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Archeologia

Walter Bianchi

Walter Bianchi "Velsina"
 
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1 ) Nell'epoca remota cui risalgono i fatti narrati da Virgilio, i templi, come pure le altre costruzioni, in pietra, erano relativamente recenti dato che nei primordi, come è noto erano i boschi a fungere dai luoghi sacri (e le colonne dei templi classici simboleggiano, appunto, gli alberi); per tale ragione mai Virgilio attento archeologo avrebbe potuto considerare antiche "le pietre e quindi i templi con queste costruiti in quell'epoca; ciò dicasi anche per Agilla.
2) La versione con antiche pietre delle parole "sa o ... vetusto" (En. III, 84, EN. 478) è palesemente erronea dato che, sa o essendo un singolare, l'espressione dovrebbe, se mai significare con antica pietra, il che è palesemente assurdo dato che la pietra, o roccia, è tutta, più o meno, antichissima essendo opera della natura e non dell'uomo. Una simile antichità di pietra era quindi inutile a Virgilio al fine di sottolineare le vetustà dei templi nominati nel libro III (v. 84) nonché dell'Urbis agyllinac sedes nominata nel libro VIII (478) dell'Eneide.
3) Incredibile è, comunque, dal punto di vista poetico, che l'essenziale, sintetico Virgilio, allo scopo di porre in risalto una presunta antichità delle predette costruzioni, possa essersi ridotto ad escogitare una peregrina allusione alle pietre con le quali quelle erano stata erette. Per doverosa esclusione di altre versioni, l'espressione sa o... fundata vetusto (Eri. VIII, 4769) va quindi tradotta con fondamenta poste (fondata) su roccia durevole". Anche senza tenere conto degli elementi di differenziazione sopra esposti, sarebbe, in verità sufficiente questo peculiare atto di fondazione a far ritenere l'"Urbis agyllinae sedes" (En. VIII, 480), ossia Agylla  (toponimo, questo, mai menzionato nel l'Eneide) diversa dall'Urbis agyllina" (= Cere) di cui al verso 652 dei libro dei poema virgiliano: Cere era infatti sita, come è noto, non già su roccia durevole" ("sa o vetusto) ma su roccia tufacea e come tale friabile. A ciò va aggiunto che l'allusione, in Aen. VII, 653-4, a "patriis imperis spettanti a Lauso figlio di Mezentio presuppone necessariamente il dominio di quest'ultimo su almeno due città (nella specie, Cere e l'"Urbis agyllinae sedes): va, ovviamente tenuto qui presente il decisivo rilievo che assume, ai fini della nostra tesi, la già ricordata incompatibilità altimetrica che non consente di confondere Cere (= "urbs agyllina", sita ad appena 81 metri di altitudine sul mare, e I'"Urbis agyllinae sedes che Virgilio, in Aen. VIII, 47981, situa sui JugisEtruscis, complesso montuoso, questo, da identificarsi, necessariamente con gli unici monti sovrastanti Cere, ossia con i Monti della Tolfa. Tale posizione geografica della virgiliana "Urbis agyllinae sedes trova, peraltro, singolare ed importantissimo riscontro nella tesi riferita da Servio secondo il quale alcuni, in passato, ritenevano che da Agilla prendesse nome un monte (o zona montuosa) (Servio, Ad Aeneidem, 48, verso 597 del l. V111): Aliicerte montem putabant ab hoc oppido (AGYLLA) dictum  : poteva infatti trattarsi del luogo montano sul quale un tempo era situata l'antichissima Urbis agyllinae sedes, "madre" di Cere. E' noto che gli insediamenti montani, non murati, precedettero (nei luoghi impervi e quindi muniti per natura) le città che per essere site in tali luoghi più agevoli, dovevano essere cinte di mura onde vennero chiamate urbes (da (c)urvo", as e da orbis" cfr. Mommsen, "Storia di Roma, I,p. 42, Aequa edit., a cura di A. Quattrini).
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Tenuto conto di tutte le considerazioni che precedono, i citati versi 478-80 del libro VIII dell'Eneide, vanno tradotti come segue: Haud procul hinc sa o colitur fundata vetusto Urbis Agyllinae sedes ubi Lydia quondam Gens bello praeclara, jugis insedit etruscis.
Non lontano da qui (dal Palatino) è (tuttora) abitato, (in quanto) fondato (= con fondazioni poste) mediante (= in su('» una roccia durevole, l'originario insediamento della città (murata) agillina ove (= nel quale) il popolo (che era stato) già Lidio, (dato che era) famoso in (fatto di) guerra, si installò in cima alle giogaie etrusche = ''dominò dall'alto le...").""
Poiché l'espressione Jugis ... Etruscis se non è un toponimo non significa nulla, deve ritenersi che contrassegnasse, ai tempi di Virgilio, il complesso montuoso sovrastante Cere dato che l'"Urbis agyllinae sedes, ossia l'originario insediamento di Cere, sul quale il popolo già Lidio si installò a dominare i juga etrusca era situata sul più alto o su uno dei più alti rilievi del complesso medesimo: lo attestano i versi sopra tradotti. Ma gli stessi versi attestano anche che la sedes ossia il primitivo insediamento di Cere aveva fondamenta sopra una roccia durevole ("sa o vetusto"), non,quindi, sul friabile tufo sul quale risulta "fondata Cere. L'antico sito di Agylla va quindi identificato con un monte, tra i più alti dei predetto complesso, che per essere costituito di roccia durissima, risulti distinguibile da altri monti agli occhi dei moderni cosi come lo fu agli occhi di Virgilio, A questo indubbio elemento d'identificazione ne vanno però aggiunti altri di diverso tipo. Tra questi ultimi assume particolare rilievo il nome stesso di Agylla. Come infatti si vedrà, questo toponimo contiene le descrizione d'una caratteristica propria del sito nel quale sorgeva la città nominata, così come il toponimo "Oropìte" descriveva perfettamente, come si è visto, una nota pecularietà del terreno sul quale sorge Orvieto (Cfr. il cap. I dei testo). E' del resto opinione comune tra gli studiosi che molte città antiche traessero nome dalle caratteristiche del sito sul quale sorgevano. L'analisi dei toponimo Agilla richiede però che vengano formulate le seguenti considerazioni preliminari che la necessaria rapidità d'esposizione farà sembrare troppo ' 'ardite relative  all'interpretazione che comportano, a nostro avviso, certi notissimi miti nonché alla spiegazione, conseguente all'interpretazione medesima, di alcuni nomi (di luoghi e non):

A) L'egida (dal greco Ai , aigos), corpetto di pelle di capra indossato da Zeus e da Atena, fu introdotta, secondo Erodoto, in Grecia dalla Libia ove era usata dalle locali donne (Erod., Storie, IV, 189). Il significato sacro dell'uso di tale indumento non è spiegato, per quanto ci consta, dalle fonti antiche. Noi però supponiamo si badi bene, supponiamo che esso simboleggiasse la salvezza trovata durante e dopo il Diluvio (quello della tradizione greca) dall'umanità che ebbe la ventura di trovarla, sui monti ed in genere sui luoghi elevati rimasti all'asciutto. Qui poterono agevolmente installarsi le capre, animali abili ad aggrapparsi alle rocce e quindi gli uomini cui gli animali stessi poterono fornire, con latte, came e pelle, bevanda, nutrimento e vestiario onde sopravvivere. Con una riduzione all'unità d'un fenomeno collettivo, tipica delle religioni antiche, i posteri ravvisarono nella pelle di capra l'attributo protettivo caratteristico di Giove (simbolo trascendentale dell'uomo primitivo, che da bambino, ossia nei primordii, era stato allevato, com'è noto, in Creta dalla capra Amaltèa) e di sua figlia Minerva Atena, simboleggiante, questa, la sapienza scientifica scaturita dalla testa dei divino padre. Molto potremmo dedurre, che non dedurremo.
B) Tenendo presente quanto brevissimamente esposto nel precedente punto A), elenchiamo i nomi (di luogo e non), dei quali ci sovvìene, connessi col termine greco, Ai , aigos" (a sua volta connesso, riteniamo, col verbo "airèomai" =  mi afferro, ossia mi aggrappo: cfr. lat. (ad)hereo = io aderisco) Aegilia (antico nome dell'isola d'Elba), lgilium(nome latino dell'isola del Giglio), Capraia (isola di), Capri (id.). Tra questi toponimi "Igilium" riveste particolare importanza. Della sua trasformazione in Giglio e delle implicazioni storiche di tale trasformazione si tratterà brevemente subito dopo aver precisato che ai nomi di luogo sopra elencati va senz'altro aggiunto, a nostro avviso, quello di Agylla. Questo toponimo, partendo la sua interpretazione da "Ai , aigos = "capra" (animale abitante in luoghi impervi) e passando, la stessa, per "Agièus" = "stele di forma conica sacra ad Apollo (cfr. Vocab. Greco/ital. citato nel testo), nonché per l'italiano guglia, non può significare altro che paese di capre, espressione, questa, tuttora usata ad indicare villaggi difficilmente accessibili in quanto siti su alture impervie.
Torna su Dovette essere supponiamo la trasmigrazione degli abitanti dell'impervia Agylla in un luogo più opportuno", ossia agevole in greco "káiros", onde, a nostro avviso, il toponimo Caere"(2), a far credere agli antichi studiosi (da Catone a Servio) che Cere si fosse chiamata prima Agylla (attribuendo alla civitas, intesa quale città, ciò che andava invece attribuito alla civitas intesa quale popolazione). L'opinione riferita da Servio alla quale si è già accennato secondo cui, per alcuni studiosi, esisteva un monte chiamato (Agylla) da questa città (Cere, presunta e Agylla) fornisce riscontro, sia pure indiziario, a questa nostra ipotesi. "Igilium", come abbiamo già detto, si trasformò in "Giglio" (isola del ... ). Ma tale trasformazione onomastica non generò solo il nome dell'isola omonima nonché dell'omonimo fiore (il più alto fra i fiori campestri e recante, per di più, tra i petali, una "guglia"); generò anche il nome dei "gigli" di Nola (cittàdi origine etrusca) dato ad alti pilastri lignei poligonali, vuoti all'interno e terminanti a cuspide, che nella città medesima vengono, com'è noto, annualmente portati in processione. I "gigli" di Nola rassomigliano, nella forma, ai Ceri di Gubbio che in questa città, com'è altrettanto noto, vengono annualmente portati in giro, solennemente, di corsa. Considerata la già adombrata confusione antica (e moderna) tra Agylla e Cere, osiamo ipotizzare che, come i gigli di Nola traggono ultima ed ancestrale origine dall'alta e rupestre Agylla (ossia dal monte omonimo di cui parla Servio) cosi i "Ceri di Gubbio (lignei e simili ai gigli di Nola) traggano origine dal toponimo Cere ritenuto, a suo tempo, equipollente ad Agylla. Dopo aver tanto osato (e ne chiediamo venia) torniamo al monte d'Agylla menzionato da Servio. Il complesso delle notizie fornite dalle fonti trattanti di Cere e di Agylla impone di situare su quel monte, ossia, latinamente, sul complesso montuoso (Mons) digradante verso l'odierna Cerveteri, attualmente denominato Monti della Tolfa, l'antichissima città di Agylla. Tra questi monti ve n'è uno che per la sua forma conica somiglia moltissimo ad un Agiens ­(stele conica in onore di Apollo: cfr. Vocab. Grec./Ital. cit.). Si tratta di un monte costituito di roccia durissima (cfr. vetusto... sa o in Aen. VIII 478,8 1) ed estremamente scosceso, accessibile quindi, almeno in antico, solo alle capre. Tali caratteristiche non sono da ritenersi certamente sufficienti ad identificare il serviano monte d'Agylla con questo particolare monte né, tampoco, le pendici di quest'ultimo con il sito di Agylla (madrepatria, secondo noi v. sopra di Cere). Ma esistono vari indizi che veementemente c'inducono a ritenere estremamente attendibili queste ipotetiche identificazioni.
C) Siamo costretti, a questo punto, a compiere un salto di molti secoli.
E' notorio che,  all'epoca del suo affermarsi, la Chiesa Cattolica adottò, specie nel campo organizzativo, una terminologia greca: cfr., tra gli altri, i termini Ecclesia, Papa (in altemativa con "Pontife Ma imus"), episcopus, "paroecia", "dioecesis" ecc.). E' anche noto che ad alcune città, in antico celebri quali centri della religione pagana, venne in quell'epoca sostituito (sia pure al soli fini di denominazione di Diocesi o di parte delle stesse) il nome etrusco latino (passato poi all'italiano) con il preesistente nome greco pelasgico: così Tarquinii divenne Corneto (toponimo connesso con le virgiliane estreme città di Còrito) e Cere tornò (ma v. sopra) a chiamarsi Agylla. Vescovo d'Agylla (e di altri centri) si chiama tuttora l'ordinario della diocesi comprendente l'odierna Cerveteri erede dell'estrusca Cere. Tale mutazione di toponimi fu causata, a nostro avviso, dal fatto che l'Etruria era considerata dai primi presbìteri e da noti Apologisti cristiani creatrice e madre di tutte le superstizioni" (cfr. il testo) e se ne voleva, quindi, cancellare ogni ricordo, sostituendo all'aborrita tradizione etrusco romana quella greco pelasgica dei singoli luoghi la quale, per il suo carattere primordiale, era evidentemente ritenuta meno pericolosa anche se, come è evidente, era rimasta viva nel campo e nell'ambiente culturale (1). Anche in sede d'assegnazione a centri abitati di Santi patroni dovette seguirsi un criterio dello stesso tipo in tutti quei casi nei quali non era possibile reperire un Santo nella tradizione cristiana locale.
Torna su Tenendo presente quanto abbiamo già brevissimamente esposto in ordine al sito ed al nome di Agylla, riteniamo che un esempio del predetto metodo possa essere fornito dal l'assegnazione avvenuta in epoca imprecisata ma che supponiamo antica del patrono Egidio alla cittadina di Tolfa (Roma), unico centro abitato di qualche rilievo (fino alla prima metà del secolo I ) esistente nel complesso montano sovrastante Cere, situata alle falde dei monte conico costituito di durissima roccia trachitica ed estremamente impervio al quale si è in precedenza accennato. E' universalmente noto come la relazione ravvisabile tra specifici aspetti caratteristici propri d'un Santo e quelli propri di un centro abitato o di un'attività da affidarsi alla protezione celeste sia spesso stata alla base della scelta del divino protettore: così, ad esempio, S.Barbara, salvatrice dai tuoni, è patrona dell'artiglieria; l'apostolo Matteo, esattore fiscale, lo è della Guardia di Finanza la Madonna di Loreto, la cui casa volò da Efeso in quella città marchigiana, lo è dell'Aeronautica, ecc. Un simile criterio dovette essere seguito da chi elesse a Patrono di Tolfa il santo monaco ateniese Egidio il cui nome (greco "Aigiidios") rievocava l'antico toponimo Agylla.
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1) Sa o ... vetusto è compl. di mezzo così come "dente tenaci" in Aen. VI, 34: dente tenaci/Anchora fundabat naves Nella specie, essendo la rupe il mezzo per porre fondamenta (fundare), l'avv. vale sù (sopra la r. stessa).
2) Tra i nomi geografici connettibili con la capra (Ai ) abbiamo tralasciato, dovendo, per brevità, omettere la mole di argomenti che potremmo addurre, "Aiguptos" ("Egitto") Aigaios" ((mare)Egeo)connettibile. quest'ultimo, con "Aiguio" = "Caprigno ed indicante riteniamo la possibilità offerta ai naviganti di      aggrapparsi (come fanno le capre) alle numerosissime isole di quel mare in tempi di primordiale navigazione.
3) Circa tale significato di kairos cfr. "Guida d'Italia, Lazio, non compr. Roma", Touring Club Ital., Mil. 1964, pag. 443: " Il gruppo del M(onte) Cairo (Cassino) non presenta le difficoltà e i rischi desiderati da molti alpinisti provetti...(perché "agevole" ossia proprio Kairos come fu anticamente denominato).
4) Invece, a luoghi di culto sorti su aree pagane celebri, essendo indisponibili tradizioni preetrusche, vennero assegnate denominazioni opportunatamente "aggiustate": ad es. la chiesa sorta sull'e tempio di Minerva venne chiamata di S.Maria sopra Minerva; quella sorta sul tempio di Giunone Lucina si chiamòdi S.Lorenzo in Lucina; quella sorta sull'arce capitolina si chiamò S.Maria in ara coeli" previa modifica della dizione "in aree" (cfr., nello stesso senso Pinto, "Dizionario delle antichità, voce Aree.

APPENDICE N. 2 L'ALTRA PISA

A) Fonti già citate nel testo.

1) Catone (in Dionisio d'Alicarnasso, I) c'informa che i Pelasgi abitarono, in Italia, alcune città tra le qualiCere,detta in quell'epoca, Agylla (ma cfr., al riguardo, l'Append. n. 1), Pisa (al singolare, numero, questo, che denota precedenza nel tempo rispetto a Pisae), Saturnia, Alpheium, che furono in seguito occupate dagli Etruschi . Poiché le predette città appaiono palesemente elencate secondo l'ordine di distanza da Roma, città nella quale Catone scriveva, sembra evidente che Pisa, in quanto elencata tra Cere e Saturnia, fosse in realtà ubicata tra queste due città.

2) Eneide, I., vv. 175-180:

'Tertius, ille hominum Divumque interpres Asylas

Cui pecudum fibrae, coeli cui sidera parent

Et linguae volucrum et praesagi fulminis ignes:

Mille rapit densos acie atque horrentibus hastis,

Hos parere j ubent Aipheae ab origine Pisae

Urbs Etrusca solo....

(traduzione dell'Albini:... Veniva terzo Asila/quel degli uomini interprete e deiNumi,/cui le fibre del gregge cui son chiari/gli astri del ciel, le lingue degli uccelli/e i guizzi della folgore presaghi,/con mille in campo densi orridi astati./Glie li commette Alfea d'origin Pisa/città etrusca di suol.")
Anche se il poeta la chiama Pisae (e non Pisa come Catone) ci sembra chiaro che la precisazione urbs etrusca solo possa avere un senso come si è rivelato nel testo solo per distinguere la città che egli nomina da un'altra Pisa non etrusca in quanto a territorio d'ubicazione. A questa considerazione si aggiunge:
a) l'assenza, nei versi sopracitati, di ogni accenno all'Arno, accenno che non sarebbe probabilmente mancato trattandosi, per di più, d'una rassegna navale qualora Virgilio, nominando Pisa avesse inteso alludere alla città posta sulle rive del predetto fiume;
b) Asila, condottiero dei mille astati di Pisa, è chiaramente un Aruspice, dato che è descritto quale esperto di viscere animali, di lingue d'uccelli nonché di fulmini l'osservazione e lo studio dei quali potevano convenientemente aver luogo soltanto sopra delle alture le quali, come è noto, non esistono alla foce dell'Arno (il "Monte Pisano dei quale si tratterà subito appresso, era invece luogo estremamente adatto alla bisogna).

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3) Polibio, Storie",II, 27 (traduz. e n. di F. Brindesi, Rizzoli ed.):
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In questo stesso tempo (anno 225 a.C. nel quale i Galli, dopo avere sconfitto i Romani in Etruria, anziché marciare su Roma, decisero di tornare al nord, carichi di bottino, via Talamone luogo, questo, ove furono poi definitivamente battuti: nostra nota) il console Gaio Atilio, proveniente dalla Sardegna con l'esercito, dopo essere sbarcato a Pisa avanzava con i suoi verso Roma marciando in senso contrario ai nemici." Lo storico greco, descrivendo minutamente la campagna militare del 225 a.C. (Storie, II, 25-31, trad. F. Brindesi, Rizzoli, B.U.R. edit.) c'informa che i Celti, giunti, dopo aver saccheggiata l'Etruria, presso la "città chiamata Chiusi che dista tre giorni di cammino da Roma (ma cfr., circa l'incongruenza di tale distanza dall'Urbe dell'odema Chiusi, quanto rilevato nel capitolo IV, par. 4 del testo), batterono le truppe romane di stanza nella regione. Poi, però, dopo aver saputo di essere inseguiti dall'esercito del console Lucio Emilio partito da Rimini, decisero di sospendere l'avanzata su Roma e di tornare al Nord onde mettere al sicuro l'enorme bottino catturato. Si diressero, quindi, a tal fine, verso Talamone allo scopo di immettersi sul tracciato (ancora non lastricato) della via Aurelia. Arrivati nei pressi di tale cittadina costiera, si trovarono, però, presi in mezzo tra l'esercito di Lucio Emilio che li seguiva dal nord e quello dell'altro console Atilio il quale, proveniendo dalla Sardegna, era sbarcato,come si è già detto,a ''Pisa'' diretto a Roma. Poiché Polibio dice esplicitamente che lo sbarco di Atilio a Pisa avvenne contemporaneamente alle operazioni belliche svolte in Etruria da truppe locali e da quelle del console Emilio (cfr., oltre al cap. 25, i capp. 26 e 27 delle "Storie" traduz. cit. inizianti entrambi con le paroleIn questo stesso tempo) appare evidente che il primo dei due consoli né in Sardegna né durante la traversata marittima poté essere a conoscenza della marcia dei Celti verso Talamone né tampoco della loro intenzione di immettersi sul tracciato della via Aurelia onde ritomare al nord carichi del bottino fatto in Etruria. Ma, se Atilio, prima di prendere terra, nulla sapeva di questo piano dei Celti, chiaramente illogico e strategicamente inutile era da ritenersi un suo sbarco alla foce dell'Arno! Considerato, infatti, che l'unico fatto di cui egli poteva essere a conoscenza (ovviamente comunicatogli da messi del Senato) era la marcia dei Galli verso Roma seguendo il tracciato dell'interna via Cassia, l'indubbia urgenza avrebbe imposto uno sbarco ad Ostia (ossia nel porto continentale piò vicino alla Sardegna come lo è ora Civitavecchia) onde poter rapidamente muovere contro il nemico per il tracciato della predetta consolare. Ma poiché Atilio poteva effettuare la stessa manovra con maggior rapidità, dato che le navi sono più veloci delle fanterie, sbarcando poco a Nord dell'Urbe, appare evidente che la ''Pisa'' nel cui porto egli approdò nel 225 a.C. va necessariamente identificata col sito di quella Pisa" di cui parla Catone nelle sue Origini (ved. sopra). Tale porto (l'unico naturale della costa fino a Populonia) è stato da noi identificato, nel testo (cfr.) col porto di Giano Clusius S. Agostino". E' molto dubbio, dei resto, che a Pisa quella odierna Atilio, nel 225 a.C., potesse tranquillamente sbarcare. E' noto, infatti, che quella città divenne colonia romana solo nel 170 a.C..
B) Fonti non citate nel testo.
1)Lapide funeraria militare riportata apud Gruterum, pag. CI, 1, 5, e trascritta dal Noris in Coenotaphia Pisana, Dissertatio l (lapide definita vetusta dal Gruterio).

                          M.NAEVIUS                             M F

GAL.                          RESTITUTUS

MIL. COH.              PR                      H AQ

QUI RELIQ.   TESTAM.                    COLL.

FABR.                       NAVAL.          PIS. STATIONI VETUSTISS.

ET.                     PIS. HS             IIII……….

Ossia: ""M(arcus) Naevius M(arci) F(ilius) Gal(eriae) (tribus), Restitutus, mil(es) Coh(ortis) Pr(aetoriae) h(ic) aq(uiescit) qui reliq(int) testam(ento) Coll(egio) Fabr(orum) Naval(ium) Pis(ae), stationi vetustiss(imae) et(ruscae) Pis(ae) HS (= sestertia) IIII...""

=Qui giace Marco Nevio Restituto, figlio di Marco, della tribù Galeria, soldato della decima coorte pretoria, il quale ha lasciato per testamento al collegio dei fabbri navali di Pisa, per (incrementare) l'antichissimo porto etrusco di Pisa, 4.000 sesterzi
L'amichissimo porto etrusco di Pisa menzionato in questa epigrafe non può corrispondere al sito della Pisa odierna. Quest'ultima città, infatti, situata com'era sulla riva destra dell'Amo, era indubbiamente città ligure e non poteva, quindi, far parte della antica confederazione etrusca (cfr. nello stesso senso, tra gli altri, Luisa Banti, Il mondo degli etruschi, Biblioteca di Storia Patria, 1969, pagg. 12,15, 101, 209, 210), E' quindi da ritenersi certo che nella riportata epigrafe si alluda non già alla colonia fondata dai Romani alla foce dell'Arno solo nel 170 a.C., bensì alla città di Pisa(al singolare al contrario di Pisae plurale indicante posteriorità nel tempo) che Catone il Vecchio situò tra Cere e Saturnia nelle sue Origini".
La regione marittima sita a nord ovest di Roma conservò il nome di Pisana per tutto il Medioevo ed oltre: dimostriamo ciò nel seguente paragrafo 2) della lettera B) della presente Appendice.
2) La fonte medioevale della denominazione Pisana attribuita ab antiquo alla maremma laziale e a nord ovest di Roma è costitutita dalle notizie a noi pervenute in merito al soggiorno di S.Agostino nella zona prossima a Centumcellae (odierna Civitavecchia) e precisamente, nel l'antichissimo cenobio della Trinità (in territorio del Comune di Allumiere) ed in quello distrutto a causa della II guerra mondiale ma da noi visto prima di questa già sito in località detta appunto S.Agostino, sul litorale a nord di Civitavecchia. Tali notizie relative al soggiorno del Santo in Italia ed in particolare presso i duecenobii, sono state da noi tratte da F.M. Mignanti, "Santuari della regione di Tolfa, a cura di Ottorino Morra (Cremonese edit., Roma 1936) e le riassumiamo qui per la sola parte che interessa il presente saggio. Il soggiomo di Agostino nel cenobio della Trinità è ricordato in due antiche lapidi latine già site nel cenobio stesso. Una delle due lapidi (considerata la più antica) reca nella prima riga le parole sive viator (si comprenderà appresso il perché di questa precisazione). Nel corso di scavi effettuati nel secolo VII venne rinvenuta, nell'altro cenobio sito in riva al mare, poche miglia a nord di Civitavecchia, un'altra lapide latina di cui abbiamo accennato nel testo) nella quale è ricordato un fatto prodigioso che ivi sarebbe accaduto: in quel lido, presso quello che fu detto in antico porto di Giano e poi di Bertaldo (come afferma l'autore dell'iscrizione), Agostino, mentre stava cercando di risolvere il problema relativo al mistero della SS.Trinità, vide un fanciullo occupato a versare acqua dal mare in una fossetta da lui scavata.
Torna su Il Santo avrebbe allora compreso che, com'era impossibile vuotare il mare in quella fossetta, altrettanto impossibile era trovare la spiegazione dei Mistero da lui indagato.Sulla base delle lapidi sopra citate (che il Mignanti trascrisse integralmente) appare possibile constatare l'esistenza, nel medioevo (a tale era risalgono le lapidi) d'una tradizione relativa al soggiorno del Santo nei luoghi predetti. Tale tradizione trova riscontro anche in altre fonti, citate dal Mignanti, che qui di seguito riproduciamo allo scopo di dimostrare, non già il soggiomo di S.Agostino sui Monti della Tolfa, dimostrazione che esulerebbe dai fini dei presente lavoro, ma la denominazione Mons Pisanus, ossia la zona montuosa di Pisa­attestata in tali fonti che il predetto complesso montuoso aveva per averla conservata sin dall'età classica nel medioevo. Il Mignanti (op. cit.) prova, con buoni argomenti, che Agostino, battezzato a Milano nell'aprile del 387, rimase in Italia circa dieci mesi prima di reimbarcarsi per l'Africa. Lo stesso autore afferma che egli non trascorse questo periodo stando sempre in Roma: lo attesta Licenzio, figlio di Romaniano, il quale, in un'epistola in versi, ricorda ad Agostino i lieti giomi con Lui trascorsi "Italiae medio montesque peraltos (Mignanti, op. cit.). Tali monti dell'Italia centrale, sostiene il predetto autore, non potevano essere situati molto lontano da Roma dato che il Santo era, come è noto, in attesa di imbarcarsi da Ostia per l'Africa e della revoca del divieto di navigazione sancito dalle autorità in coincidenza con la guerra civile allora in corso nella zona di Cartagine, divieto che era l'unico motivo dei protrarsi della permanernza di Agostino in Italia.
Ma dove erano situati tali monti dell'Italia centrale?
Il Mignanti (op. cit.) elenca numerose fonti medievali e rinascimentali (delle quali, per brevità, solo alcune noi riproduciamo) attestanti una tradizione secondo la quale Agostino soggiornò presso Civitavecchia e presso il Monte Pisano: il celebre cardinale Egidio da Viterbo, generale dell'Ordine Eremitano, in una lettera diretta ai PP. di Lecceto afferma: E tant in Monte Pisano, e tant ad Centumcellas vestigia plane insignia, e tant in universo Thusciae solo loca quae ille (Augustinus) incoluit et monachis incolenda dedit.
Il Torelli, nei suoi Secoli agostiniani, afferma, tra l'altro, che sulla porta dei Santuario della Trinità sopra menzionato, vi era una lapide che, all'inizio, recava le parole sive viator (cfr. l'intera iscrizione nel citato lav. del Mignanti).
Pedro del Campo ? dell'Ordine Agostiniano come il Torelli nella storia del suo Ordine, afferma, sulla fede dei vari autori, che S.Agostino, dopo il suo battesimo, visitò i religiosi del Monte Pisano, che quivi era un convento nella cui chiesa si vedeva la lapide che cominciava: "sive viator".
Frà Giuseppe da S. Antonio di Lisbona, in una storia in lingua portoghese, afferma che Agostino, dopo la morte della madre S. Monica, dimorò nel convento del Monte Pisano ed a Civitavecchia.
Girolamo Romano, nella sua storia dell'Ordine di S. Agostino, scrive che questi frequentò i monaci che abitavano sulle rive del mar Tirreno e quelli che dimoravano nei monti etruschi­specialmente nel Monte Pisano.
Anche il Crusenio fa cenno della lapide recante le parole sive viator murata nel già menzionato Santuario della Trinità.
Il Petrarca, nel De vita solitaria, ricordando l'amore di Agostino per la solitudine, scrive: Pisani Montis otio delectatus Augustinus illuc eremitico habitu tra isse moras creditur .
S.Antonino, arcivescovo di Firenze, scrive che Agostino "visitavit eremitas qui erant in Monte Pisano, aliquibus diebus cum eis moras trahens et alios eremitas qui erant Centumcellis".
Gli Autori citati dal Mignanti affermano dunque che Agostino soggiornò presso Civitavecchia , presso il Monte Pisano.
L'ACCOSTAMENTO CONTINUO, NELLE CITATE FONTI, DI QUESTI DUE TOPONIMI, RENDE RAZIONALMENTE IMPROBABILISSIMA, PER NON DIRE IMPOSSIBILE UN'INTERPRETAZIONE GEOGRAFICAMENTE DISGIUNTIVA (TRA CIVITAVECCHIA E LA CITTA' DELL'ARNO) DELLA LOCALIZZAZIONE: LA VICINANZA A CENTUMCELLAE DEL COMPLESSO MONTUOSO (MONS) DETTO PISANO NELLE FONTI SALTA, DEL RESTO, AGLI OCCHI ANCHE ALLA LUCE DELLA TRADIZIONE AGOSTINIANA SERBATASI PRESSO CIVITAVECCHIA E NON PRESSO PISA.
Ma la certezzache il Monte Pisano menzionato dagli Autori sopracitati non possa essere nulla di diverso dalla zona montuosa gravitante su Civitavecchia (attuali Monti della Tolfa) è data dalle testimonianze che come quella di Pedro del Campo ricordano la lapide con le parole sine viator esistente nel Santuario della Trinità che è situato, appunto, nella zona montuosa (lat. mons") medesima: tale zona montuosa, nei secoli passati, era evidentemente chiamata Pisana.
Torna su Ma le fonti storiche (e tralasciamo qui, per brevità, una significativa menzione dei? Pisani" contenuta in una lettera del 603 di S.Gregorio Magno: cfr., ad boe, Bianchi, Vèlsina", Roma 1978) non sono le sole a confortare tale affermazione: il nome antichissimo, infatti, non è del tutto scomparso dalla topografia. A Roma, come è noto, esiste l'antichissima Via della Pisana" la quale, dai quartieri occidentali della Capitale, volge verso l'Etruria Marittima. Ma vi è di più a conforto della nostra tesi. Come c'informa Sergio Delli nel suo lavoro intitolato ­Strade di Roma (Newton Compton Editore, voce Via della Pisana), in una gabella del vino dei 1424, del Comune di Roma ? il cui territorio, come è noto, includeva ed include tuttora una parte dell'Etruria Meridionale) figura indicata una Taberna sita in Pisana, dizione, questa, ove l'espressione "in Pisana" sta chiaramente ad indicare, non già un quartiere dell'Urbe, ma al contrario, una regione: quella, ovviamente, che, inizia subito a nord ovest dell'Urbe medesima,

APPENDICE N. 3 CORITO

I toponimi Cortnossa e Contènebra postulano alcune brevi considerazioni.

Nel Dizionario di mitologia edito da N. Zanichelli (Bologna, ed. dei sett. 1975, trad. di Maria Gioia Tavoni), alla voce "Còrito" si legge: "Còrito (gr.Kòruthos). Figlio di Paride e di Enone. Per turbare l'idillio di Paride ed Elena, Enone inviò Còrito ad Elena. Paride non lo riconobbe e lo uccise. Il termine "Còrito", col quale quel povero giovane ci è stato tramandato, lungi dal poter essere un nome di persona strictu sensu, (improbabilissimo in quella remota epoca priva d'anagrafe e comunque di difficile trasmissione ai posteri per carenza di gesta memorabili compiute dal titolare) indica, bensì, a nostro avviso, anche se solo ai fini identificativi perseguiti dagli autori della tradizione storica, la situazione specifica in cui il figlio (di primo letto) di Paride, dal sembiante ignoto al padre, venne a trovarsi, situazione che bastava a contraddistinguerlo. Poiché quel giovane era giunto inatteso innanzi all'ignaro padre, in "Còritus" va ravvisato il compendio dell'espressione latina "coram itus significante, appunto, (il) venuto(gli) davanti" (a Paride, s'intende). A chi ci obiettasse che il fatto sopra riportato riguarda Troiani e non Latini, basterebbe rispondere che i primi, ritenuti da tutta la tradizione classica i progenitori dei secondi, non potevano non trasmettere ai loro discendenti (poi venuti in Italia con Enea) anche la lingua (almeno negli elementi essenziali). Ma, col termine "Còrito", la tradizione antica contraddistinse anche un altro e più celebre personaggio. Si tratta di Còrito mitico re d'Etruria e padre di Jasio (fratello di Dardano, ma figlio di Giove, questo e progenitore dei Troiani). Come è noto, durante la sosta a Creta, Enea, dopo aver erroneamente identificato con quest'isola 'L'antica madre" che l'oracolo d'Apollo gli aveva prescritto di cercare, venne invitato (in sogno) dai Penati a cercare "Còrito" e le terre Ausonie, ossia italiane (Eneide, libro III, 170). Quindi, per Virgilio, l'Italia, su cui regnava Còrito, sarebbe stata l'antica madre dei Troiani, i quali poi, dopo la distruzione di Troia, vennero nella penisola con Enea. Poiché, però, questo andirivieni dall'Italia all'Asia minore e viceversa non ci ha mai convinto, persuasi come siamo che il poeta mantovano l'abbia escogitato a fini araldici onde esaltare poeticamente un'origine italiana prima con seguito a Troia della stirpe latina, siamo indotti a pensare del "Còrito" virgiliano all'incirca ciò che abbiamo scritto sopra in ordine al termine che contraddistinse lo sfortunato figlio di Paride. Riteniamo, invece, che, nella frase degli Dei Penati "cerca Còrito" (En. III, 170), quest'ultimo termine non possa designare come erroneamente pensò Virgilio una persona o, in senso traslato, la terra d'origine di una persona così denominata. Al viaggiatore Enea i Penati "dovevano, infatti, fornire indicazioni precise circa la direzione da prendere nel partire da Creta: furono evidentemente queste indicazioni ad essere espresse coi termine "Còrito". Anche chi non crede all'interpretazioe di questa parola che sopra abbiamo esposto ("Còritus" = "coram itus" letteralmente =andato avanti oppure l'andata(in) avanti) ammetterà che Enea, navigando come in realtà navigò da Creta verso l'Italia, viaggiò seguendo il percorso del sole il quale va da oriente a occidente. Quindi i Penati, dicendogli: "cerca Còrito" gli avevano certamente prescritto di seguire l'andata in avanti (itus o itio coram) del sole medesimo (1). Al termine del suo giornaliero viaggio, ovviamente, il sole si corica sparendo dall'orizzonte. Inutile osservare, a questo punto, che l'unica parola latina da cui possono essere derivati in termini italiani coricarsi, corico e simili è proprio "Còritus" considerato che altra forma del termine è proprio Còricus (con la c­ al posto di t: cfr. Vocab. Lat./Ital. ad usum R. Academiae Taurinensis, Pezzana, Venetiis, 178 1). "Còritus" (in una con "còrycus") significa, come è noto, faretra (Vocab. Lat/Ital. cit.). Questo significato è palesemente connesso con l'uso a cui è adibita la faretra la quale è fatta apposta per coricarvi le frecce delle quali costituisce, appunto, il corico. E' però evidente che questo nome latino della faretra deriva dall'espressione coram itus significante, come si è detto sopra, 'L'andare in avanti del sole ossia l'andare di questo verso ovest: questa direzione, quindi, venne prescritta ad Enea dai Penati con la frase cerca còrito". Connessi con "còritus sono anche i termini chorus e circius (deformazione, quest'ultimo, di coriceus, da coricus) che sono nomi di venti (cfr. Vocab. Lat./Ital. cit.). Fu evidentemente il vento circius e non la maga Circe che ne porta il nome a tener lontano dalla sua patria Ulisse (sia pure trattenendolo presso l'odierno monte Circeo). Dovette essere, forse, l'esposizione ad occidente, punto in cui il sole "si corica, a 'creare i toponimi Cortnossa ( = "coram" itui (ad) noctem = davanti all'andata verso la notte) e "Contènebra ( = "coram itui (ad)tenebras" = davanti all'andata verso le tenebre). Torna su
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1) "Il Paropàmiso e il Càucaso determinano due correnti della popolazione, una diretta col sole, l'altra incontro ad esso (Ciò si verificò nei primordi dell'umanità: Cesare Cantù "Storia Universale, U.T.E., Torino, 1855, Tomo 1, pag. 32).

APPENDICE N. 4 IPOTESI SULLE ORIGINI DI ROMA

La materia trattata in questa appendice dovrebbe formare oggetto, come anche quella di altre appendici, d'un'estesa e approfondita trattazione. Esulando però quest'ultima dai fini e dai confini del presente lavoro, ci limiteremo ad esporre brevissimamente alcune nostre intuizioni ed alcuni riscontri indiziarii alle stesse.
A) I vocabili etruschi LUPU e LUPUCE vengono, come è noto, tradotti non etimologicamente ma esattamente dal punto di vista semantico con morto e morì. Noi, ritenendo questi vocaboli etimologicamente connessi, rispettivamente, con i latini libatus e 'libatus est (contratti, per compendio, in "libus e 'libus est", volgendo il pensiero a 'Libitina, la romana dea della morte, tradurremo LUPU con  libus ossia con" libatus che, essendo il participio passato del verbo "libare significa, come è noto, "colto a capriccio", "preso e portato via e simili espressioni perfettamente rispondenti alla funzione svolta dalla morte. LUPU è anche connesso con il nome latino lupus il quale, oltre a significare lupo (animale che "coglie la preda) indica anche e significativamente un attrezzo che serviva ad afferrare (attanagliandoli) oggetti immersi nei pozzi (cfr. Vocab. Lat./Ital. citato nel testo, voce lupus) così come "cane veniva definito un arnese usato per cavare i denti. Lupu è infine connesso (previo passaggio per 'libus" "libatus") con " libido termine, questo, indicante l'uso primordiale in auge nell'epoca dei Fauni e delle Ninfe priva di leggi sancienti legittime nozze di "cogliere (a caso, a capriccio) una persona o un rapporto con la stessa a fini d'ordine sessuale. Il termine italiano "lupanare", connesso chiaramento con LUPU è del resto eloquente al riguardo L'ancestrale senso di vergogna che accompagna ogni atto sessuale dell'uomo, indice indubbio d'una misteriosa ma reale inferiorità dell'atto stesso rispetto all'attività spirituale, determinò, in epoca protostorica con l'istituzione di nozze legittime (nonché di altri istituti del vivere civile) da parte degli uomini più evoluti i quali scelsero di vivere in comunità "chiuse" ­(agli incivili: da qui il toponimo "Clusium"!) l'emarginazione e poi la progressiva scomparsa degli aggregati umani sottosviluppati composti da persone semiselvagge, chiamati 'Fauni e "Ninfe, ridotti a vivere nelle selve. Senza avventurarsi in tali selve, da cui trassero il nome i re Silvi di Alba, nonché una rea della selva ossia "Rea Silvia", diremo subito che i "figli, gemelli poiché compatrioti, di essa (il cui nome nessuna romana mai portò) assurta a simbolo di Ninfe e ninfomani trovarono "accentiam in larem (da accio = accolgo, per metatesi di entia) pur essendo "Acca Larentia già nutrice (non madre) di 12 "figli ossia, diciamo noi, dei 12 popoli d'Etruria, detti allora i "fratelli Arvali" (i quali, come futuri sacerdoti omonimi, erano appunto dodici). (1)
B) Non a caso abbiamo parlato di cosiddetti Romolo e Remo. Che questi fossero nomi di persone fisiche è da escludersi nel modo più assoluto. A provarlo è sufficiente una semplicissima considerazione: DOPO I LEGGENDARI GEMELLI MAI PIU' NESSUN ROMANO SI CHIAMO' ROMOLO 0 REMO. (Un "tardo console e l'ultimo imperatore Romolo Augustolo appartengono già ad un'epoca rievocatrice di grandi nomi).
E questo accadeva presso il popolo che, a causa del culto spasmodico della gens rinnovava nei figli i nomi degli avi cosa che accade tuttora ed i cui componenti erano addirittura chiamati "Gentili (almeno quelli che contavano di più in base alla linea di discendenza). Nomi personali dunque no. Ma, esclusa tale ipotesi, ne resta solo un'altra: con Romulus e Remus la tradizione, nel rappresentare due gemelli tra di loro contendenti nati ed allevati alla macchia a seguito d'una delle tanti relazioni illegittime di allora (contratta "ad libitum" = "ad libum" = "ad LUPU(m)" e simboleggiata poi dalla leggendaria lupa volle senza dubbio indicare due parti o i Capi di due parti dello stesso popolo venute a contrasto. Tale nostra ipotesi ma ci sembra meglio chiamarla tesi trova riscontro nel significato dei due vocaboli quale emerge dall'analisi etimologica dei medesimi nonché dall'indubbia legittimazione che questo significato trova nelle azioni specifiche che la storia attribuisce ai due celebri personaggi. Cominciamo con l'analisi dei vocabolo Remus. Questa voce va certamente connessa col verbo "remoror" (aris, atus sum, ari) che significa tenerea bada, frastornare, ritardare col nome "rèmures" = uccelli che nei sacrifici indicavano che si dovesse ritardare; "Remoria" (orum) =  giorni nei quali si placava con sacrifici l'ombra di Remo (Vocab. Lat./ Ital. "ad usus Taurinensis Academiae, Pezzana, Venetiis, 1782, voci relat.). Il nome Remus significa quindi, palesemente; Colui che frappose ostacoli (remore) (ovviamente alla fondazione di Roma, come la storia ci ha tramandato). E suo nome personale, seppure esisteva in quei tempi privi di anagrafe almeno per i nutriti dalla lupa come lui, non ci è pervenuto, ma, ai nostri fini, ciò non ha importanza alcuna.
"Romulus" (in origine, etruscamente, "Rumulus"), a sua volta, è un vocabolo strettamente connesso (come si vedrà) col verbo "rumpo" (" is, ruptum, rumpere") significante, tra l'altro, oltre che rompere, annullare, fracassare, violare, interrompere, dividere, guastare, viziare (Vocabol. cit.,voce "rumpo").
Chi dubitasse specie a causa dell'assenza in "Romulus" della u e della "p" di "rumpo" della connessione dei predetto storico vocabolo con rumpo medesimo tenga presente:
1) che in quei lontani tempi la lettera u non si era ancora chiusa, come è notorio, a formare la o, onde Romulus doveva scriversi "Rumulus" (nell'alfabeto etrusco la u sostituisce, com'è noto, l'assente o);
2) che il vocabolo latino "rumentum" (e lo sottolineiamo perché decisivo ai nostri fini) pur privo di una "pi" tra "m" ed "e", vale "interruzione" (voce augurale annota il Vocabolario Lat./Ital. cit. nel quale leggiamo il vocabolo ed il relativo significato). Rumentum, in quanto significa interruzione, concetto questo, espresso dal verbo rumpo, corrisponde, perciò, a " rum(p)imentum "(="rottura") sia che il vocabolo debba intendersi quale compendio (= abbreviazione) sia che vada inteso, lo stesso, quale forma arcaica "toutcourt". Quindi, l'assenza del morfema pi in "rumenturn', vietadi opporre all'equiparazione l'assenza del medesimo "pi" in Romulus, onde il concetto d'interruzione va inesorabilmente connesso sia a "rumentum" che a Romulus. Quest'ultimo vocabolo equivale, perciò, al diminutivo "RUMPILUS" o "RUMPULUS" ossia al "piccolo rompitore, cioè al piccoloscissionista (nei confronti di Alba sua patria, ovviamente!) La notissima tradizione storica fornisce, del resto, tale luminosa conferma al predetto significato che non spenderemo altre parole in merito. Inutile sottolineare, a questo punto, che col vocabolo "rumentum" appare chiaramente connesso anche il toponimo "Roma il quale perciò, corrispondendo a "Ru(m)pta", non può significare che ''La scissa''. Aggiungiamo anche, che, "rumentum", in quanto risulta usato dagli Auguri nei loro riti (v. sopra) è da ritenersi vocabolo antichissimo (come tutte le parole rituali conservate nei secoli da tutte le religioni) e come tale fonte oltremodo luminosa di conoscenza storica. Rileviamo infine che Roma (detta in etrusco ruma come attesta l'aggettivo RUMAK nelle note pitture della tomba di Francois in Vulci) venne evidentemente così chiamata e cioè "Rupta" ossia " la (città) scissa, non soltanto perché si era separata da Alba (che poi inglobò sotto Tullio Ostilio) ma soprattutto perché sin dall'inizio e poi sempre più gradualmente, si proclamò sostanzialmente autonoma (tranne che perciò che concerneva la religione) dalla Confederazione etrusca dei II populi della quale i colli da lei dominati facevano indubbiamente parte: tutta la storia successiva alla sua fondazione conforta questa nostra ipotesi facendo fede altresì dell'attendibilità dei significato da noi attributo al suo nome.
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C) Come i vocaboli Romolo e Remo indicano e lo si è visto non già persone bensì attività proprie di persone, così i nomi dei re di Roma riguardano attività e caratteristiche peculiari ai medesimi. Quelli che c'insegnano come nomi proprii dei re, scriveva Cesare Cantù (Storia degli Italiani, II ediz., vol. 1, Unione Tip. Torinese, 1868, pag. 73), forse non sono che appellativi di caratteri ideali.... Noi, essendo dello stesso avviso, cercheremo di chiarire i singoli caratteri ideali di ciascun re.

1) Numa Pompilio E' il celebre re sacerdote ed il suo nome significa (quello) delle pompe, ossia cerimonie, dei numi.
2) Tullio Ostilio E' il famoso reguerriero che sconfisse molti nemici attestati intorno a Roma. Il suo nome significa infatti, palesemente, (colui) che toglie via (di mezzo) i nemici.
3) Anco Marzio Il suo nome significa (quello) degli ancili di Marte, anche se la caduta del cielo di tale scudo (cui ne furono poi, come è noto, aggiunti altri) viene attribuita dagli studiosi antichi e moderni, al regno di Numa.
4)Tarquinio Prisco Significa semplicemente il primo dei re originari di Tarquinia": ciò è tanto vero in quanto si sa che l'autentico nome di questo greco naturalizzato tarquiniese era Demàrato (evidentemente allora solo in Greecia c'era l'anagrafe).
5) Servio Tullio Significa (quello che è stato) tolto dalla (condizione di) servitù­   il che corrisponde perfettamente a quanto di questo re il cui nome autentico (ed etrusco) era, come è noto, MASTARNA narrano le fonti antiche.
6) Tarquinio il Superbo dal significato ovvio: così chiamato, anche per distinguerlo dal primo Tarquinio, perché, come attestano le fonti, rifiutò il funerale pubblico al suocero.
E' noto che Roma, dopo essersi scissa (ved. sopra) da Alba ed aver inglobato questa sua madre patria, lottò per secoli contro l'Etruria che, parimenti, inglobò. Quello che non è noto ma che noi riteniamo certo è che, sia Alba che la ribelle Roma facevano parte, sin dai primordi, della confederazione etrusca dei II Populi''. Reminescenza, sintomatica ma eloquente, di tale status per ciò che concerne Roma è la leggenda relativa ad Acca Larenzia ed ai cosiddetti "fratelli Arvali". Secondo Masurio Sabino (citato da Aulo Gellio nelle sue Notti attiche, VIII, 8) Romolo (v. sopra) prese il posto di un figlio morto dei dodici che aveva Acca Larenzia; a lui e ad altri figli venne dato il nome di "Fratelli Arvali" onde l'omonimo collegio sacerdotale romano (avente per insegna una corona di spighe ed una fascia bianca) che fu sempre composto di dodici membri.(1) Dodici, osserviamo noi, erano i Populi della confederazione etrusca simboleggiati, a nostro avviso, in epoca romana, dal 12 fratres (2) arvales" (del cui celebre inno diamo in calce la nostra versione). Il tempio degli Arvali era situato guarda caso proprio sulla zona collinosa posta presso la riva destrae cioè in origine, etrusca, dei Tevere, (zona "Magliana"). Come c'informa Tacito, un'ambasciata di Sardi, capitale della Lidia (regione che la tradizione romana riteneva, come è noto, progenitrice degli Etruschi), chiese a Tiberio che alla loro città fosse concesso l'onore di dedicarvi un tempio a quel l'imperatore. Poiché altre città dell'Asia Minore rivendicavano lo stesso onore, gli ambasciatori di Sardi esibirono al Senato romano il Decreto Etrusco che sanciva consanguinei Lidi e Romani in quanto gli Etruschi avrebbero avuto per progenitori i Lidi medesimi. Considerando che questa notizia trasmessaci da Tacito è sicura, data l'enorme attendibilità del maggiore tra gli storiografi romani, anche il meno perspicace tragli eventuali nostri lettori comprenderà agevolmente che i Romani dovevano ritenersi consanguinei degli Etruschi: l'esibizione al Senato, da parte dei Lidi, del Decreto Etrusco di cui sopra, poteva, infatti, essere utile a sostenere le ragioni di quel popolo soltanto se questo pensava che i Romani fossero certi di essere consanguinei degli Etruschi. Ed allora, i Latini, come si definirono in epoca classica i Romani, chi erano? Basta dare uno sguardo alla carta geografica dell'antico Lazio per comprendere che fu la antica scissione di Roma dalla confederazione etrusca seguita alla scissione da Alba a determinare il sorgere del nomen latinum il quale non può significare altro che Gente (nomen) abitante in zona pianeggiante (lata) così chiamata onde distinguerla dagli abitanti dei monti ("Albani" = "alpani" ossia alpini, la p latina sostituendo la b assente nell'alfabeto etrusco). Ma occorre e ci si consenta qui un volo pindarico attraverso i secoli volgendo un lungimirante sguardo alla carta geopolitica del Nuovo Mondo popolato da Genti che vennero rese civili dalla civiltà sorta proprio nell'antico Lazio. Diciamo allora che, come i coloni immigrati dall'Inghilterra (e poi dalla Francia) nel Nord America non si chiamarono più Inglesi (o Francesi) ma Americani; come i colonizzatori dei Centro e dei Sud dell'America non si chiamarono più Spagnoli o Portoghesi; così nei tempi antichi, gli immigrati da Alba (e poi dalla Sabina e da Tarquinia) nella pianura sita sulla riva sinistra dei Tevere non si chiamarono più Albani né Sabini né Tarquiniesi ma Latini ossia abitanti (sia pure arroccati su basse colline) dell'estesa (lata) zona territoriale pianeggiante da essi colonizzata. Prima di queste emigrazioni delle genti che concorsero allo sviluppo di Roma una stirpe latina non esisteva. Se, infatti, diamo uno sguardo al territorio che circonda Roma troviamo che nella remota antichità vi abitavano popoli diversi dai cosiddetti Latini: i Volsci (nomen corrispondente ai Vulsci: cfr. Livio, I, 24, nonché le considerazioni svolte al riguardo nel pres. lavoro) stanziati ad Anzio e a Velletri, gli Etruschi a Tusculum (come il toponimo attesta) ad Antemnae, a Fidene ed a Veio ecc. Se teniamo presente che gli Albani, progenitori dei Romani, nelle fonti antiche vengono sempre chiamati solo con quel nome, occorre chiedersi: dove era, nei primordi, il posto per una originaria stirpe dei Latini, considerando che le terre site sulla riva destra del Tevere appartenevano allora ed appartennero per centinaia d'anni dalla fondazione dell'Urbe agli Etruschi? Nell'antica Italia pressoché interamente etruschizzata come attestano le varie fonti si svolgevano, come è notorio numerose guerricciole intercomunali" causate da discordie circa il possesso di alcuni territori. Di questa situazione conflittuale è reminescenza nel celebre inno dei (cosiddetti) Fratelli Arvali": (ma vedi la prec. nota) che venne trovato scolpito nei ruderi dell'omonimo tempio sito, guarda caso, proprio nella zona periferica di Roma sita alla destra del Tevere e che era in antico, etrusca. Trascriviamo tale canto con la nostra traduzione:
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INNO DEI FRATRES ARVALES:
E NOS LASES JUVATE (ter)
NEVE LUERVE MARMAR SINS INCURRERE IN PLEORES (ter)
SATUR FU FERE MARS LIMEN SALI STA BERBER (ter)
SEMUNEIS ALTERNEI ADVOCAPIT CONCTOS (ter)
E NOS MARMOR JUVATO (ter)
TRIUMPE, TRIUMPE, TRIUMPE, TRIUMPE, TRIUMPE!
Prima di trasformare in latino classico le parole arcaiche (ma non tanto) del canto degli Arvali, è appena il caso di premettere: I) che va risolto il compendio (usato, come è noto, in età romana) di alcuni termini (ades. "sins" =  "sinatis", "e" =  "et", ecc.); II) che alcune vocali hanno un valore fonetico diverso da quello che dall'epoca classica venne a noi tramandato (ad es. "berber" = "barbar"); III) che i due ve con cui terminano le parole neve luerve corrispondono al lat. classico ve indicante, come è noto, contrarietà, avversione, alternatività e sono ripetuti nei due susseguentisi termini proprio come sono ripetuti nell'espressione classica "plusve minusve significante "più o meno (cfr, circa tale espressione, Campanini Carboni, Vocab. Lat./Ital. voce "ve).
Trasposizione in lat. class. del canto degli Arvali:

E(
t) nos Lares juvate (ter)
Neve luere mar(tem) mar(te) (= bellum bello) sin(ati)s incurrere in plures (ter).
Satur fu(it) feru(s) Mars (= fero bellum) limen sali(re) sta(nte) barbar(o) (ter).
Sumen(d)is alterni(s) advocabit cunctos (ter)
E(t) nos mar(s) mor(s) juvato (ter)
Triumpho, triumpho, triumpho, triumpho, triumpho!

Anche noi o Antenati favorite
affinché lo scontare, invece, guerra con guerra, non permettiate che incorra su molti.
Satollo fu il feroce Marte dal saltare (oltre) il confine astenendosi il Barbaro.
Mediante quelli che devono essere presi = uccisi (Marte=la guerra) difenderà (farà da avvocato a) tutti. Ed anche a noi il "Marte morte" (= "la guerra mortale) dovrà fornire
Il trionfo, il trionfo, il trionfo, il trionfo, il trionfo (ripetuto cinque volte) (una volta per ciascuno dei 5 versi precedenti).

____________________________________________________
1) Cfr. Aulo Gallio, Le notti attiche, VIII, 8, vedi il seguito del testo, punto C.
2) Come in un altro saggio abbiamo provato, il lat. frater è compendio di fraudator" (o di 'Furator) cosi come soror" aggiungiamo qui lo è di "sortitor (= "sortitri "): mentre i fratelli che, propriamente sono detti in latino, germani", si defraudano"(senza dolo) reciprocamente, pro quota, dall'asse ereditario, le sorelle invece escono o si dividono" (sortiunt) dalla casa paterna per andare spose in casa altrui. "Fratres Arvales" significò, quindi, in origine, letteralmente, frodatori dei campi" e sostanzialmente "coloro che contendevano ad altri il possesso di certi territori: cfr. la nostra traduzione dei celebre inno degli Arvali.
APPENDICE N. 5

Iscrizione (C.I.E. 623 1) incisa sul pilastro d'una tomba etrusca di Cerveteri (detta erroneamente "tomba dei Claudi).
Traslitterazione:
LARIS AULE LARISAL CLENAR SVAL CN SUTHI CERICUNCE
APAC ATIC SANISVA THUI CESU
CLAVTIETHURASI

Traduzione in latino letterale e pedissequa (con soluzione dei compendi, ovviamente doverosa per l'interpretazione delle epigrafi etrusche così come lo è per quella delle epigrafi latine):

" 'Laris Aulus "Larisalis" (= filius Laris) c(o)len(d)a r(e) (= colendi status gratia) suale (= sui) c(u)n(eo) (= clavo) su(b)di(tus) (=sepultus) (quia fuit) 'Caere cunc(t)a(e)" (= Communitati caèriti) abac(arius) ad(d)ic(tus), s(c)an(d)c(i) sua tu(er)ì ces(sat)u(s), Claudi(a)e(Praefec)tura (e) s(c)i(to). Torna su

 

BIBLIOGRAFIA
Massimo Pallottino  scologia, Hoeplì, Milano Vocabolarium latinum et italicum ad usum Taurinensis Academiae, edito da Nicola Pezzana in Venezia nel 1781,
Giovenale Satire
Gaspare Pontrandolfi Gli Etruschi e la loro lingua, Bastogi, Livorno (articoli di F. Skutsch, Gustav Korte e Thulin per la Pauly Wissowa Encyciopadie).
H. H. Scullard  Le città etrusche e Roma, Il Polifilo.
Gaio Plinio Secondo "Naturalis Historia".
M. Torelli

Storia degli Etruschi, Laterza. (parte storica in) Rasenna, Credito Italiano.

Vocabolario greco-italiano  dal vocabolario greco-tedesco di Carlo Schenkel, trad. da F. Ambrosoli, edit. Carlo Clausen, Torino.
Werner Keller  La civiltà etrusca, Garzanti.
G. Barbieri  Idustria e politica mineraria nello Stato pontificio dal '400 al '600, Cremonese edit., 1940.
Ottorino Morra   Tolfa profilo storico e guida illustrativa, Cassa di Risparmio di Civitavecchia.
Giuseppe Cola I Monti della Tolfa nella storia, I° La Tolfaccia e Forum Clodii.

I Monti della Tolfa nella storia, II° Itinerari storici, Pro Loco, Tolfa (Roma) 1985.

S. Bastianelli  Civitavecchia vedetta imperiale sul mare latino (parte storica, p. 33), ediz. Latina Gens.
(1) Altre opere sono citate nel testo.
A. Gamurrini G. F.  "Iscrizioni latine di Forum Cassi, di Vicus Matrinus, di Bieda, di Barbarano e di Tolfa nell'Etruria, in Notizie     degli scavi d'antichità, 1882, pag. 107 112; autore cit. in A. Solari, Topografia storica dell'Etruria, Appendice, p, 68, Multigrafica Editrice, Roma 1976.
Pinto   Dizionario delle antichità romane, GHE, disp. I
Ida Calabi Limentani  Epigrafialatina, Císalpino Goliardica, Milano.
W. Bianchi  Velsina,Roma 1978.

L'interpretazione comparativa della lingua etrusca, Roma 1978.

Servio   Ad Aeneidem.
Aulo Gellio  Le notti attiche, trad. e note di Luigi Rusca, libri I , B.U.R., Rizzoli, 1968.
Cesare Cantù Storia Universale, Tomo I, UT.E., Torino 1855.
Tacito          Annali.
A. Morelli  Dei e miti, fratelli Melita edit.
JurgenMisch   Il regno longobardo in Italia, trad. di Claudio Salone, Eurodes 1979.
Voltaire  ABC e Dialoghi di Evemero, trad. di Gigliola Pasquinelli, Paolo Boringhieri editore.
F. Gregorovius   Storia di Roma nel medioevo, cura e trad. di Vittoria Galvani e Pia Micchia, Newton Compton edit.
G. Peroni Il bronzo finale in Italia, De Donato ed., 1980.
A. Naso   La necropoli etrusca di Pian della Conserva, Gruppo archeol. romano, 1980.
A. Stefanini   Il ponte di Seiano o del diavolo, estr. dal Boll. dell'Ass. archeol. Centumcellae anno IV, n. 4,196263,
Erodoto  Storie, IV, trad. di Gina Calzavara, Carlo Signorelli Edit.
   
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