serie di cuspidi rocciose, il modo in cui nel monumento sono disposte le piramidi delle quali le cinque maggiori ne sostengono, altre nove per ciascuna può sembrare in realtà, inutilmente artificioso e complicato, qualora l'artista non abbia inteso annettere a tale disposizione un qualche significato specifico. A fornirci lumi atti a chiarire tale significato possono essere utili i numeri relativi alle piramidi che compongono il monumento. Tra questi numeri (il 5 delle piramidi di base; il 9 di quelle sovrastanti ciascuna pir. di base; il 45 e cioè il prodotto di 5 x 9; il 50 somma complessiva delle piramidi) il numero più importante, è certamente il 5: gli altri sono, infatti, suoi multpli. Poiché Porsenna (definito da Plinio re di Volsinii ma sepolto per il naturalista sotto la città di Clusium:confronta però ciò che su  l'identità Clusium Volsinii si è detto sopra) era il capo della confederazione etrusca (vedere quanto sopra detto al riguardo), con ogni probabilità la sua tomba dovette essere costruita nella capitale confederale la quale, per Valerio Massimo aveva nome Volsinii (e VELS(I)NA, come è noto, in etrusco). E' opportuno verificare se, eventualmente, il toponimo "Volsinii" abbia una qualche connessione col numero 5. A questo fine è necessaria una breve, specifica dissertazione. 2. Gli antichi toponimi "Velitrae" (Velletri), "Volaterrae" (Volterra), "Fèlsina" (Bologna),­Volturnum ?(S. M. CapuaVetere), Vulci (resti presso Canino (Viterbo» ed il nome dell'antico popolo dei Volsci presentano tutti, all'inizio, un grafèma composto dalle consonanti "v edl­ (o" f 'ed l) tra le quali è posta una vocale (e oppure o). Essendo, come è noto, la consonante e non la vocale la "sostanza d'una lingua (2) possiamo considerare questi rafèmi semanticamente identici tra di loro, come, del resto, confermano, ex  converso, i grafèmi che li seguono i quali sono tutti diversi tra di loro. Ai nomi sopra elencati va ovviamente aggiunto quello di Volsinii, città che, in etrusco, era chiamata, come è noto, VELSNA. Essendo stata questa città l'antica capitale d'Etruria (cfr. Valerio Massimo) è facile arguire l'influenza che potè avere il suo nome ai fini della denominazione di altri centri e popoli sui quali gli Etruschi esercitarono il loro dominio (o predominio). Che i grafèmi iniziali dei vocaboli sopra considerati siano in realtà dei nomi traspare chiaramente, oltre che da quanto detto sopra, anche e soprattutto dai toponimi "Velitrae" e "Volaterrae". In quest'ultimo, in particolare, il "vola" iniziale è identico al nome latino vola il quale, come è noto, significa "pianta del piede o della mano essendo sinonimo di planta. Quest'ultimo termine e vola,così diversi, per struttura, tra di loro, significano tuttavia la stessa cosa. Come mai?   
Le consonanti ?v ed l di vola sono le stesse del vocabolo VL che figura nell'iscrizione bilingue (etrusco latina) 22 D = C.I.E. 1416: Q. Scribonius C.F. / VL ZICHU"
Torna su
Da parte di Franz Skutsch e di altri studiosi si riconobbe (facilmente) che al nomen latino  ­Scribonius" corrisponde l'etrusco ZICHU (2).
Ma poichè Q.,come l'epigrafia latina insegna, è chiaramente il compendio del prenome­Quintus (4), se la parte latina della scritta significa, come significa, "Quinto Scribonio figlio di Caio ( C. (ai) E (ilius», anche la parte etrusca della medesima deve significare la stessa cosa ( tranne il patronimico C. ai F. ilius che non essendo ripetute in etrusco, può supporsi ritenuto ?significativamente! ambivalente). Per tale motivo può ritenersi certo, che l'etrusco VL equivalga al latino Q. ossia a Quintus ?,così come ZICHU corrisponde a Scribonius. Questa corrispondenza è però di tipo­combinatorio. Inetta quindi a chiarirci quella sostanza linguistica che solo l'etimologia può svelarci. Ma quanto ardua l'analisi etimologica di VL! l'estrema concisione dei termine e la certezza "combinatoria" della sua corrispondenza a Quintus impongono di analizzare il vocabolo latino vola che è identico per struttura essenziale a VL, e figura (informe varie) nei nomi sopra elencati di città etrusche e popoli etruschizzati. Nel latinizzato toponimo etrusco­Volaterrae il "Vola" iniziale (essendo terrae il chiaro genitivo di " terra) è strutturalmente identico, come si è già detto, all'etrusco "VL" il quale, per le ragioni " combinatorie già esposte, significa Quinto. Vola deve quindi significare la stessa cosa anche se in latino significa pianta (della mano o del piede). Una sola può essere la causa di questo significato latino di vola:sia dalla mano che dal piede e manano ossia, latinamente, manant (onde il nome "manus") cinque dita. Questa e solo questa emanazione può spiegare, come certamente spiega, perchè VL significhi quinto e perché vola, identico a VL per struttura non possa significare che "quintilia" (o quintia) ossia, italianamente, "cinquina". Riservandoci di trattare ulteriormente di quest'ultimo termine italiano, diciamo subito che in "vola la "v non è altro che la cifra etrusca e latina "V significante "cinque e rappresentante, come è notorio, in forma stilizzata, la mano aperta. In "vola" la v rappresenta la cifra 5 così come significa la "v dei grafema "vel "di velcitanus nome etrusco dei mese di marzo Vola", come si è già detto, vuol dire, in latino, "mano", ossia "cinquina" (= organo con cinque dita") e la stessa cosa significa, ovviamente, "vel" (di "velcitanus") essendo identico al già esaminato VL che si è dimostrato essere uguale a "Quintus".
3. Considerato tutto quanto sopra è stato sinteticamente esposto, cerchiamo di accertare se nei nomi di città e popoli etruschi che sopra abbiamo elencato (Volterra, Velletri, Vosci ecc.), nonchè, principalmente, nel nome di VELSNA (= "Volsinii"), il grafèma morfèma VEL possa corrispondere a "quintus" ("a") per motivi indipendenti dall'equiparazione VL/Q. (e dalle conseguenti esposte deduzioni) di cui alla citata bilingue Etrusco latina. A tal fine vanno innanzitutto tenuti presenti il vocabolo latino vellatura (col Vel iniziale) significante il mestiere del vetturino ed il vocabolo ?quintana, nome latino d'un settore dell'accampamento militare romano destinato al maneggio" (da "manus") della cavalleria e ad attività di sussistenza nonchè nome italiano d'una giostra a cavallo che si effettua annualmente a Foligno (e forse altrove).
Questi due vocaboli sono stati da noi prescelti, come appare evidente, per la sostanziale sinonimia degli stessi, evidenziata dal vel del primo e dal quint del secondo, confermante l'identità semanticatra VEL e Quintus (a, um) in precedenza prospettata.
Tale identità non comporta però la necessità di tradurre VEL (e vola) con quintus(a, um)sic et sempliciter nei nomi di luoghi, di popoli e di mesi (tra questi ultimi  "velicitanus" (*) sopra elencati: Occorre infatti tener conto del significato di "quinta (tia) quintilia ossia­cinquina e cioè mano (dalle cinque dita: v: sopra) che a VEL (corrispondente a vola= palmo della mano) può essere attribuito. Si tengano al riguardo presenti i seguenti vocaboli vernacoli tosco romaneschi derivati, come è evidente, direttamente dall'etrusco senza passare per il latino classico:
1) cinquanta, significante mano nel sonetto di G.G. Belli intitolato Er carzolaro ar caffè" (" : Se toccamo er cinquanta e va benone = '' ci tocchiamo la mano::" come ci informa una nota del poeta stesso, Cfr. G.G.Belli Tuttii sonetti romaneschi a e. di B. Cagli, Vol: Il pagg: 7 10, Avanzini e Torraca edit.) .
2) cinquantaccia, termine toscano indicante un'automobile dei vecchi tempi, usato da Silvio Micheli nel racconto Le cinquantacce del 18.1.1954 riportato in Gli scrittori e L'Unità, edit: L'Unità, pagg: 286. Questa parola, peggiorativa di "cinquanta ossia(v: cattivo maneggio). il collegamento con VEL (= quinto (a» e con " vola (= mano) è attestato dal nome VELTUNE (cfr. " specchio etrusco di Tuscania) ossia di Voltumna " (o Voltumus) massimo Dio degli Etruschi secondo Varrone il quale, per Properzio, era anche il prototipo dei vetturini (cfr. Prop., ode intitolata, appunto, latinamente, "Vertumnus"). Poichè il mestiere del vetturino è detto, in latino, "vellatura" ci sembra che "Vertumnus" (= etrusco "Ve(o)lturina" e lat. "Volturnus" non sia altro che la versione contratta di Vellaturanus. Il termine cinquantaccia va quindi considerato un relitto dei termine quintana, (quasi)  "quintanacea" =vettura da maneggio (cattivo nel caso) sopravvissuto in Toscana sin dall'antichità.
Con quintana è connesso, come si vedrà, anche il toponimo latino "Centumcellae" odierna Civitavecchia). Sui presupposti e sulle conseguenze di tale connessione particolarmente utili ai fini dell'accertamento dell'ubicazione di Volsimi Veteres occorre brevemente soffermarci. Va detto subito, al riguardo, che il toponimo Centumcellae non può designare, come sostennero illustri storici locali, un antico porto "cellulare", fatto cioè di molte "cellae" capaci di ospitare, ciascuna una sola nave. A tale interpretazione, infatti, si oppone e veementemente , diciamo l'identico toponimo romano "Centocelle" designante, ab immemorabili", una nota, vasta zona della Capitale italiana, zona la quale, malgrado l'identità onomastica con la marittima antica "Centumcellae", non ha mai potuto ospitare, ovviamente, naviglio alcuno. Per questo motivo erronea, oltre che arbitraria, appare la scomposizione di quest'ultimo toponimo in Centum e Cellae: E' invece il vocabolo "quintale, forma latino classica d'un più antico centale a fornire la spiegazione del toponimo Centumcellae. Nel Lexicon Matthiae Martini troviamo infatti scritto: Quintale: centum pondo: nona quinto sed a centum"". L'equipollenza tra : I centale" e Quintale" è dello stesso tipo di quella che indubbiamente esiste tra i grafèmi ""(s)ci (figurante nel tema di scindere 9c (s)qui" presenti nei vocaboli latini scilla e squilla" significanti entrambi cipolla (il cui bulbo, come è noto, è scisso e scindibile" in vari strati) (cfr. Vocab. Lat/Ital. cit.). Rammentiamo, anche, di sfuggita, la palese connessione esistente tra i toponimi calabresi ? Scilla" e "Squillace" (golfo di ... ) ambedue chiare reminiscenze toponomastiche della scissione avvenuta, a detta degli storici antichi, qualche migliaio d'anni fà, tra il continente italiano e la Sicilia.
Torna su 
Che il "Centum" del toponimo Centumcellae possa valere Quintum le nostre ingenue considerazioni paralinguistiche sono da ritenersi certamente insufficienti, da sole, a provarlo. Certo è, però, che nell'Itinerario Marittimo Antoniano (cfr. A: Solari, Topografia storica dell'Etruria, Multigrafica editrice, Vol. 1, p, 102) risulta indicato, a 9 miglia romane dal fiume Arnine (Fiora) ed a 18 miglia da "Centumcellae" (Civitavecchia), l'approdo marittimo di Quintianum. E' certo anche che questo approdo non poteva essere così denominato perchè distante 5 miglia da altra località: lo prova, tra l'altro, la denominazione di "Regione Quinziana" che qualche studioso dovette attribuire alla zona territoriale compresa, all'incirca, tra il citato fiume Amine (Fiora) ed il territorio di Civitavecchia. Regio Quintiana" si legge infatti presso la predetta zona quale è rappresentata in una carta topografica dei secolo XIX, pubblicata dal prof Alfio Cavoli nel suo Profilo d'una città etrusca Tarquinia (Tellini, Pistoia, pag. 12), abbiamo supposto (v. sopra) un collegamento con Quintum dei toponimi Volsinii e Centumcellae. Abbiamo anche ipotizzato che nel retroterra di quest'ultima città fosse situata Volsinii. Il numero cinque, che, con i suoi multipli, era, come si è visto, alla base di ciò che era simboleggiato nel mausoleo di Porsenna costruito nella città di "Clusium" è dunque ravvisabile anche nel toponimo Regio Quintiana" nonchè, passando per centum(v. sopra) nel toponimo "Centumcellae". Quest'ultimo potrebbe essere connesso con un più antico "Quintànculae" significante o piccole quintane o, collegandone la seconda parte col verbo "colere" (=coltivare) come Quintanae cultae ossia ?(luogo) nel quale ci si esercitava alle corse dei cavalli".
Il termine latino centanculum designante una coperta da cavallo (Vocab. Lat. Ital. cit.) e da porsi, quindi, in relazione col vocabolo quintana, pur rievocando, nella forma, il toponimo Centumcellae, sembra fornire un notevole riscontro all'accennata ipotesi. Ma, a questo punto, dobbiamo tornare a trattare, sia pure di sfuggita, della BonaDea (cfr. il prec. cap. Il, fine) che era particolarmente venerata nel territorio dell'antica Prefettura Claudia nel quale era ubicata, anostro avviso, Volsinii, A questa divinità, nel III secolo A.C., sul colle romano dell' Aventino, venne consacrato un tempio da colei che era erede dell'antico nome dei Clausi (Ovidio, Fasti, V, I) e cioè da Claudia Quinta la quale aveva in precedenza prodigiosamente trainato la nave che, sul Tevere, recava a Roma il simulacro della Dea Cibele (Ovidio, Fasti, IV', 2). Il nome dei Clausi del quale era erede quella matrona (sospettata d'impudicizia ma provata casta, mediante quel prodigio, da quest'ultima Dea da identicarsi, forse, con la prima) corrisponde a quello di AttoClauso (poi divenuto Appio Claudio). Anche se Tito Livio c'informa (Ab Urbe còndita, II, 16) che questo personaggio era emigrato a Roma dalla Sabina, noi, tenendo presente che Ovidio non parla di Sabina, che il nomen Claudius è etimologicamente connesso con quello dell'antichissima via Claudia collegante l'Urbe non già con la predetta regione ma con l'omonima Prefettura il cui territorio era sacro alla Bona Dea cui consacrò il citato tempio la menzionata matrona; non possiamo non essere indotti aravvisare nell'appellativo di questa l'allusione contestuale sia alla caratteristica principale della Dea (castità, virtù, questa, propria anche della consacrante) sia alla regione d'origine del suo culto (7) Questa serie di indizi non ci sembra sufficiente al fine di poter connettere il toponimo "Centumcellae" con Quintanae onde situare "Volsinii, ossia la città delle quintane per antonomasia in località vicina alla città tirrenica.  E' quindi necessario verificare se possa eventualmente connettersi con Quintanae (ossia con l'equitazione) anche il nome del quartiere romano (cui si è già accennato) che è denominato Centocelle proprio come la città fondata da Traiano nel sito dell'odierna Civitavecchia. E' chiaro infatti che i due toponimi, in quanto sono etimologicamente identici, devono significare la stessa cosa. Abbiamo già supposto (v. sopra) che l'antico nome di Civitavecchia (Centumcellae) fosse connesso con quintanae (maneggi equestri) tramite il termine Centanculum (ed il confronto con quintale). Ciò brevemente ricordato, siamo costretti a constatare che nella località dell'Urbe chiamata (da tempo immemorabile, come si è già detto) Centocelle, la parte centrale dell'area che un tempo era adibita ad areoporto coincidecon il Campo Marzio degli "Equites Singulares (la guardia scelta dell'imperatore) ed è delimitata da altri resti antichi tra i quali la necropoli dei predetti "Equites Singulares" (da il Corriere della Sera" (pag. 33) e da LaRepubblica (pag: III) dei 14.6.1992, articoli nei, quali tali notizie archeologiche risultano fornite dal Prof. Adriano La Regina, Soprintendente archeologico di Roma). L'ipotizzata connessione con l'equitazione del nome della "Centumcellae" tirrenica trova quindi lampante conferma nelle esposte risultanze archeologiche che impongono, ovviamente, di attribuire il medesimo significato di carattere "equestre" all'identico toponimo romano.
Torna su Riteniamo quindi inutile aggiungere altro a questo specifico riguardo. L'inevitabile interpretazione equestre del toponimo Centumcellae alla luce di quella dei toponimo romano Centocelle nonchè sulla base delle argomentazioni in precedenza formulate comporta importanti, doverose deduzioni in ordine all'ubicazione di Volsinii Veteres. Presso questa città (capitale d'Etruria secondo Valerio Massimo) e precisamente nella vicinanze dei finìtimo "Fanum Voltumnae" (tempio di Voltumna, massimo Dio degli Etruschi, secondo Varrone), si svolgevano, come è notorio, in occasione dell'annuale elezione dei "re sacerdote­confederale, cerimonie religiose, una fiera, spettacoli artistici e gare sportive di variio genere (tra le quali, ovviamente, quelle equestri notoriamente popolarissime  tra gli Etruschi antichi e moderni). A queste celebrazioni annuali affluivano, come è risaputo, "pellegrini provenienti da ogni parte dell'Etruria (anche dopo la conquista romana almeno fino all'epoca di Costantino) e dell'Umbria (cfr. il già citato rescritto costantiniano di Spello). Ciò premesso, tenendo presente che in Roma i cavalieri della guardia imperiale avevano (come è dimostrato) il loro campo (marzio) di esercizi a Centocelle ossia relativamente non lontano dalla residenza dell'imperatore, deve logicamente ritenersi che anche l'omonimo centro d'addestramento equestre ("Centumcellae" ossia "Quintàncolae": v. sopra) anticamente sito presso l'odiema Civitavecchia (8) non potesse essere ubicato molto lontano dal campo ufficiale delle gare.Le gare che si svolgevano in tale campo dovevano essere molto importanti visto che esigevano l'allenamento dei concorrenti in un apposito (ed ovviamente vicino) luogo d'addestramento. Poichè Civitavecchia presso la quale l'addestramento, come si è provato, avveniva è compresa nell'antica Etruria propria meridionale, nella quale era sita (come tutti gli studiosi convengono) anche la principale città etrusca e cioè Volsinii, appare inevitabile anche per doverosa esclusione di altri possibili, antichi centrisportivi noti di pari importanza l'identificazione con l'ex capitale d'Etruria del luogo ove andavano a gareggiare coloro che si esercitavano a "Centumcellae". Vicino a quest'ultima città era quindi ubicato il campo delle grandi quintane annuali, e poichè sappiamo che tale campo e cioè Volsinii, era posto, teste Giovenale tra giocaie boscose­("memorosa interjuga) ci sembra evidente che tra i selvosi monti della Tolta, prossimi a Civitavecchia, vada ricercato il sito dell'ex capitale d'Etruria.
4. Di Voltumna (detto dai Romani Vertumnús) si sa, come è noto, che, oltre ad essere la divinità principale del popolo etrusco (teste Varrone), era il Dio indigete di Volsinii (Capitale d'Etruriateste Valerio Massimo) come c'informa Properzio (Elegia II, Vertumnus, 15); che le sue caratteristiche erano la trasformazione (e comunque il mutamento in genere) e l'evento scaturito dalla trasformazione stessa (ibidem 47-48); che era il prototipo degli aurighi (ibidem, 35); che, tra le sue trasformazioni, celebre fu quella che lo mutò in una vecchia donna, effettuata allo scopo di avvicinare per indurla al matrimonio l'inavvicinabile ninfa Pomona, specialista della frutticoltura e degli innesti arborei (Ovidio, Metamorfosi, XIV, 615 seg.). Pomona era una delle ninfe amadriadi (=nascenti e morenti nell'albero: Diz. di Mitologia Elsevier, trad. di M.G. Tavoni, Zanichelli, p. 20) ma forse il mito delle sue nozze con Vertumno simboleggia il passaggio da un'economia puramente raccoglitrice agricola ad un modo di vivere più versatile introdotto in Italia dal popolo etrusco.
Ma Properzio attesta, come già si è detto che Vertumno (= etr. Voltumna) era aurigae species. Questa prerogativa del Dio nazionale etrusco consente forse di attribuire un significato connesso con quello dei nome italiano "redine(i)" privo di equivalente omotematico latino ma certamente collegabile col latinorheda carro) al termine Ràsena(interpretabile, forse, raedanus o "Raedini(s)") col quale gli Etruschi, secondo Dionisio d'Alicamasso (Antiq. rom., I) avrebbero designato se stessi. Sostituita dalla civiltà etrusca del cavallo la precedente civiltà minoico italica dei bue, la corsa dei carri ippotrainati durò per millenni. Questa corsa, iniziatasi, fuori della Penisola, prima di Erittonio (re d'Atene inventore della quadriga: Plinio, St. Nat., VI 202), da Rheso (re Trace dal nome connettibile con rheda, cui Ulisse e Diomede rubarono i celebri cavalli: Iliade, X) e dal domatore di cavalli Ettorre, venne disputata (nel nord Italia) dai Reti, gente di stirpe etrusca secondo T. Livio (V,33), il cui nome può collegarsi (vista anche la consanguineità) con quello dei "Ràsna" e quindi con rheda (onde reti forse = a "rhe(da)ti = muniti di carri); dalla vellatura (mestiere dell'auriga) di Tarquinia, simboleggiata dalla coppia di cavalli già ornanti il locale tempio dell'Ara della regina (museo di Tarquinia); dalla bìga fittile ordinata a Veio (toponimo connesso con "vehia" = carro) da Tarquinio il Superbo per porla sul tempio di Giove capitolino, dapprima trattenuta (perché creduta portatrice di fortuna al possessore) e poi consegnata dopo che i cavalli del veiente Ratumenna, vincitore d'una corsa ed in attesa del premio, sfuggiti al padrone, andarono a fermarsi a Roma sul Campidoglio (9); dalle quadrighe che a seguito di tale passaggio del testimone ­nella staffetta della storia trasportarono i trionfatori romani dalle quadrighe di bronzo che vennero issate, come è noto, sulle principali "moli" dell'Urbe; dalle quadrighe che, ad imitazione di quelle, figurano in cima al Vittoriano di Roma; dalla classe censuaria dei cavalieri romani (istituita dopo l'andata in disuso dei carri da guerra); dai cavalli, infine (montati senza sella come facevano i predetti cavalieri), che in Toscana e nel Lazio settentrionale gareggiano annualmente a perpetuazione della passione etrusca per l'equitazione (10) in quasi tutti i centri abitati (11).
Torna su La connessione del nomen RASENA con l'esercizio della vellatura, ossia con l'arte dell'auriga (cfr. Rhesus, rheda (o renda''), incerta nei dettagli linguistici, è resa tuttavia probabile, sotto il profilo storico, da questa sarabanda millenaria di carri e di cavalli: il toponimo Veii­ chiaramente significante "(città dei) guidatori di vehia, ossia di carri; il nome dei veiente Ratumenna (quello della biga di Veio: v. sopra) significante rhedam minans e cioè "colui che guida il carro; il nome di Tolumnus (=equos) tolutarios minans ossia il guidatore di cavalli da trotto) re di Veio ucciso in combattimento equestre dal tribuno militare romano Cornelio Cosso (Livio, IV, 19); i carri ed i cavalli raffigurati, come è noto, in numerosissimi reperti etruschi, aggiungono testimonianze eloquenti al riguardo. Molto si è detto (o ipotizzato) dai moderni studiosi sulla religione degli Etruschi. Ma, pur sapendosi che il Dio principale di tale popolo ("Deus Etruriae princeps come attesta Varrone) era Voltumna (Vertumnus per i Romani), nume rivolgitore per eccellenza nonchè (teste Properzio), come si è già detto, prototipo degli aurighi (le ruote girano), si è omesso tuttavia di dedurre (ed era doveroso dedurlo) da tale circostanza che, se il maneggio equestre era il mestiere del più adorato tra gli Dei, il maneggio medesimo doveva essere l'attività più stimata dal popolo che a tale Dio attribuiva un culto prioritario. E' soprattutto per questo motivo d'ordine religioso sociale che al termine maneggio col quale (passando per "quintina" ecc.: vedi sopra) abbiamo tradotto il VEL (o "vol ecc:) iniziale dei nomi di luoghi e di popoli sopraelencati, va attribuito, anostro avviso, non tanto il senso di (esercizio del) potere (cfr. il latino "manus" corrisp. a vola) quanto quello> del l'esercizio della conduzione di (propri) carri da guerra." Volaterràe , quindi, dovrebbe significare, all'incirca, "maneggio (equestre) del territorio, ossia "città abitata (in esclusiva o quasi) dell'ordine censuario equestre della zona. Allo stesso modo riteniamo che vadano interpretati i toponimi "Veliter" e con qualche variazione Volsinii. Se si tiene presente la preminenza che ebbe in Roma l'ordine equestre deve logicamente ritenersi che coloro che disponevano di cavalli (e di carri da guerra finchè questi furono in uso) contassero di più nel l'aristocratica Etruria. E' diffusa opinione che le divinità pagane non fossero altro, in realtà, che personificazioni astratte di atti o di fatti (naturali oppure umani) concreti. Certo è, comunque, che gli Etruschi considerarono loro principale Dio (teste Varrone) proprio Voltumna (= lat. Vertunnus) il quale, essendo il prototipo dell'auriga (teste Properzio), "esercitava, come tale, la professione più stimata da quel popolo. Fu evidentemente l'accennata divinizzazione dell'arte del maneggio equestre a determinare la raffigurazione scultorea di due cavalli appaiati sui fastigi del maggior tempio di quella che viene considerata la più antica delle città etrusche (tempio tarquiniense dell'Ara della regina Museo Naz. di Tarq.), sede (come è noto) durante l'impero, dell'ordine e della cassa dei 60 Aruspici. Se i cavalli di Voltumna erano raffigurati sul tempio di quel centro amministrativo della religione etrusca è impensabile che gli stessi animali non ornassero il maggior tempio di quel Dio nazionale e cioè il celebre "Fanum Voltummae" di liviana memoria (cfr. Livio, IV, 23,25,61;V,I7,V1,2), situato, come è generale opinione, presso Volsinii, capitale (teste Valerio Massimo) e massimo centro religioso della confederazione etrusca (cfr. rescritto costantiniano di Spello cit.). Nel territorio degli antichi Novem Pagi in precedenza menzionati, (ora di pertinenza dei Comune di Tolta), vi è una contrada ancor più selvaggia e suggestiva della solitaria plaga nella quale tra il fosso Valchetta ed il fosso dei due fossi vennero scoperti, presso Isola Famese, i resti dell'antica Veio. Ivi gioghi boscosi (nemorosa juga) rievocanti quelli tra le quali, per Giovenale, era posta Volsinii, racchiudono in un ellisse una vallata ondulata. In questa fluisce un corso d'acqua nel quale confluisce altro fosso nel punto denominato i due fossi (12). Entrambi delimitano una vasta dorsale boscosa maculata da ampie radure grigiastre, non verdeggianti, apparentemente costituite da materiale pietroso(13). Essendo la zona nota agli studiosi, crediamo inutile una dettagliata descrizione della stessa e dei resti antichi ivi reperiti (cfr., tra gli altri G. Cola, op. cit. Il Vol.). Tenendo però presente quanto già rilevato in merito alla preminenza dell'ordine equestre nella società etrusca, dobbiamo brevemente trattare di due toponimi e dei singolare aspetto d'un elemento rupestre del paesaggio in quanto riteniamo possibile una connessione degli stessi all'esercizio del l'equitazione. La Grasceta dei Cavallari (= pascolo pregiato riservato ai cavalieri, detti I "cavallari" nel medioevo) è un altopiano erboso della predetta zona (vi sono i resti d'un tempio etrusco romano già ricordati). Una località finìtima è denominata Sasso della Strega­a causa d'una serie di rozze pietre infisse naturalmente al suolo, recanti inciso, ciascuna, un numero romano (cfr. G. Cola, op.cit. 11). Anche se la considerazione non ha alcuna importanza scientifica strictu sensu, non possiamo fare a meno di ipotizzare un possibile collegamento del secondo toponimo ed indirettamente anche dei primo col termine latino striga, significante, tra l'altro, ordine di cavalli uno dopo l'altro (Vocab: Lat/Ital. "ad usum Taurinensis Academiae" ctr., voce "striga"). Percorrendo una strada campestre che ha inizio dalla Grasceta dei cavallari e segue il crinale montano si perviene in breve spazio di tempo ad un vasto altopiano ubicato in posizione dominante ed isolata erto com'è su pendii rocciosi strapiombanti, da tre lati, quasi a picco sulla sottostante vallata. Quest'altipiano (del quale si è già fatto cenno in precedenza) è denominato Piantangeli (Pian d'Angelo secondo alcuni) ed è cosparso di resti antichi in gran parte risalenti al medioevo. Questa suggestiva località è stata sempre avvolta in un alone di leggenda. Secondo un'antica credenza popolare locale vi si troverebbe una misteriosa carrozza con i cavalli (cfr., al riguardo, anche G. Cola. I Monti della Tolfa nella storia, Vol. II cit.). Torna su In quanto riguarda un oggetto concreto o almeno supposto tale e non già il fantasma d'un oggetto, questa credenza popolare appare estremamente interessante nella sua singolarità. E' anche tenendo presente questa credenza e quest'ultima osservazione sul carattere della stessa che va vista ed interpretata la fotografia quì riprodotta (scattata presso un ciglione dell'altopiano di Piantangeli) e (riteniamo) mai prima d'ora pubblicata. In essa si vedono due grandi rocce, contigue tra loro, che somigliano almeno così ci sembra ad una scultura rupestre (ovviamente consunta ed in parte rovinata) raffigurante due cavalli in posizione eretta ed appaiati come se trainassero una biga. Non è certo da escludersi che possa trattarsi d'un banale scherzo della natura. In tal caso bisognerebbe però riconoscere che la natura avrebbe stranamente modellato a forma equina non una soltanto ma entrambe le rocce, appaiando queste, per di più, in modo perfettamente unidirezionale. Avrebbe "fatto ciò, inoltre, proprio nella località di Piantangeli (o Pian d'Angelo) che, come si è detto, è celebre nella zona quale presunta seded'una  carrozza trainata da cavalli (e non già, come si è sopra accennato, del fantasma relativo).
________________________________________________________
1) Vari monumenti antichi e moderni simboleggiano un particolare aspetto della zona in cui sorgono: in Roma la colonna traiana alta come la collina che venne spianata quando fu eretta; gli obelischi della romana via della Conciliazione alludenti all'obelisco della vicina piazza S. Pietro; il cumulo di anfore della moderna fontana posta all'inizio della romana via Marmorata simboleggiante il vicino "Monte Testaccio" costituito, appunto, di anfore ("testae") rotte.
2) Cfr:, tra gli altri, Cesare Cantù, Storia degli Italiani, U.T.E., Torino, 1855, pag: 874.
3) Cfr. F. SKUTSCH, EtruskischeSprache, articolo della Real Encyclopadie Pauly Wissowa trad. di Gaspare Pontrandolfi in "Gli Etruschi e la loro lingua", U: Bastogi, pag: 136.
4)Cfr. Ida Calabi Limentani, "Epigrafia latina", Cisalpino goliardica, Milano, pagg. 155.                       
5) Cfr. per il nome F: Skutsch in Pontrandolfi, op. citr. pagg. 110. Anche in "Xosfer", nome etrusco del mese di ottobre, decimo mese dell'anno, (cfr: " ibidem") la "X" (Chi ") greca, onde il nome venne letto "Chosfer" (sic in A. Traversa, "La lingua degli Etruschi , Paideia editr. pagg. 320). E' interessante notare, anche se a puro titolo di curiosità, che l'uso etrusco di scrivere i nomi dei mesi parte in cifre e parte in lettere continuò nell'età modema (e proprio, singolarmente, nella zona ove supponiamo ubicata Volsinii . Nella deliberazione in data 4 ottobre 1829) dei Comune di Allumiere (Roma) (trascritti da Riccardo Rinaldi in " Le Allumiere" ediz. spec. per la Comunità montana Monti di Allum., 1985) troviamo scritto " a tutt'8bre".
6) Il significato di tale nome etrusco del mese di marzo (per il quale cfr. SkutschPontrandolfì, op.cit., p. 11O) è incerto. Può forse ipotizzarsi = i (mese della) "vola cita " ossia della "mano" esibiti, ossia della proposta di nozze (all'entrata della primavera oppure dell'esibizione dell'esercito ("manus") cosa che nei primordi doveva avvenire nel mese che non per nulla prende il suo nome da Marte dio della guerra.
7) Cfr. Monumento a Claudio ed all'Etruria trovato a Cerveteri. (Museo Etrusco Gregoriano).
8) Forse nella località, sita alla periferia della città, tuttora denorninata (da tempo immemorabile) Ficoncella ­ove sono cospicui resti delle Terme di Traiano. Tale toponimo potrebbe essere una corruzione medioevale di "Centumcellae" (od anche di "Quintànculae").
9) Cfr. Amaldo D'Aversa, La lingua degli Etruschi ", Paideia edit:, pag: 25,nota3.
10) Circa questa passione, cfr., tra gli altri, H.H. Scullard, "Le città etrusche e Roma, Il Polifilo, pag. 263.
11) (11) Ad es. a Siena (Palio).
12) Per la topografia della zona cfr. G. Cola, "I montidella Tolta nella storia", II Vol. cit.). Molte città dell'antica Italia erano site, come è noto, tra due corsi d'acqua: (oltre Veio.) Tarquinia, Cere, Vulci, Terni (Interamna), Teramo (id.).

APPENDICE N. 1 AGYLLA
Malgrado l'accertata posteriorità delle "urbes" (città circondate (da mura)" da "orbis e "curvo,as": cfr. Mommsen, Storia di Roma, ac. di Quattrini, Aequa, I, pag.42) rispetto agli insediamenti dei luoghi forti per natura le note fonti antiche dalle quali si apprende che Caere si sarebbe chiamata in precedenza Agylla furono, dagli interpreti d'ogni tempo, ritenute, come è noto, sufficienti ai fini dell'identificazione dell"'agyliina urbe" (Caere) menzionata nel libro VII (v. 652) dell'Eneide, con l'"urbis Agyllinae sedes" della quale, nel corso del noto incontro sul Palatino, Evandro parla ad Enea nei seguenti versi del libro VIII dei predetto poema:
Torna su

 Haud procul hinc saxo colitur fundata vetusto

Urbis Agyllinae sedes ubi Lydia quondam

Gens, bello praeclara, jugis insedit etruscis. (Aen, VIII, 478 s)

Anche a voler prescindere dall'incongruenza altimetrica universalmente nota cui darebbe luogo l'identificazione dell'"urbis agyllinae sedes" ubicata, in base ai citati versi, sul jugis etruscis (ossia, come è evidente, sui monti sovrastanti Cerveteri da nord ovest), con Caere ubicata invece, vicino al mare, a soli 81 metri d'altitudine, i versi stessi, confrontati col contesto dei poema, attestano che l'identificazione medesima non era condivisa da Virgilio. E' infatti impossibile credere che l'"urbis agyllinae sedes, ribelle al crudele re di Caere Mezenzio (VIII, 481 seg ) e l'"agyllina urbe (VII, 652, = "Caere") fautrice del predetto re cui fornì (contro Enea ed Evandro coalizzati con Tarconte) ben 1000 guerrieri (VII, 647653) dai quali dissentirono, tra la popolazione di patria cerite, soltanto alcuni dei 300 uomini comandati da Astir (X, 182-183 segg.), potessero essere la stessa città. L'identificazione appare tanto più inattendibile in quanto postula in sede diversione l'immotivata attribuzione al vocabolo sedes (VIII, 479) del significato di sede (come l'area), significato che, oltre a risultare, ai fini della descrizione poetica, assurdamente pleonastico, appare altresì logicamente incompatibile con l'espressione "saxo fundata vetusto dato che questa è riferibile, come è ovvio, soltanto ad un complesso edilizio specifico e non già ad una "astratta" sede. Poiché, per tali motivi, va, nella specie, esclusa la possibilità di tradurre "sedes" con: sede, al vocabolo non può essere attribuito che un significato simile a quello di 'possesso (avito)" che gli va certamente assegnato (al plurale) nella locuzione sola domurn e tantas servabat filia sedes/jarn matura viro..." del libro VII, vv. 52-53, dell'Eneide ("soltanto una figlia (mancando prole maschile), ormai da marito, era per possedere (morto il padre, ossia il re Latino) il palazzo e tanti cospicui possedimenti aviti''). Considerati, d'altra parte, i significati di "fondamento", "base, luogo di antico possesso, propri del termine ''sedes'' (Vocab. Latinum et ltalicum ad usum Taurinensis Academiae, Pezzana, Venetiis, 1771) e tenuta altresì presente la già ricordata priorità storica degli insediamenti interni rispetto a quelli litoranei, nel l""" urbis agyllinae sedes può essere ragionevolmente ravvisato 'L'originario insediamento della" città murata (urbe) agillina ossia di Caere. L'ubicazione sui monti sovrastanti Caere del luogo di provenienza della popolazione di questa città appare, del resto, confermata dai risultati di specifiche ricerche archeologiche (cfr. A.Naso, La necropoli etrusca di Pian della Conserva, Gruppo Archeologico Romano, pag. 98). Proprio alla maggiore antichità di Agylla (questo era ovviamente il nome della sedes) rispetto a Caere (urbs agyllina) sembra per altro alludere il verbo colitur il cui uso apparirebbe pleonastico (dato che ogni città è di solito abitata a meno che non sia stata abbandonata dai cittadini) se non dovesse essere considerato in opposizione logica a significare è abitata tuttora (il tempo presente consentendo al poeta di omettere l'avverbio» con la successiva espressione saxo fundata vetusto significante, a sua volta,in quanto fondata sopra uno scoglio durevole" ossia con fondamenta poste sopra una rupe atta a durare (a lungo salda). L'aggettivo vetustus (a, um), oltre che antico (ossia che dura da molto tempo"), significa,, infatti, anche duraturo ossia atto a durare a lungo nel futuro" (cfr. al riguardo, il Vocab. Lat/Ital. cit. nel testo, voce "vetustus"). Com'è noto, la maggioranza degli interpreti traduce l'espressione latina "saxo fundata vetusto" con la frase italiana costruita con antiche pietre" e quindi antica. Essi basano tale interpretazione sull'espressione "Templa Dei saxo venerabar structa vetusto" contenuta nel verso 84 del libro III dell'Eneide (cfr., ad es. "Virgilio" il libro VIII dell'Eneide, introd. e comm. di Carlo Giorni, G.C. Sansoni Edit., Firenze, pag. 42, nota al verso 478). Ma quest'ultima espressione virgiliana conferma la nostra versione, non quella dei moderni interpreti. Le parole saxo... structa vetusto" del citato verso 84 del libro III dell'Eneide non possono infatti significare (templi costruiti con antiche pietre" ossia anticarnente", ma devono invece significare (templi) costruiti con pietra durevole. Ciò per questi motivi:

Indietro pagina 3 Torna su Avanti pagina 5